2015/10/28

Dare la caccia alle bufale è inutile, secondo uno studio. Sarà, ma continuerò a farlo

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Ecco come mi sento quando racconto
una storia antibufala meravigliosa
Fare debunking, ossia sbufalare pubblicamente le notizie false, sarebbe inutile e forse addirittura controproducente, perché chi è incantato dalle bufale non ne vuol sapere di cambiare idea e quindi il debunking non converte nessuno ma semmai esaspera e polarizza ulteriormente i punti di vista. Questa, in estrema sintesi, è l’amara, disperante conclusione di una ricerca in buona parte italiana pubblicata recentemente e intitolata Debunking in a World of Tribes, a cura di Fabiana Zollo, Alessandro Bessi, Michela Del Vicario, Antonio Scala, Guido Caldarelli, Louis Shekhtman, Shlomo Havlin e Walter Quattrociocchi (IMT Alti Studi, Lucca; IUSS, Pavia; ISC-CNR, Roma; 4LIMS, Londra; Bar-Ilan University, Israele).

Se ne parla molto in Rete e in parecchi mi avete chiesto cosa ne penso, specialmente dopo che ho condiviso il palco della Festa della Rete a Rimini (video) proprio discutendone con Quattrociocchi, coordinatore del laboratorio che ha svolto la ricerca, per cui scrivo queste righe per rispondervi e per creare uno spazio di discussione tramite i commenti.

Non entro nel merito dei dettagli metodologici della ricerca perché non sono competente in questo campo: li presumo validi fino a prova contraria. Però mi vengono alcuni pensieri quando guardo il campione usato per la ricerca, ossia circa 54 milioni di utenti Facebook statunitensi, sottoposti ad analisi quantitativa, e “la risposta dei consumatori di storie complottiste a 47.780 post di debunking”. 

Il primo pensiero è che Facebook non è il mondo reale. È una sua versione distorta, filtrata, nella quale si fa notare chi strilla di più, chi ha più tempo da perdere e chi vuole mettersi in mostra. Non mi sorprende, quindi, che la ricerca documenti che chi è complottista su Facebook tende a restare complottista anche dopo essere stato esposto a contenuti di debunking. Lo vedo quasi quotidianamente nelle discussioni fra complottisti (di qualunque genere, da quelli che credono che l’11 settembre fu un autoattentato a quelli che sostengono l’esistenza degli uomini lucertola che governano segretamente il mondo) e non complottisti. Lo vedo in particolare proprio sui social network, che sono un pessimo ambiente per discussioni serie: troppo dispersivi e predisposti ad alimentare tifoserie (tramite i like e simili), battibecchi, esibizionismi e attacchi personali.

Capisco che per i ricercatori non ci sia una risorsa statistica migliore di Facebook, ma mi chiedo se usare Facebook per vedere chi si converte dal complottismo sia un po’ come andare allo stadio durante un derby per vedere chi cambia squadra del cuore.

Un grafico eloquente della suddivisione impermeabile
in tribù delineata dalla ricerca.

Il secondo pensiero è il silenzio della maggioranza. Non esistono soltanto complottisti e debunker: in mezzo ci sono i tanti dubbiosi, gente che non passa tempo a postare e quindi probabilmente non viene rilevata da una statistica, però di fatto legge vari punti di vista, si fa delle domande su chi abbia ragione e magari cambia idea senza dirlo pubblicamente. So che i “convertiti” esistono, perché mi scrivono per raccontare la loro esperienza e li incontro alle conferenze. Sono tanti? Sono statisticamente insignificanti? Può darsi. Ma esistono. Ed è per loro che io e tanti altri scriviamo e ci diamo da fare: sappiamo benissimo che il complottista duro e puro non cambierà idea neppure di fronte all’evidenza e con lui non perdiamo tempo a cercare di dialogare (anche perché percepisce il dialogo come un tentativo dei Poteri Forti di plagiarlo, per cui non ascolta nemmeno). Se evitiamo a un dubbioso di cadere nel vortice della paranoia, di affidarsi a un ciarlatano per la salute dei propri figli, di rovinarsi la vita con persecuzioni, paure e fini del mondo immaginarie, abbiamo ottenuto il nostro scopo. E questo succede: succede solitamente lontano dai riflettori, lontano dalla ribalta pubblica dei social network, spesso con imbarazzo perché significa dover ammettere di aver creduto a delle cazzate monumentali.

Insomma, fare debunking non salverà tutti, ma salva qualcuno, ed è sempre meglio che non fare niente. Un medico sa che non riuscirà a guarire tutti i propri pazienti, ma non per questo decide di smettere di fare il medico, di non provare a curarli e di dichiarare che la medicina è inutile. Ogni paziente salvato lo ripaga delle sue fatiche. E come nota Quattrociocchi in un’intervista per Repubblica, l’alternativa angosciante al debunking per ora è lasciare che le scimmie strillino indisturbate: “Bisogna costruire strategie di comunicazione ad hoc”, dice, ma non specifica quali. In attesa che qualcuno le costruisca, io e i miei colleghi andremo avanti a fare debunking.

E a proposito di fatica, ovviamente e giustamente la ricerca statistica in questione non considera il piacere di fare debunking. Anche le tesi di complotto più deprimenti e inquietanti sono un’occasione per scoprire aspetti poco conosciuti della scienza e raccontarli. Per me, e per tanti come me, fare indagini antibufala non è soltanto un dovere morale per contrastare la marea montante di scemenze socialmente pericolose: è un piacere. Studiare e debunkare le tesi alternative sullo sbarco sulla Luna mi ha permesso di conoscere persone straordinarie (compresi gli astronauti che sono andati sulla Luna) e di capire principi di fisica e volo spaziale che altrimenti non avrei scoperto; studiare l’11/9 mi ha dato l’occasione di capire meglio il mondo dell’aviazione civile e le strutture degli edifici e i loro rischi e di ammirare l’eroismo infinito dei vigili del fuoco; studiare l’ufologia mi ha consentito di scoprire fenomeni astronomici e aerei meravigliosi. E in generale mi ha permesso di sviluppare un senso critico, nei confronti di qualunque fonte d’informazione (“ufficiale” o meno), che mi torna utile in mille occasioni quotidiane.

Insomma, io farei debunking anche se non servisse a nulla: perché comunque è un modo affascinante per scoprire storie straordinarie ma reali. E condividerle con voi.


2015/11/07


Gianluca Nicoletti parla di questo studio e del mio commento in questo video nel sito de La Stampa.

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