2013/12/27

Filtri antiporno, autogol spettacolare

Questo articolo era stato pubblicato inizialmente il 27/12/2013 sul sito della Rete Tre della Radiotelevisione Svizzera, dove attualmente non è più disponibile. Viene ripubblicato qui per mantenerlo a disposizione per la consultazione.

Ogni tanto qualcuno si sveglia e decide che è giunto il momento di mettere fine alla pornografia su Internet. Purtroppo, per ragioni anche tecniche, è come decidere di vietare per legge al vento di soffiare. Di recente ci ha provato il governo britannico, imponendo una serie di filtri antiporno che tutti i fornitori di Internet nel Regno Unito sono obbligati ad attivare. I filtri bloccano i contenuti definiti “osceni e di cattivo gusto”, i siti che istigano all'odio e all'autolesionismo, i siti che promuovono droghe, alcolici e tabacco, e i siti d'incontri. I singoli utenti hanno l'opzione di rifiutare il filtro, ma il rifiuto implica essere schedati automaticamente come pornomaniaci.

Il risultato, esattamente come avevano previsto i tecnici che sono rimasti inascoltati dai politici, infervorati da un furore puritano molto spendibile con l'elettorato, è stato un flop clamoroso. Tanto per cominciare, i filtri sono stati aggirati nel giro di ventiquattro ore grazie per esempio a un'estensione di Google Chrome, battezzata Go Away Cameron (dal nome del primo ministro che ha promosso la campagna pro-filtri) e liberamente scaricabile. L'estensione funziona fra l'altro anche per eludere i filtri di altri paesi.

Ma la conseguenza peggiore di questi filtri è che hanno reso inaccessibili (salvo uso di tecniche di elusione) molti siti assolutamente legittimi, primi fra tutti quelli di educazione sessuale per minori e per il supporto nei casi di abusi e violenza sessuale domestica, promossi dalle autorità locali. Nelle maglie del sistema di blocco sono finiti anche la British Library (la biblioteca nazionale britannica), i siti del Parlamento e del governo britannico e molti altri siti che nulla hanno a che vedere con la pornografia. Soprattutto ci è finito il sito di Claire Perry, la parlamentare che si è adoperata intensamente per l'introduzione di questi filtri.

La ragione è molto semplice: il sito della Perry, nel fare campagna in favore di filtri antipornografia, ha ovviamente usato frequentemente parole legate all'argomento, come porn oppure sex, col risultato che i filtri, che agiscono in gran parte ciecamente sulla base delle parole presenti in una pagina Web senza valutarne il contesto, hanno censurato la parlamentare che li aveva chiesti.

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