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2016/02/26

Apple vs. FBI: perché Apple si rifiuta di sbloccare l’iPhone di un terrorista?

Tim Cook, CEO di Apple, ha rilasciato una lunga intervista alla ABC News che contiene una spiegazione molto eloquente ed appassionata del rifiuto di Apple di sbloccare l'iPhone del terrorista Syed Farook, che con la moglie ha ucciso quattordici persone a San Bernardino, in California, lo scorso dicembre.

Il problema di fondo, spiega Cook, è che dal punto di vista tecnico è impossibile sbloccare quell’iPhone senza creare uno strumento (una speciale versione di iOS senza funzioni di sicurezza) che sarebbe in grado di sbloccare qualunque iPhone al mondo. Questa chiave universale sarebbe incredibilmente desiderabile per qualunque organizzazione criminale o per qualunque governo e quindi chiunque la custodisse sarebbe costantemente attaccato dai migliori intrusi informatici del mondo, compresi quelli assoldati dai governi stranieri.

Di conseguenza prima o poi il passepartout sfuggirebbe alla custodia di chiunque, compresa quella di Apple (che è l’unica in grado di crearlo, perché gli iPhone accettano soltanto software firmato digitalmente da Apple) e sicuramente di quella delle autorità federali americane, che (lo ha sottolineato Cook) si sono già fatte sfuggire i dati sensibili di milioni di americani in una serie imbarazzante di attacchi informatici.

Verrebbe insomma compromessa completamente la sicurezza di centinaia di milioni di utenti onesti che affidano ai propri telefonini informazioni sensibili come, per esempio, dati di lavoro, messaggi confidenziali o (altro esempio citato da Cook) i luoghi in cui si trovano i loro figli.

L’unico modo per evitare che la chiave universale finisca in mani ostili è non crearla affatto. Tim Cook l’ha definita “l’equivalente software del cancro”: paragone biologicamente poco calzante ma sicuramente efficace dal punto di vista emotivo.

Non è soltanto una questione di difendere l’immagine di affidabilità dei prodotti Apple, perché Tim Cook ha fatto notare che se si accetta il principio che un tribunale è in grado di ordinare ad Apple di scrivere un software del genere può ordinarlo a qualunque altro fabbricante di telefonini.

La questione, insomma, non è se sbloccare o no il telefonino di un terrorista, come molti la presentano, ma è se creare un grimaldello che mina alla base la sicurezza di milioni di persone. E non va dimenticato che l’iPhone del terrorista è ora inaccessibile per colpa dell’FBI, che ha maldestramente cambiato la password dell’account iCloud associato a quel telefonino: se non l’avesse fatto, l’iPhone – spiega Cook – avrebbe depositato una copia del proprio contenuto sui server iCloud, dai quali Apple avrebbe potuto consegnarla alle autorità inquirenti.

In tutta questa vicenda pesa parecchio l’assenza di un’altra sigla di tre lettere molto celebre: NSA. A quanto risulta dagli atti, stranamente gli inquirenti finora non hanno chiesto aiuto a questi maestri dell’intrusione. È perché l’NSA non è in grado di scavalcare la sicurezza dei prodotti Apple, oppure perché è in grado di farlo ma non vuole che si sappia? Entrambi i casi sono imbarazzanti: il primo implica inadeguatezza e rivela i limiti delle capacità dell’NSA, mentre il secondo implica che nessuno può fidarsi dell’iPhone (specialmente imprenditori, giornalisti, politici o governanti stranieri).

E per chi trova che questa questione tecnica sia troppo nebulosa e complicata e che un’azienda non dovrebbe avere il diritto di creare un dispositivo che renda inaccessibili alle forze dell’ordine i dati di un criminale o di un terrorista, propongo un paragone più semplice: se valesse questo principio, allora sarebbe illegale anche qualunque distruggidocumenti che producesse pezzetti che il governo non è in grado di rimettere insieme.

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