2003/03/04

[IxT] #2003-014 (4/3/2003). Perché si fa una guerra? Te lo spiega il Politecnico

Sta imperversando nella Rete italiana un documento in formato PowerPoint, del peso di circa 170K, che descrive uno “studio del Politecnico di Milano”, secondo il quale la presunta imminente guerra in Iraq sarebbe un colossale affare che agli Stati Uniti non costerebbe un centesimo, ma dal quale anzi gli USA trarrebbero circa 20 miliardi di dollari di guadagno, e che la guerra sarebbe in realtà pagata da “noi”, che presumibilmente saremmo noi europei.

L'indagine antibufala completa, con il testo integrale dell'appello e le smentite del Politecnico e di Emergency, è disponibile qui:

http://www.attivissimo.net/antibufala/perche_si_fa_guerra.htm

L'appello dichiara di provenire da una fonte apparentemente autorevole: uno “studio” (o una “lezione”) del Politecnico di Milano. Questo fa pensare che si tratti di una serie di dati raccolta scrupolosamente, attingendo alle fonti più affidabili e sottoposta al vaglio scientifico che ci si aspetta da uno studio condotto da esperti universitari. Purtroppo non è così.

Infatti non si tratta di uno studio del Politecnico di Milano, ma semplicemente di “una risposta a una domanda al termine di una lezione”, data da un professore, e poi ripresa da uno studente che l'ha trasformata in un documento PowerPoint, aggiungendovi parecchi svarioni. Inoltre il professore in questione ha dichiarato (come potete leggere nell'indagine completa) che l'unica fonte di tutti i dati è un libro di Lucia Annunziata, sulla cui affidabilità non mi permetto dubbi, ma che rimane comunque una fonte piuttosto indiretta e poco ufficiale dalla quale attingere informazioni.

Non solo: i dati sono stati riportati “a memoria”, come spiegato dal professore del Politecnico, quindi senza verificarli sul testo dell'Annunziata. Con tutto il rispetto per le capacità mnemoniche del professore, questo che non promette bene per la loro esattezza. Infatti il professore ha dichiarato, come potete leggere nell'indagine completa, che le cifre sono diverse da quelle riportate nell'appello.

C'è di peggio: come accennavo, l'appello che circola non è stato redatto direttamente da un responsabile del Politecnico, ma semplicemente ripreso da uno studente che, racconta il professore, “ha creato a mia insaputa il file che sta circolando, indicando solo indirettamente che la redazione non è mia (“Tratto da …”), senza precisare che citavo a memoria (le cifre reali sono più alte da quelle da me riportate), introducendo alcune imprecisioni (ad esempio che le "sette sorelle [sono], tutte americane, di cui 5 di proprietà statale”) e notizie di cui non conosco l’attendibilità”.

Riassumendo: l'appello si basa su dati citati andando a memoria, tratti da un'unica fonte giornalistica, e conditi con imprecisioni aggiunte da terzi. Altro che “studio del Politecnico”.

I risultati di questa catena di leggerezze sono piuttosto vistosi. L'appello, infatti, contiene numerose inesattezze. Per esempio, il petrolio è salito sì a 42 dollari il barile durante la Guerra del Golfo, ma per un periodo breve, ed è sceso subito dopo a livelli inferiori a quelli prebellici; pertanto sembra assai poco plausibile un fulmineo “guadagno di 60 miliardi di dollari”.

L'affermazione che “nel Medio oriente l'estrazione ed il commercio del petrolio è TOTALMENTE in mano alle 7 sorelle (Shell, Tamoil, Esso...) tutte americane, di cui 5 di proprietà statale americana” è clamorosamente errata, e per ben tre ragioni:

-- primo, l'estrazione ed il commercio del petrolio mediorientale non è affatto "totalmente" in mano a società americane: per esempio, società russe, cinesi e francesi hanno sostanziosi contratti per l'estrazione del petrolio iracheno, bloccati dall'embargo ONU (http://www.msnbc.com/news/824407.asp?cp1=1). La presenza statunitense è preponderante, ma non assoluta.

-- secondo, non esistono compagnie petrolifere “statali” negli USA. Sono tutte società private. Pertanto la ripartizione dei presunti “guadagni” fra “governo USA” e “privati USA” non ha senso. Al massimo, si può dire che gli ipotetici guadagni sono andati tutti alle società petrolifere statunitensi, ma non certo al governo USA.

-- terzo, la Tamoil è una società libica e non una multinazionale USA, come si rileva facilmente da una ricerca in Google.

L'appello afferma anche che le armi di distruzione di massa sarebbero “sviluppabili solo con un'altissima tecnologia e notevoli capitali, due cose che l'Iraq proprio non possiede”. Purtroppo, invece, le tecnologie necessarie per le armi chimiche sono molto modeste e l'Iraq dispone sì dei capitali per fabbricarle, come ben sanno i curdi e come dimostrato dalle recenti operazioni ONU di distruzione di testate chimiche all'iprite e dalla distruzione dei missili al-Samoud II, che di certo non costano noccioline. Così come di certo non costano quattro soldi i numerosi palazzi faraonici di Saddam.

Ovviamente la presenza di errori così macroscopici nel documento pone seri dubbi sull'esattezza delle altre informazioni riportate. Il vero problema è che nessuna di queste informazioni viene citata fornendo una fonte, e questo è un pessimo modo di operare. Ci viene chiesto di credere sulla fiducia a quanto viene detto: altro che “ragionare con la propria testa” come dice l'appello.

Ma soprattutto, a prescindere dall'esattezza o meno delle cifre citate, non sta in piedi il ragionamento “la Guerra del Golfo l'abbiamo pagata noi”. Secondo l'appello, l'avrebbero pagata “quelli che utilizzano il petrolio... cioè noi!”. Questa frase sembra creare una contrapposizione tra “noi” europei e “loro” americani, per cui si ha l'impressione che gli USA, da bravi capitalisti purosangue, abbiano fatto la guerra e intascato miliardi di dollari spillandoli tutti agli europei.

Ma se il prezzo del petrolio aumenta, aumenta in tutto il mondo, Stati Uniti compresi. E mi pare proprio che anche gli americani consumino petrolio nelle loro auto, nel riscaldamento e nell'industria, proprio come noi europei (forse di più), e se il petrolio rincara, rincara anche per gli americani. In altre parole, un rincaro del petrolio ricade su tutti i paesi del mondo e persino sui militari e sui governi, dato che anche loro devono pagare il carburante ai prezzi maggiorati.

La Guerra del Golfo, pertanto, l'hanno pagata anche gli USA sotto forma di petrolio più caro. Si può argomentare forse che c'è stato un arricchimento da parte delle compagnie petrolifere a danno dei consumatori (di tutto il mondo, americani compresi) e dei governi (di tutto il mondo, americani compresi), ma si tratta di un arricchimento che ha beneficiato anche le compagnie petrolifere non-USA (arabe, russe, venezuelane, libiche, cinesi, francesi e britanniche, per esempio). Di certo, insomma, la situazione non è così semplice come viene dipinta dall'appello.

Il mio consiglio è pertanto di non distribuire l'appello, in quanto contiene dati e ragionamenti errati che di certo non aiutano la causa della pace come invece dichiarano di voler fare. Non è certo con dati falsi e ragionamenti incoerenti che si aiuta la gente a”ragionare con la propria testa“.

Sul fatto che nell'intervento militare in Iraq vi siano in gioco interessi economici enormi, come in qualsiasi operazione militare, non vi è alcun dubbio. L'aspetto bufalino sta nell'uso di dati errati, nelle dichiarazioni di falsa autorevolezza e nel ragionamento “paghiamo soltanto noi europei”. In tutti questi sensi, l'appello è una bufala.

Un'altra ottima ragione per non distribuire l'appello è che diffonderlo potrebbe causare dei danni di immagine al Politecnico e/o ad Emergency, che un lettore distratto potrebbe ritenere ideatori e "autenticatori" della cosa. Visto il lavoro che fa Emergency in giro per il mondo, non mi sembra il caso di distribuire dei documenti che rischiano di provocargli un danno di immagine.

Insomma, questa è una classica dimostrazione dei danni involontari che può causare la diffusione di un appello senza le debite precauzioni: lo studente l'ha fatto circolare, e chi ci rimette adesso è il professore, tempestato di richieste di chiarimento e diffamato, in un certo senso, dal fatto che gli vengono attribuite dichiarazioni grossolanamente superficiali e inesatte.

Come craccare un PIN nella pausa pranzo

Qualche giorno fa ho scritto per Apogeonline un articolo sui sistemi che proteggono le carte di credito: è saltato fuori che sono molto più vulnerabili di quanto si pensi. La scoperta di un esperto di sicurezza, che ha dimostrato che bastano in media tredici tentativi a un addetto ai lavori per scoprire il PIN di una carta i credito, ha mandato nel panico la Diners, che ha tentato istericamente (e c'è riuscita) di censurare la pubblicazione scientifica della notizia, anche se ormai è di dominio pubblico. Un clamoroso esempio di come la "security through obscurity" non funziona, eppure viene ostinatamente utilizzata da banche e governi:

http://www.apogeonline.com/webzine/2003/02/25/01/200302250101

Trovate anche un approfondimento sulla vulnerabilità delle carte di credito sulla rivista Wired (in inglese):

http://www.wired.com/news/privacy/0,1848,57823,00.html

Ciao da Paolo.

 

Questo articolo è una ripubblicazione della newsletter Internet per tutti che gestivo via mail all’epoca. L’orario di questa ripubblicazione non corrisponde necessariamente a quello di invio della newsletter originale. Molti link saranno probabilmente obsoleti.

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