L’articolo è stato aggiornato dopo la pubblicazione iniziale. Ultimo aggiornamento: 2017/04/03 18:30.
Nel numero di marzo di Le Scienze ho parlato della scoperta degli sprite, i fulmini enormi che scaturiscono dalle nubi e vanno verso l’alto, di recente fotografati spettacolarmente dallo spazio dall’astronauta danese Andreas Mogensen; nel numero di aprile, invece, mi occupo di un’altra osservazione spaziale importante per tutti noi, ossia quella del famoso (o famigerato) “buco dell’ozono”. Un argomento un po’ dimenticato, come se il problema fosse stato risolto (non lo è affatto), ma tornato di attualità in questi giorni con l’installazione dello strumento di monitoraggio dell’ozono SAGE III sulla Stazione Spaziale Internazionale.
SAGE III è il più recente di una serie di strumenti spaziali iniziata con la missione congiunta sovietica e statunitense Apollo-Soyuz negli anni Settanta del secolo scorso, ma non c'è uno strumento di riserva e non è previsto un suo successore. L’amministrazione Trump, inoltre, sta tagliando i fondi alla ricerca sul clima e in altri settori che riguardano l’osservazione dell’atmosfera.
Se vi interessano i dettagli, sono appunto nel numero di aprile di Le Scienze, insieme alla storia di Joseph Farman, il cocciuto ricercatore la cui ostinazione e la cui ricerca paziente permisero di scoprire il danno che l’umanità stava inconsapevolmente arrecando a quel tenue velo d’aria che ci permette di vivere.
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