È disponibile per lo scaricamento il podcast della puntata di ieri del Disinformatico della Radiotelevisione Svizzera, l’ultima prima della pausa di agosto. La prossima puntata andrà in onda il primo settembre. Buon ascolto!
CORREZIONE: nel podcast, parlando del segnale extraterrestre, ho detto erroneamente che i satelliti geostazionari si muovono insieme alle stelle fisse dal punto di vista di un osservatore a terra. Non è vero e avrei dovuto capire che stavo dicendo una baggianata: i geostazionari sono fissi rispetto all’osservatore sulla Terra ma si muovono eccome rispetto alle stelle fisse. Grazie a Mars4ever per aver notato il mio errore.
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2017/07/29
Tesla Model 3, prime consegne e qualche dato tecnico definitivo
Questo articolo vi arriva gratuitamente e senza pubblicità grazie alle donazioni di lettori come Giuseppe Roberto Lop*. Se vi piace, potete farne una anche voi (per esempio con Paypal) per incoraggiarmi a scrivere ancora. Ultimo aggiornamento: 2017/08/13 16:30.
Poco fa si è conclusa la breve cerimonia di consegna delle prime trenta Model 3 di Tesla: l’auto che, secondo i piani di Elon Musk e secondo molti addetti ai lavori, dovrebbe rivoluzionare il mercato e avviare l’adozione su vasta scala dei veicoli elettrici in America e in Europa. Finora sono stati fabbricati 50 esemplari di serie: trenta vanno a clienti e venti restano all’azienda per la validazione della produzione.
Sono finiti i mesi di attesa, costellati di congetture, indiscrezioni e ricerche ossessive di indizi su come sarebbe stata quest’auto, di cui si sapeva soltanto la forma esteriore e poco altro:la Model 3 è in vendita e in circolazione. O quasi.
Sì, con la Model 3, avere un’auto elettrica sportiva a lunga autonomia (350 km EPA) non è più un lusso per pochi da 70.000 euro e oltre come è stato finora. Ma resta una scelta comunque costosa e non immediata.
Costi: la Model 3 base costerà, in USA, 35.000 dollari (circa 30.000 euro). In Europa non si sa. La metà rispetto a prima, ed è un bel passo avanti, paragonabile al prezzo di una berlina tradizionale di fascia alta e non più a quello di una sportiva di lusso, però non è certo una spesa per tutte le tasche. I bersagli della Model 3 sono la BMW Serie 3, la Audi A4 o la Mercedes classe C, non le utilitarie. Speriamo che sia comunque il segno di una tendenza al calo dei prezzi.
Tempi: se la volete, preparatevi a una lunga attesa. Tesla spera di arrivare a produrne 20.000 esemplari al mese entro fine anno e ci sono già 455.000 prenotazioni, che crescono al ritmo di 1800 al giorno. La Model 3 base non sarà disponibile almeno fino al 2019 per chi la prenota adesso, mentre la versione premium che è disponibile da oggi a chi si è prenotato per tempo è full optional, con 500 km di autonomia, e costa 49.000 dollari (42.000 euro) in USA.
Io l’ho prenotata oltre un anno fa e mi potrebbe arrivare entro fine 2018, ma visto che l’attesa sarà ancora lunga potrei scegliere un’altra soluzione elettrica. Tra pochi giorni proverò la Opel Ampera-e, che è già disponibile (almeno in prova e a catalogo) in Svizzera, dove abito (aggiornamento: ho fatto la prova).
Questo è il video della cerimonia di consegna delle prime Model 3, in versione breve:
Questa è la versione lunga:
Queste sono le specifiche principali della Model 3, tratte dal comunicato stampa di Tesla, che fornisce molte altre cifre oltre a quelle che riporto qui.
Inizialmente saranno disponibili (per chi prenota e si arma di molta pazienza) due versioni: Standard e Long Range. La Standard ha un prezzo base di 35.000 dollari (34.000 CHF/29.800 EUR), un’autonomia di 354 km, un’accelerazione da 0 a 100 km/h in 5,6 secondi e una velocità massima di 209 km/h. La Long Range parte da 44.000 dollari, ha un’autonomia di 498 km, fa da 0 a 100 km/h in 5.1 secondi e ha una velocità massima di 225 km/h. L’autonomia è dichiarata secondo i criteri EPA, più realistici di quelli NEDC.
La velocità di carica presso i Supercharger (punti di ricarica veloce di Tesla) è di 210 km in 30 minuti per la Standard e 273 km in 30 minuti per la Long Range; presso un punto di ricarica domestico da 240V/32A è 48 km in un’ora per la Standard e 60 km in un’ora su un punto di ricarica domestico da 240V/40A. Prima che me lo chiediate: abito in Svizzera e per me questi valori domestici sono perfettamente praticabili; gli esperti mi dicono che lo sono quasi sempre anche in molti altri paesi, Italia compresa.
Verrà data la priorità alla produzione della Long Range, le cui consegne iniziano oggi in una versione premium da 49.000 dollari; la Standard inizierà le consegne in autunno; le versioni a doppio motore (quattro ruote motrici) arriveranno in seguito.
Come preannunciato, il cruscotto tradizionale non c’è: è sostituito da un tablet da 15 pollici in posizione centrale (foto e grafica qui). Sul volante ci sono due trackball che comandano gli specchietti e l’impianto audio. Sul piantone c’è il selettore di marcia (indietro - folle - avanti - Autopilot - parcheggio). Le maniglie sono a filo carrozzeria ma manuali (si spingono per farle uscire, a differenza di quelle delle altre Tesla, che sono automatiche).
L’auto ha otto telecamere, un radar frontale e dodici sensori a ultrasuoni, che consentono la protezione anticollisione e la frenata automatica d’emergenza di serie. Tutti gli esemplari includono l’hardware per la guida assistita o autonoma, attivabile via software a pagamento. Aggiungendo 5000 dollari si ha la guida assistita o Enhanced Autopilot, che consente all’auto di restare in corsia, adeguare la propria andatura a quella del traffico, cambiare corsia automaticamente, imboccare le uscite autostradali e parcheggiare. Aggiornamenti software aggiungeranno altre funzioni. Per la guida autonoma vanno aggiunti altri 3000 dollari e bisogna aspettare che sia pronto il software e siano approvate le apposite normative.
La garanzia è di 4 anni o 80.000 km sul veicolo e di 8 anni e 160.000 km sulla batteria standard (193.000 sulla Long Range).
La Model 3 è lunga 470 cm, larga 193 cm (185 cm a specchietti ripiegati) e alta 144 cm. Il fondo è a 14 cm da terra. Il bagagliaio, doppio (anteriore e posteriore) ha un volume complessivo di quasi 425 litri. Il peso è 1610 kg per la Standard e 1730 kg per la Long Range. Le ruote sono disponibili in versioni da 18 pollici (standard) e 19 pollici (1500 dollari in più). Se volete farvi un’idea dei colori e delle opzioni disponibili, guardate qui e qui. C’è anche un pacchetto di opzioni per l’allestimento interno e per il tetto interamente vetrato che fa salire il prezzo di altri 5000 dollari, e i colori diversi dal nero costano 1000 dollari in più.
Sparisce la chiave apriporta tradizionale con telecomando: l’auto si apre quando si avvicina il telefonino del proprietario (il che significa che rubare un telefonino equivale a rubare le chiavi dell’auto) o quando si avvicina al montante centrale una tessera NFC fornita.
Al momento in cui scrivo ci sono quasi 500.000 prenotazioni e la catena di produzione procede per ora col contagocce. Chi la prenota ora può sperare di vederla nel 2019 (specialmente in Europa). La grossa sfida per Tesla, ora, è infatti riuscire a fabbricare in massa quello che finora ha prodotto in volumi molto modesti: nel 2016 ha costruito in tutto circa 84.000 auto. Ora vuole arrivare a sfornarne 20.000 al mese entro fine anno.
Se vi state chiedendo se ci sono novità sulla mia prenotazione, fatta il 2 aprile 2016, la situazione attuale è questa: il sito di Tesla è rimasto bloccato con un redirect al video della presentazione per tutta la mattinata, ma verso sera (del 29 luglio) è cambiata la schermata iniziale del mio account Tesla, che ora dice “Tra poco riceverai l’invito per la Model 3”:
Nel pomeriggio del 30 luglio mi è stata proposta una stima di consegna: “late 2018” (“dopo la metà del 2018”) per qualunque versione. Inoltre qui c’è una FAQ che chiarisce alcuni punti (ma non tutti) sulla consegna.
Per ora ho scelto la Standard; posso sempre cambiare idea. E intanto mi guardo in giro per altre soluzioni che mi consentano di passare pienamente alla mobilità elettrica sostituendo completamente l’attuale auto a benzina e prendendo dimestichezza con pregi e limiti di questa tecnologia.
Ho ricontrollato il 13 agosto e ora ho questa situazione, che parla di “fine 2018”.
Ho prenotato per i primi di agosto una prova della Opel Ampera-e, che ha prezzi e caratteristiche di autonomia simili alla Model 3 (42.000 CHF/37.000 EUR), non include opzioni di guida assistita/autonoma, ma è forse disponibile in tempi più brevi, almeno in Svizzera; attualmente il sito italiano la presenta come “modello futuro” (copia su Archive.is). Vi racconterò tutti i dettagli appena possibile (aggiornamento: prova fatta, eccoli).
È tutto quello che so: se volete saperne di più, date un’occhiata alle mie FAQ e seguite Teslari.it. Per le foto dei dettagli della Model 3, consiglio questa recensione di Motor Trend. Per un’analisi di mercato, date una scorsa a questo articolo di Bloomberg, che include un confronto prezzo/autonomia delle principali auto elettriche.
Fonti aggiuntive: Yahoo, The Verge, Ars Technica.
Poco fa si è conclusa la breve cerimonia di consegna delle prime trenta Model 3 di Tesla: l’auto che, secondo i piani di Elon Musk e secondo molti addetti ai lavori, dovrebbe rivoluzionare il mercato e avviare l’adozione su vasta scala dei veicoli elettrici in America e in Europa. Finora sono stati fabbricati 50 esemplari di serie: trenta vanno a clienti e venti restano all’azienda per la validazione della produzione.
Per chi ha fretta
Sono finiti i mesi di attesa, costellati di congetture, indiscrezioni e ricerche ossessive di indizi su come sarebbe stata quest’auto, di cui si sapeva soltanto la forma esteriore e poco altro:la Model 3 è in vendita e in circolazione. O quasi.
Sì, con la Model 3, avere un’auto elettrica sportiva a lunga autonomia (350 km EPA) non è più un lusso per pochi da 70.000 euro e oltre come è stato finora. Ma resta una scelta comunque costosa e non immediata.
Costi: la Model 3 base costerà, in USA, 35.000 dollari (circa 30.000 euro). In Europa non si sa. La metà rispetto a prima, ed è un bel passo avanti, paragonabile al prezzo di una berlina tradizionale di fascia alta e non più a quello di una sportiva di lusso, però non è certo una spesa per tutte le tasche. I bersagli della Model 3 sono la BMW Serie 3, la Audi A4 o la Mercedes classe C, non le utilitarie. Speriamo che sia comunque il segno di una tendenza al calo dei prezzi.
Tempi: se la volete, preparatevi a una lunga attesa. Tesla spera di arrivare a produrne 20.000 esemplari al mese entro fine anno e ci sono già 455.000 prenotazioni, che crescono al ritmo di 1800 al giorno. La Model 3 base non sarà disponibile almeno fino al 2019 per chi la prenota adesso, mentre la versione premium che è disponibile da oggi a chi si è prenotato per tempo è full optional, con 500 km di autonomia, e costa 49.000 dollari (42.000 euro) in USA.
Io l’ho prenotata oltre un anno fa e mi potrebbe arrivare entro fine 2018, ma visto che l’attesa sarà ancora lunga potrei scegliere un’altra soluzione elettrica. Tra pochi giorni proverò la Opel Ampera-e, che è già disponibile (almeno in prova e a catalogo) in Svizzera, dove abito (aggiornamento: ho fatto la prova).
In dettaglio
Questo è il video della cerimonia di consegna delle prime Model 3, in versione breve:
Questa è la versione lunga:
Queste sono le specifiche principali della Model 3, tratte dal comunicato stampa di Tesla, che fornisce molte altre cifre oltre a quelle che riporto qui.
Inizialmente saranno disponibili (per chi prenota e si arma di molta pazienza) due versioni: Standard e Long Range. La Standard ha un prezzo base di 35.000 dollari (34.000 CHF/29.800 EUR), un’autonomia di 354 km, un’accelerazione da 0 a 100 km/h in 5,6 secondi e una velocità massima di 209 km/h. La Long Range parte da 44.000 dollari, ha un’autonomia di 498 km, fa da 0 a 100 km/h in 5.1 secondi e ha una velocità massima di 225 km/h. L’autonomia è dichiarata secondo i criteri EPA, più realistici di quelli NEDC.
La velocità di carica presso i Supercharger (punti di ricarica veloce di Tesla) è di 210 km in 30 minuti per la Standard e 273 km in 30 minuti per la Long Range; presso un punto di ricarica domestico da 240V/32A è 48 km in un’ora per la Standard e 60 km in un’ora su un punto di ricarica domestico da 240V/40A. Prima che me lo chiediate: abito in Svizzera e per me questi valori domestici sono perfettamente praticabili; gli esperti mi dicono che lo sono quasi sempre anche in molti altri paesi, Italia compresa.
Verrà data la priorità alla produzione della Long Range, le cui consegne iniziano oggi in una versione premium da 49.000 dollari; la Standard inizierà le consegne in autunno; le versioni a doppio motore (quattro ruote motrici) arriveranno in seguito.
Come preannunciato, il cruscotto tradizionale non c’è: è sostituito da un tablet da 15 pollici in posizione centrale (foto e grafica qui). Sul volante ci sono due trackball che comandano gli specchietti e l’impianto audio. Sul piantone c’è il selettore di marcia (indietro - folle - avanti - Autopilot - parcheggio). Le maniglie sono a filo carrozzeria ma manuali (si spingono per farle uscire, a differenza di quelle delle altre Tesla, che sono automatiche).
L’auto ha otto telecamere, un radar frontale e dodici sensori a ultrasuoni, che consentono la protezione anticollisione e la frenata automatica d’emergenza di serie. Tutti gli esemplari includono l’hardware per la guida assistita o autonoma, attivabile via software a pagamento. Aggiungendo 5000 dollari si ha la guida assistita o Enhanced Autopilot, che consente all’auto di restare in corsia, adeguare la propria andatura a quella del traffico, cambiare corsia automaticamente, imboccare le uscite autostradali e parcheggiare. Aggiornamenti software aggiungeranno altre funzioni. Per la guida autonoma vanno aggiunti altri 3000 dollari e bisogna aspettare che sia pronto il software e siano approvate le apposite normative.
La garanzia è di 4 anni o 80.000 km sul veicolo e di 8 anni e 160.000 km sulla batteria standard (193.000 sulla Long Range).
La Model 3 è lunga 470 cm, larga 193 cm (185 cm a specchietti ripiegati) e alta 144 cm. Il fondo è a 14 cm da terra. Il bagagliaio, doppio (anteriore e posteriore) ha un volume complessivo di quasi 425 litri. Il peso è 1610 kg per la Standard e 1730 kg per la Long Range. Le ruote sono disponibili in versioni da 18 pollici (standard) e 19 pollici (1500 dollari in più). Se volete farvi un’idea dei colori e delle opzioni disponibili, guardate qui e qui. C’è anche un pacchetto di opzioni per l’allestimento interno e per il tetto interamente vetrato che fa salire il prezzo di altri 5000 dollari, e i colori diversi dal nero costano 1000 dollari in più.
Sparisce la chiave apriporta tradizionale con telecomando: l’auto si apre quando si avvicina il telefonino del proprietario (il che significa che rubare un telefonino equivale a rubare le chiavi dell’auto) o quando si avvicina al montante centrale una tessera NFC fornita.
Tutto molto bello, ma c'è un problema: i tempi di consegna
Al momento in cui scrivo ci sono quasi 500.000 prenotazioni e la catena di produzione procede per ora col contagocce. Chi la prenota ora può sperare di vederla nel 2019 (specialmente in Europa). La grossa sfida per Tesla, ora, è infatti riuscire a fabbricare in massa quello che finora ha prodotto in volumi molto modesti: nel 2016 ha costruito in tutto circa 84.000 auto. Ora vuole arrivare a sfornarne 20.000 al mese entro fine anno.
Se vi state chiedendo se ci sono novità sulla mia prenotazione, fatta il 2 aprile 2016, la situazione attuale è questa: il sito di Tesla è rimasto bloccato con un redirect al video della presentazione per tutta la mattinata, ma verso sera (del 29 luglio) è cambiata la schermata iniziale del mio account Tesla, che ora dice “Tra poco riceverai l’invito per la Model 3”:
Nel pomeriggio del 30 luglio mi è stata proposta una stima di consegna: “late 2018” (“dopo la metà del 2018”) per qualunque versione. Inoltre qui c’è una FAQ che chiarisce alcuni punti (ma non tutti) sulla consegna.
Per ora ho scelto la Standard; posso sempre cambiare idea. E intanto mi guardo in giro per altre soluzioni che mi consentano di passare pienamente alla mobilità elettrica sostituendo completamente l’attuale auto a benzina e prendendo dimestichezza con pregi e limiti di questa tecnologia.
Ho ricontrollato il 13 agosto e ora ho questa situazione, che parla di “fine 2018”.
Ho prenotato per i primi di agosto una prova della Opel Ampera-e, che ha prezzi e caratteristiche di autonomia simili alla Model 3 (42.000 CHF/37.000 EUR), non include opzioni di guida assistita/autonoma, ma è forse disponibile in tempi più brevi, almeno in Svizzera; attualmente il sito italiano la presenta come “modello futuro” (copia su Archive.is). Vi racconterò tutti i dettagli appena possibile (aggiornamento: prova fatta, eccoli).
È tutto quello che so: se volete saperne di più, date un’occhiata alle mie FAQ e seguite Teslari.it. Per le foto dei dettagli della Model 3, consiglio questa recensione di Motor Trend. Per un’analisi di mercato, date una scorsa a questo articolo di Bloomberg, che include un confronto prezzo/autonomia delle principali auto elettriche.
Fonti aggiuntive: Yahoo, The Verge, Ars Technica.
2017/07/28
I nativi digitali sono davvero differenti? Probabilmente no
Ultimo aggiornamento: 2017/07/28 18:15.
“Non esistono nativi digitali”: un titolo secco e deciso per un articolo pubblicato su Discover Magazine da Nathaniel Scharping ieri, che riprende un termine, nativo digitale, coniato nel 2001 dall’educatore Marc Prensky in un saggio diventato molto popolare.
Il saggio diceva che il modo in cui gli studenti di oggi pensano ed elaborano le informazioni è radicalmente differente rispetto ai loro predecessori, a causa dell’uso intensivo di videogiochi, computer, smartphone e altri dispositivi digitali. Di conseguenza, diceva Prensky, è necessario cambiare i metodi educativi per tenere conto di questa fondamentale differenza.
Ma dal 2001 sono passati molti bit sotto i modem e soprattutto sono state pubblicate molte ricerche che indicano che i cosiddetti “nativi digitali” non sono più bravi degli “immigrati digitali” nell’usare i programmi e le funzioni dei computer (per esempio quella di ECDL/AICA) e non sono più bravi nel multitasking. In compenso i “nativi digitali” si valutano molto più competenti informaticamente rispetto agli “immigrati”: il doppio dei nativi crede di essere competente rispetto agli immigrati.
Non solo: il cervello umano dei “nativi” è come quello degli “immigrati”. Gestisce bene un solo compito complesso per volta. In termini informatici, è un monoprocessore che può fare task switching ma non multitasking. I “nativi” danno solo l’impressione di fare tante cose contemporaneamente perché in realtà commutano rapidamente da una all’altra, ma le fanno tutte male e alla fine non risparmiano tempo esattamente come tutti gli altri, e questa commutazione continua ha un costo dovuto alla continua interruzione dei processi di pensiero. Uno studio del 2006 indica che parlare al telefono mentre si guida è come guidare in stato di ubriachezza. E di ricerche in questo senso ce ne sono tante altre, segnalate nell’articolo di Discover Magazine.
Conviene quindi lasciar perdere i miti e per esempio disattivare il più possibile le notifiche non indispensabili dei nostri dispositivi, il cui scopo non è renderci più efficienti, ma riportarci il più possibile nei social network per generare traffico che fa incassare i proprietari di questi servizi.
“Non esistono nativi digitali”: un titolo secco e deciso per un articolo pubblicato su Discover Magazine da Nathaniel Scharping ieri, che riprende un termine, nativo digitale, coniato nel 2001 dall’educatore Marc Prensky in un saggio diventato molto popolare.
Il saggio diceva che il modo in cui gli studenti di oggi pensano ed elaborano le informazioni è radicalmente differente rispetto ai loro predecessori, a causa dell’uso intensivo di videogiochi, computer, smartphone e altri dispositivi digitali. Di conseguenza, diceva Prensky, è necessario cambiare i metodi educativi per tenere conto di questa fondamentale differenza.
Ma dal 2001 sono passati molti bit sotto i modem e soprattutto sono state pubblicate molte ricerche che indicano che i cosiddetti “nativi digitali” non sono più bravi degli “immigrati digitali” nell’usare i programmi e le funzioni dei computer (per esempio quella di ECDL/AICA) e non sono più bravi nel multitasking. In compenso i “nativi digitali” si valutano molto più competenti informaticamente rispetto agli “immigrati”: il doppio dei nativi crede di essere competente rispetto agli immigrati.
Non solo: il cervello umano dei “nativi” è come quello degli “immigrati”. Gestisce bene un solo compito complesso per volta. In termini informatici, è un monoprocessore che può fare task switching ma non multitasking. I “nativi” danno solo l’impressione di fare tante cose contemporaneamente perché in realtà commutano rapidamente da una all’altra, ma le fanno tutte male e alla fine non risparmiano tempo esattamente come tutti gli altri, e questa commutazione continua ha un costo dovuto alla continua interruzione dei processi di pensiero. Uno studio del 2006 indica che parlare al telefono mentre si guida è come guidare in stato di ubriachezza. E di ricerche in questo senso ce ne sono tante altre, segnalate nell’articolo di Discover Magazine.
Conviene quindi lasciar perdere i miti e per esempio disattivare il più possibile le notifiche non indispensabili dei nostri dispositivi, il cui scopo non è renderci più efficienti, ma riportarci il più possibile nei social network per generare traffico che fa incassare i proprietari di questi servizi.
“Ma non esistono virus per Mac”: il caso FruitFly
Credit: Patrick Wardle. |
Il caso è stato battezzato FruitFly (moscerino della frutta) ed è stato scoperto a gennaio di quest’anno. Si tratta di un malware per Mac che probabilmente è sfuggito ai ricercatori e agli antivirus per almeno cinque anni, fino a quando il suo traffico di dati è stato scoperto da un amministratore di rete di un’università di cui non è stato reso noto il nome.
Questo malware è in grado, su un Mac, di catturare schermate, registrare quello che viene scritto sulla tastiera, scattare immagini attraverso la webcam, modificare file e raccogliere dati riguardanti il computer infettato. È particolarmente astuto: avvisa i suoi padroni quando l’utente sta usando il computer infettato e così agisce solo quando l’utente non è al computer.
Non si sa come si diffonde e chi sono i suoi autori e gestori: i siti attraverso i quali riceve i comandi non esistono più. Ma un esperto di sicurezza, Patrick Wardle (ex NSA), ha ricreato quei siti e si è messo in ascolto.
In pochissimo tempo ha cominciato a ricevere informazioni rubate da Mac sparsi un po’ ovunque ma situati principalmente negli Stati Uniti. Mac di utenti a caso, senza un nesso che li unisca, a conferma che i virus spesso attaccano a casaccio e che quindi pensare “Ma chi vuoi che mi prenda di mira” è un errore.
Apple ha rilasciato tempo fa degli aggiornamenti di MacOS che rilevano e bloccano FruitFly, e lo stesso fanno i principali antivirus in commercio. Morale della storia: gli aggiornamenti servono e gli antivirus pure. Anche su Mac.
Fonti: ZDnet, Intego, Intego.
Fa un video a pagamento su Internet e finisce accusata di terrorismo
Avete visto il film The Circle? C’è una scena nella quale il social network immaginario del film, una sorta di Facebook, viene usato per localizzare una criminale che la giustizia ordinaria non riusciva a trovare. Viene diffusa la sua foto e gli utenti, sparsi ovunque nel mondo, vanno a caccia finché trovano la donna e la fanno arrestare. Spettacolare e inquietante, ma meno esagerato di quello che si potrebbe pensare.
Alcuni mesi fa la polizia della provincia canadese dello Saskatchewan ha infatti usato lo stesso sistema per identificare e localizzare una donna che stava cercando: ha messo su Facebook una foto della donna e ha sfidato gli utenti a partecipare alla sua ricerca, presentandola come una sorta di gioco. Ha funzionato: la giovane è stata riconosciuta dal fratello, che vive in North Carolina e che ha avvisato la polizia canadese e la sorella. Ed è qui che la storia prende una piega bizzarra.
La donna, Samantha Field, ha contattato la polizia e ha scoperto di essere ricercata in relazione a una serie di atti terroristici: qualcuno aveva inviato dei pacchi contenenti bicarbonato, facilmente confondibile con l’antrace, e aveva diffuso allarmi bomba. E su Internet c’era un video nel quale lei se ne prendeva la responsabilità, dicendo “Abbiamo fatto quei pacchi insieme... la gente penserà che il bicarbonato è antrace”.
Come è possibile? Samantha Field aveva risposto a un’inserzione su Fiverr, un sito tramite il quale si possono effettuare lavori online a pagamento, pensando di recitare dei brani di un libro per un video promozionale: una cosa che la Field fa spesso e che in questo caso le aveva fruttato 35 dollari. Ma non c’era nessun video promozionale e nessun libro da promuovere: il video, rimontato appositamente, è stato usato per incastrare la Field inviandolo ai media. Per fortuna la polizia non ha creduto alla rivendicazione involontaria fatta online.
In altre parole, se accettate lavori online da sconosciuti, vi conviene sempre fermarvi un momento a pensare e chiedervi se per caso quello che fate o dite può essere manipolato e usato contro di voi.
Alcuni mesi fa la polizia della provincia canadese dello Saskatchewan ha infatti usato lo stesso sistema per identificare e localizzare una donna che stava cercando: ha messo su Facebook una foto della donna e ha sfidato gli utenti a partecipare alla sua ricerca, presentandola come una sorta di gioco. Ha funzionato: la giovane è stata riconosciuta dal fratello, che vive in North Carolina e che ha avvisato la polizia canadese e la sorella. Ed è qui che la storia prende una piega bizzarra.
La donna, Samantha Field, ha contattato la polizia e ha scoperto di essere ricercata in relazione a una serie di atti terroristici: qualcuno aveva inviato dei pacchi contenenti bicarbonato, facilmente confondibile con l’antrace, e aveva diffuso allarmi bomba. E su Internet c’era un video nel quale lei se ne prendeva la responsabilità, dicendo “Abbiamo fatto quei pacchi insieme... la gente penserà che il bicarbonato è antrace”.
Come è possibile? Samantha Field aveva risposto a un’inserzione su Fiverr, un sito tramite il quale si possono effettuare lavori online a pagamento, pensando di recitare dei brani di un libro per un video promozionale: una cosa che la Field fa spesso e che in questo caso le aveva fruttato 35 dollari. Ma non c’era nessun video promozionale e nessun libro da promuovere: il video, rimontato appositamente, è stato usato per incastrare la Field inviandolo ai media. Per fortuna la polizia non ha creduto alla rivendicazione involontaria fatta online.
In altre parole, se accettate lavori online da sconosciuti, vi conviene sempre fermarvi un momento a pensare e chiedervi se per caso quello che fate o dite può essere manipolato e usato contro di voi.
Come vedere la Stazione Spaziale a occhio nudo e seguire Paolo Nespoli online
In occasione della partenza dell’astronauta Paolo Nespoli per la Stazione Spaziale Internazionale, prevista per le 17:41 di oggi con arrivo alle 23:15 (diretta su RaiNews24 e streaming su NASA TV), segnalo alcuni siti utili per avvistare la Stazione a occhio nudo (non occorre un telescopio) e per seguire Paolo nella sua missione.
Paolo è su Twitter come @astro_paolo, su Facebook come ESAPaoloNespoli e su Instagram come astro_paolo; tutte le informazioni sulla sua missione e il suo addestramento sono presso paolonespoli.esa.int.
Se volete vedere la Stazione, consiglio le app ISS Spotter e ISS Locator (iOS) oppure ISS Detector e ISSonLive (Android). Se preferite un sito, consiglio ISS Tracker oppure Spot the Station della NASA (quest’ultima app richiede un’iscrizione gratuita per ricevere le notifiche).
Se invece volete vedere il mondo dalla Stazione in tempo reale in HD, come lo vedono gli astronauti, allora andate a Ustream sul canale ISS HD Earth Viewing Experiment. Ci sono anche le webcam di bordo, non sempre attive, presso il canale Ustream Live ISS Stream. Ustream è disponibile anche come app Android e iOS.
E se tutto questo non basta, date un’occhiata a questo mio elenco di risorse spaziali. Buona visione.
Paolo è su Twitter come @astro_paolo, su Facebook come ESAPaoloNespoli e su Instagram come astro_paolo; tutte le informazioni sulla sua missione e il suo addestramento sono presso paolonespoli.esa.int.
Se volete vedere la Stazione, consiglio le app ISS Spotter e ISS Locator (iOS) oppure ISS Detector e ISSonLive (Android). Se preferite un sito, consiglio ISS Tracker oppure Spot the Station della NASA (quest’ultima app richiede un’iscrizione gratuita per ricevere le notifiche).
Se invece volete vedere il mondo dalla Stazione in tempo reale in HD, come lo vedono gli astronauti, allora andate a Ustream sul canale ISS HD Earth Viewing Experiment. Ci sono anche le webcam di bordo, non sempre attive, presso il canale Ustream Live ISS Stream. Ustream è disponibile anche come app Android e iOS.
E se tutto questo non basta, date un’occhiata a questo mio elenco di risorse spaziali. Buona visione.
2017/07/27
E se i TG annunciassero i passaggi di Paolo Nespoli sopra l’Italia, visibili a occhio nudo?
Questo articolo vi arriva gratuitamente e senza pubblicità grazie alle donazioni dei lettori. Se vi piace, potete farne una anche voi per incoraggiarmi a scrivere ancora.
Piccola proposta per mettere un po' più di scienza in TV: in onore di Paolo Nespoli che va nello spazio domani, annunciare gli orari dei passaggi sull'Italia della Stazione Spaziale, dove lui sarà, e farlo a ogni TG.
Così tanti lo vedranno e scopriranno che la Stazione è visibile a occhio nudo da Terra. È incredibile quanta gente non lo sa (e non sa neanche che esiste una Stazione, men che meno che è stata fabbricata in gran parte in Italia).
Costo: zero, per sapere gli orari basta consultare i servizi online appositi. I canali TV trovano soldi e tempo per fare oroscopi, non mi dicano che non li hanno per un evento scientifico che tutti possono vedere e che coinvolge un astronauta italiano.
Forza, direttori di reti TV: dite che volete combattere la fake news, questa è la vostra occasione per mandare in onda una realtà straordinaria.
Thanks to the Crew of Iss 52/53 and Go to @astro_paolo pic.twitter.com/Bcq0uabNhC— Luigi Pizzimenti (@LuigiPizzimenti) 27 luglio 2017
Piccola proposta per mettere un po' più di scienza in TV: in onore di Paolo Nespoli che va nello spazio domani, annunciare gli orari dei passaggi sull'Italia della Stazione Spaziale, dove lui sarà, e farlo a ogni TG.
Così tanti lo vedranno e scopriranno che la Stazione è visibile a occhio nudo da Terra. È incredibile quanta gente non lo sa (e non sa neanche che esiste una Stazione, men che meno che è stata fabbricata in gran parte in Italia).
Costo: zero, per sapere gli orari basta consultare i servizi online appositi. I canali TV trovano soldi e tempo per fare oroscopi, non mi dicano che non li hanno per un evento scientifico che tutti possono vedere e che coinvolge un astronauta italiano.
Forza, direttori di reti TV: dite che volete combattere la fake news, questa è la vostra occasione per mandare in onda una realtà straordinaria.
Debunking “fa più danni che altro”, scrive Repubblica. Da che pulpito
Questo articolo vi arriva gratuitamente e senza pubblicità grazie alle donazioni dei lettori. Se vi piace, potete farne una anche voi per incoraggiarmi a scrivere ancora. Ultimo aggiornamento: 2017/07/31 9:50.
Sì, ho letto l’articolo di Repubblica intitolato “Bufale, il debunking fa più danni che altro. E le fake news resistono“ di Simone Cosimi (copia su Archive.is); grazie a tutti quelli che me l’hanno segnalato. La mia opinione resta quella che avevo scritto qui nel 2015, prima di conoscere Walter Quattrociocchi (coautore della ricerca citata da Repubblica) durante la consulenza #Bastabufale per la Camera dei Deputati.
Primo, siamo sicuri che il campione di riferimento sia rappresentativo? È composto da americani, e per di più su Facebook. E con tutto il rispetto per Zuckerberg e le sue ambizioni, Facebook non è ancora la realtà. Vorrei anche far notare che gli americani non rappresentano il mondo, anche se molti di loro, specialmente in politica, ne sono convinti. Per cui non ho nulla da dire sul metodo, per carità, ma ho qualche dubbio sul campione al quale è stato applicato. Resto dell’idea che usare Facebook per vedere chi si converte dal complottismo sia come andare allo stadio durante un derby per vedere chi cambia squadra del cuore. Anche perché nel mondo normale ogni tanto la gente cambia idea e lo fanno persino i complottisti: leggete questa confessione di un complottista pentito. E non è un caso isolato, perché come lui ne ho incontrati molti altri. Se fare debunking salva qualcuno, è meglio di niente. E oltretutto a me piace farlo.
Secondo, il debunking non si fa per convertire i complottisti, ma per informare gli indecisi. Che non fanno parte delle due “tribù” citate da Quattrociocchi e colleghi. Lo studio citato da Repubblica guarda solo i due gruppi estremi e ignora del tutto la massa degli incerti che sta in mezzo. Affermare o insinuare che lo studio si applica alla totalità della popolazione è fare fake news. Invece il debunker non si rivolge alla nicchia degli arrabbiati e convinti, ma alla massa delle persone che cercano di farsi un’opinione ragionando. Matteo Flora lo riassume bene in questo suo intervento video.
Terzo, da che pulpito vien la predica: il successo delle bufale e delle notizie false è dovuto anche al fatto che i giornali, come Repubblica, pubblicano qualunque fesseria senza controllarla, purché generi clic o sia conforme all’ideologia che vuole promuovere, e al fatto che i programmi televisivi diffondono ogni sorta di panzana, purché faccia ascolti (Voyager e Le Iene, per citarne qualcuno), fregandosene delle conseguenze sociali (vaccini, BlueWhale, riscaldamento globale, eccetera).
Quando ho moderato il tavolo di lavoro dei media alla Camera dei Deputati, che radunava molti responsabili di testate e di agenzie, ho sentito tante belle promesse, ma non è cambiato nulla: il valzer delle vaccate continua indisturbato, di rettifiche manco l’ombra e il fact-checking tanto vantato è tuttora latitante.
E adesso Repubblica si autogiustifica dicendo che tanto il debunking non serve a nulla. Anzi, “fa più danni che altro”. Perché le vostre balle invece hanno fatto bene, vero Repubblica? Vogliamo parlare di quando pubblicavate notizie sull’ISIS prendendole da Lercio? O di quando illustravate la marcia anti-Trump usando una foto del 1995? O di quando mostravate foto false delle gelate? O di quando la vostra Silvia Bizio spacciava suo nipote per un passante qualsiasi per fare una finta intervista? O di quando avete scritto che gli aerei presto avrebbero volato “al quadruplo della velocità della luce”? Potrei andare avanti a lungo: questi sono solo alcuni campioni recenti della mia piccola compilation delle vostre notizie false. Prima di parlare di chi fa danni, fatemi la cortesia di guardarvi in casa: se “le fake news resistono”, la colpa è anche vostra che le pubblicate.
Quarto, metto da parte un momento il rapporto di amicizia con Quattrociocchi perché a distanza di due anni dalla pubblicazione iniziale siamo ancora senza una risposta alla domanda fondamentale sollevata dalla ricerca: se il debunking non serve, allora che facciamo? Ci arrendiamo al rincoglionimento generale? Lasciamo che i bufalari guadagnino indisturbati?
Finora l’unica risposta che ho visto è data da queste parole di Fabiana Zollo, prima autrice della ricerca: “Il debunking e l’attacco frontale ai complottisti non sono antidoti al propagarsi di fake news. Piuttosto, l’uso di un approccio più aperto e morbido, che promuova una cultura dell’umiltà con l’obiettivo di abbattere i muri e le barriere tra le tribù della rete, rappresenterebbe un primo passo per contrastare la diffusione della disinformazione e la sua persistenza online”.
Io vorrei tanto che qualcuno mi spiegasse in cosa consiste concretamente questa “cultura dell’umiltà” e quale sarebbe questo “approccio più aperto e morbido”. Provateci voi, a frequentare un forum di complottisti e restare umili, aperti e morbidi. Fateci vedere come si fa, perché francamente più di quel che facciamo non saprei cosa fare. Noi debunker lavoriamo quasi sempre gratis, spesso senza protezione giuridica, riceviamo insulti e minacce pur non insultando mai nessuno, e ancora non basta?
Debunker sì, leccapiedi no. Quelli, se li volete, li trovate nelle redazioni. Quelle dove chi scrive cazzate prende uno stipendio. Pagato da voi che comprate i giornali o li sfogliate online facendovi monitorare o monetizzare dai pubblicitari.
Sì, ho letto l’articolo di Repubblica intitolato “Bufale, il debunking fa più danni che altro. E le fake news resistono“ di Simone Cosimi (copia su Archive.is); grazie a tutti quelli che me l’hanno segnalato. La mia opinione resta quella che avevo scritto qui nel 2015, prima di conoscere Walter Quattrociocchi (coautore della ricerca citata da Repubblica) durante la consulenza #Bastabufale per la Camera dei Deputati.
Primo, siamo sicuri che il campione di riferimento sia rappresentativo? È composto da americani, e per di più su Facebook. E con tutto il rispetto per Zuckerberg e le sue ambizioni, Facebook non è ancora la realtà. Vorrei anche far notare che gli americani non rappresentano il mondo, anche se molti di loro, specialmente in politica, ne sono convinti. Per cui non ho nulla da dire sul metodo, per carità, ma ho qualche dubbio sul campione al quale è stato applicato. Resto dell’idea che usare Facebook per vedere chi si converte dal complottismo sia come andare allo stadio durante un derby per vedere chi cambia squadra del cuore. Anche perché nel mondo normale ogni tanto la gente cambia idea e lo fanno persino i complottisti: leggete questa confessione di un complottista pentito. E non è un caso isolato, perché come lui ne ho incontrati molti altri. Se fare debunking salva qualcuno, è meglio di niente. E oltretutto a me piace farlo.
Secondo, il debunking non si fa per convertire i complottisti, ma per informare gli indecisi. Che non fanno parte delle due “tribù” citate da Quattrociocchi e colleghi. Lo studio citato da Repubblica guarda solo i due gruppi estremi e ignora del tutto la massa degli incerti che sta in mezzo. Affermare o insinuare che lo studio si applica alla totalità della popolazione è fare fake news. Invece il debunker non si rivolge alla nicchia degli arrabbiati e convinti, ma alla massa delle persone che cercano di farsi un’opinione ragionando. Matteo Flora lo riassume bene in questo suo intervento video.
Terzo, da che pulpito vien la predica: il successo delle bufale e delle notizie false è dovuto anche al fatto che i giornali, come Repubblica, pubblicano qualunque fesseria senza controllarla, purché generi clic o sia conforme all’ideologia che vuole promuovere, e al fatto che i programmi televisivi diffondono ogni sorta di panzana, purché faccia ascolti (Voyager e Le Iene, per citarne qualcuno), fregandosene delle conseguenze sociali (vaccini, BlueWhale, riscaldamento globale, eccetera).
Quando ho moderato il tavolo di lavoro dei media alla Camera dei Deputati, che radunava molti responsabili di testate e di agenzie, ho sentito tante belle promesse, ma non è cambiato nulla: il valzer delle vaccate continua indisturbato, di rettifiche manco l’ombra e il fact-checking tanto vantato è tuttora latitante.
E adesso Repubblica si autogiustifica dicendo che tanto il debunking non serve a nulla. Anzi, “fa più danni che altro”. Perché le vostre balle invece hanno fatto bene, vero Repubblica? Vogliamo parlare di quando pubblicavate notizie sull’ISIS prendendole da Lercio? O di quando illustravate la marcia anti-Trump usando una foto del 1995? O di quando mostravate foto false delle gelate? O di quando la vostra Silvia Bizio spacciava suo nipote per un passante qualsiasi per fare una finta intervista? O di quando avete scritto che gli aerei presto avrebbero volato “al quadruplo della velocità della luce”? Potrei andare avanti a lungo: questi sono solo alcuni campioni recenti della mia piccola compilation delle vostre notizie false. Prima di parlare di chi fa danni, fatemi la cortesia di guardarvi in casa: se “le fake news resistono”, la colpa è anche vostra che le pubblicate.
Quarto, metto da parte un momento il rapporto di amicizia con Quattrociocchi perché a distanza di due anni dalla pubblicazione iniziale siamo ancora senza una risposta alla domanda fondamentale sollevata dalla ricerca: se il debunking non serve, allora che facciamo? Ci arrendiamo al rincoglionimento generale? Lasciamo che i bufalari guadagnino indisturbati?
Finora l’unica risposta che ho visto è data da queste parole di Fabiana Zollo, prima autrice della ricerca: “Il debunking e l’attacco frontale ai complottisti non sono antidoti al propagarsi di fake news. Piuttosto, l’uso di un approccio più aperto e morbido, che promuova una cultura dell’umiltà con l’obiettivo di abbattere i muri e le barriere tra le tribù della rete, rappresenterebbe un primo passo per contrastare la diffusione della disinformazione e la sua persistenza online”.
Io vorrei tanto che qualcuno mi spiegasse in cosa consiste concretamente questa “cultura dell’umiltà” e quale sarebbe questo “approccio più aperto e morbido”. Provateci voi, a frequentare un forum di complottisti e restare umili, aperti e morbidi. Fateci vedere come si fa, perché francamente più di quel che facciamo non saprei cosa fare. Noi debunker lavoriamo quasi sempre gratis, spesso senza protezione giuridica, riceviamo insulti e minacce pur non insultando mai nessuno, e ancora non basta?
Debunker sì, leccapiedi no. Quelli, se li volete, li trovate nelle redazioni. Quelle dove chi scrive cazzate prende uno stipendio. Pagato da voi che comprate i giornali o li sfogliate online facendovi monitorare o monetizzare dai pubblicitari.
Clima: la petizione anti-ecobufale di Zichichi si rivela una bufala
Scansione tratta da Qualenergia. |
Ai primi di luglio Il Giornale ha pubblicato una petizione (versione completa qui), anzi, un “appello della scienza”, contro le “eco-bufale” (che, parrebbe di capire, sarebbero i cambiamenti climatici di origine umana), con la partecipazione di Antonino Zichichi. Titolo: “L'inquinamento va punito come reato, ma è da ciarlatani dire che modifica il clima”. Notate il ciarlatani.
L’appello risultava sottoscritto da venti scienziati. Certo, una rondine non fa primavera e venti scienziati non sono “la scienza” nel suo complesso, anche perché nessuno di quei venti è climatologo. Ma salta fuori che alcune delle loro adesioni sono false.
Antonello Pasini, insieme a Climalteranti, ha contattato questi firmatari chiedendo se avessero davvero aderito alla petizione del Giornale e di Zichichi. I risultati sono eloquentissimi: li trovate nell’articolo di Pasini.
Se si arriva a mentire e manipolare per sostenere la propria tesi, forse la tesi è marcia.
2017/07/26
In diretta da Baikonur per seguire la partenza di Paolo Nespoli
Un gruppo italiano di appassionati di imprese spaziali, che include il mio amico e collega di Ti porto la Luna Luigi Pizzimenti, è partito alla volta di Baikonur, in Kazakistan, dove c’è la base di lancio dalla quale partirà l’astronauta italiano Paolo Nespoli il 28 luglio per raggiungere la Stazione Spaziale Internazionale. Il gruppo sta inviando foto via Twitter e si appresta a fare dirette serali intorno alle 19 italiane. Se la cosa vi intriga, seguiteli.
Stasera ore 19.00 (ora italiana) saro' in diretta da Baikonur con @BiagioCimini #LiveBaikonur per @astro_paolo pic.twitter.com/h4tUlzZctA— Luigi Pizzimenti (@LuigiPizzimenti) July 26, 2017
Il razzo Soyuz è in posizione verticale. A 2 giorni dal lancio a Baikonur si vivono emozioni fortissime! #LiveBaikonur #Vitamission pic.twitter.com/ESSTLOz8bk
— Biagio Cimini (@BiagioCimini) 26 luglio 2017
2017/07/25
Stasera sarò a Spotorno, a Scienza Fantastica, per parlare delle bufale di The Martian
A Spotorno è in corso da ieri la quinta edizione di Scienza Fantastica, un evento divulgativo che fa incontrare scienza e fantascienza, ospitando osservazioni astronomiche, mostre e interventi pubblici di autori, disegnatori, tecnici, scienziati e astronauti: quest’anno ci sarà Umberto Guidoni.
Nel mio piccolo ci sarò anch’io, stasera alle 21 in Piazza della Vittoria, per la conferenza “Non è Marte, è Hollywood: bufale e realismo di The Martian”: partirò dal film e dai suoi errori scientifici per raccontare il vero Marte e la realtà dell’esplorazione marziana.
Domattina alle 9 sarò alla Biblioteca di Spotorno per “Mar…te e biscottini”, un incontro informale, definito dagli organizzatori “colazione galattica per bambini e famiglie”, per parlare a ruota libera dello spazio, della scienza e della fantascienza e rispondere alle domande e curiosità di tutti.
Il programma completo della manifestazione è qui. Tutti gli eventi sono a ingresso libero grazie all’impegno del Comune di Spotorno e degli sponsor.
2017/07/26 20:30. Queste sono le fonti principali che ho utilizzato: Everything Wrong With The Martian - With Dr. Neil deGrasse Tyson, Everything Scientifically Wrong with 'The Martian' film, Bu.edu, IFLScience, Time, The Guardian, Gizmodo, Wired, Greenville.edu, NASA. Non c’è una registrazione audio o video della serata.
Nel mio piccolo ci sarò anch’io, stasera alle 21 in Piazza della Vittoria, per la conferenza “Non è Marte, è Hollywood: bufale e realismo di The Martian”: partirò dal film e dai suoi errori scientifici per raccontare il vero Marte e la realtà dell’esplorazione marziana.
Domattina alle 9 sarò alla Biblioteca di Spotorno per “Mar…te e biscottini”, un incontro informale, definito dagli organizzatori “colazione galattica per bambini e famiglie”, per parlare a ruota libera dello spazio, della scienza e della fantascienza e rispondere alle domande e curiosità di tutti.
Il programma completo della manifestazione è qui. Tutti gli eventi sono a ingresso libero grazie all’impegno del Comune di Spotorno e degli sponsor.
2017/07/26 20:30. Queste sono le fonti principali che ho utilizzato: Everything Wrong With The Martian - With Dr. Neil deGrasse Tyson, Everything Scientifically Wrong with 'The Martian' film, Bu.edu, IFLScience, Time, The Guardian, Gizmodo, Wired, Greenville.edu, NASA. Non c’è una registrazione audio o video della serata.
2017/07/23
Trollata epica di Samantha Cristoforetti ai terrapiattisti
Ieri su Twitter un utente, @cambiacasacca, ha scritto a Samantha Cristoforetti: "Ciao @astrosamantha, posso farti una domanda chiedendoti di essere sincera? La terra é tonda o piatta?".
La risposta di Sam: "E' tetraedrica. Una scomoda verità che la potentissima lobby internazionale della terra piatta vorrebbe tenerci nascosta".
La vicenda ha attirato anche l’attenzione di ADNKronos. Ma non saltate in testa a @cambiacasacca dandogli del terrapiattista: il suo account è umoristico (esempio: “Riflettevo che San Pietro quando Gesù gli ha detto "Ti chiamerai Pietro" avrà pensato " Ma Simone ti fa così schifo?"”).
La risposta, fra l’altro, è perfetta, perché funziona sia nel caso di una domanda seria, sia nel caso di una domanda fatta per ridere. Non attacca l’interlocutore, ma al tempo stesso prende per i fondelli quelli che realmente sostengono che la Terra sarebbe piatta.
Ciao @AstroSamantha, posso farti una domanda chiedendoti di essere sincera? La terra é tonda o piatta?— Cambiacasacca (@Cambiacasacca) July 22, 2017
La risposta di Sam: "E' tetraedrica. Una scomoda verità che la potentissima lobby internazionale della terra piatta vorrebbe tenerci nascosta".
.E' tetraedrica. Una scomoda verità che la potentissima lobby internazionale della terra piatta vorrebbe tenerci nascosta.— Sam Cristoforetti (@AstroSamantha) July 22, 2017
La vicenda ha attirato anche l’attenzione di ADNKronos. Ma non saltate in testa a @cambiacasacca dandogli del terrapiattista: il suo account è umoristico (esempio: “Riflettevo che San Pietro quando Gesù gli ha detto "Ti chiamerai Pietro" avrà pensato " Ma Simone ti fa così schifo?"”).
La risposta, fra l’altro, è perfetta, perché funziona sia nel caso di una domanda seria, sia nel caso di una domanda fatta per ridere. Non attacca l’interlocutore, ma al tempo stesso prende per i fondelli quelli che realmente sostengono che la Terra sarebbe piatta.
2017/07/22
Comprereste un’auto che si aggiorna da sola via Internet come un telefonino?
Questo articolo vi arriva gratuitamente e senza pubblicità grazie alle donazioni dei lettori. Se vi piace, potete farne una anche voi per incoraggiarmi a scrivere ancora. Ultimo aggiornamento: 2017/07/27 21:40.
Daimler ha annunciato qualche giorno fa che spenderà 220 milioni di euro per aggiornare il software di gestione delle Mercedes diesel europee, allo scopo di migliorare le prestazioni del sistema di controllo dei gas di scarico. L’aggiornamento, a quanto pare, dovrà essere effettuato in officina, e così mi è venuto spontaneo un commento:
Non l’avessi mai fatto: se date un’occhiata alla conversazione che ne è scaturita, noterete le reazioni angosciate di molti commentatori all’idea che un’auto aggiorni il proprio software automaticamente, senza passare da un intervento in officina, scaricandolo via Internet (OTA, over the air) come fa uno smartphone o un computer.
Sono emerse le paure e le dicerie più strane, per cui credo che valga la pena di cogliere l’occasione per sentire le vostre opinioni e sensazioni sul tema proposto dal titolo e per smontare alcuni miti a quanto pare piuttosto diffusi. Mentre alcuni vedono l’aggiornabilità del software di un’auto come un enorme vantaggio (l’auto invecchia di meno e può migliorare le proprie prestazioni anche dopo l’acquisto), altri la percepiscono come un pericolo. È un sentimento di diffidenza che, se diffuso, può seriamente compromettere il successo di una casa automobilistica, per cui non va sottovalutato: poco importa che abbia basi razionali o no.
Qui sotto faccio occasionalmente riferimento all’unica auto aggiornabile OTA che conosco (Tesla), ma i concetti generali valgono per qualunque marca.
Aggiornamenti a sorpresa? No. C’è chi teme di accendere l’auto la mattina e subire l’“effetto Windows”, ossia di dover aspettare che gli aggiornamenti s’installino, o che addirittura la procedura di aggiornamento parta da sola durante la guida, creando scompiglio o rendendo ingovernabile l’auto. Assolutamente no: bisognerebbe essere pazzi per implementare un sistema del genere. Più semplicemente, si può fare in modo che l’aggiornamento venga scaricato e installato in un momento scelto dall’utente, per esempio di notte, quando l’auto è ferma in garage. Inoltre l’aggiornamento può essere proposto e non imposto.
E se l’aggiornamento si pianta? Non è che l’auto diventi un ammasso di ferraglia immobile. Si può fare in modo che il software venga scaricato e verificato prima di tentare l’installazione (checksum): cose che si fanno da tempo in informatica. Si può implementare un rollback: se l’aggiornamento non si installa correttamente, l’auto torna alla versione precedente.
E se l’aggiornamento mi peggiora le prestazioni? Non è una fantasia: stando ai reclami, è già successo con le Jeep Renegade Fiat nel 2017, a quanto pare per evitare un Dieselgate, come mi segnala mambo nei commenti. Questa, però, non è questione tecnica, ma una questione legale e di politica aziendale. I consumatori e gli enti che li tutelano dovranno attrezzarsi ed essere vigili, in modo che chi bara in questo modo venga punito.
Incubo hacker. C’è chi teme che aggiornare un’auto via Internet, o peggio ancora avere un’auto costantemente connessa a Internet, esponga al rischio di un attacco informatico. E se si scarica un aggiornamento falso, creato da criminali? Dipende com’è fatta la procedura di scaricamento e aggiornamento. Chiunque abbia un briciolo di buon senso la implementa in modo che sia l’auto a interrogare il server degli aggiornamenti della casa produttrice, e lo faccia in modo cifrato e autenticato; firma digitalmente gli aggiornamenti con una chiave di autenticazione robusta (code signing) e fa in modo che l’auto accetti solo aggiornamenti firmati con quella chiave. Si fa in modo, insomma, che un criminale informatico non possa semplicemente inviare un file a un’auto e sperare che l’auto lo installi.
Farlo in officina è più sicuro (no). Molti preferiscono un intervento in officina, ma in realtà questo non fa che spostare il punto di attacco senza offrire alcuna garanzia aggiuntiva. Il tecnico in officina non fa altro che scaricare l’aggiornamento e poi installarlo. Di certo non controlla il codice (ammesso che sappia e possa farlo). Se lo scarica su un PC infetto, magari quello sul quale gioca a GTA craccato nei momenti liberi, rischia di infettare le auto dei clienti. Il concetto di officina come punto centrale di attacco (watering hole) è già stato dimostrato.
Ma non è mai stato fatto prima. In realtà Apple e Microsoft gestiscono da anni lo scaricamento sicuro degli aggiornamenti. Se ci riescono loro, può riuscirci anche una casa automobilistica.
Ma non è tecnicamente possibile essere così affidabili. Lo è: la NASA e l’ESA, per esempio, aggiornano periodicamente il software delle proprie sonde interplanetarie. I loro sistemi di controllo sono progettati per sopravvivere alle condizioni più impegnative, nelle quali è impossibile andare a premere Reset o reinstallare da zero e ci sono in ballo miliardi.
Ma l’aggiornamento OTA potrebbe trasformare l’auto in un killer. Si pensa, per esempio, a un baco del software o a un sabotaggio intenzionale, che in certe condizioni manda in tilt i freni o causa accelerazioni incontrollate. In effetti potrebbe succedere. Ma fare un aggiornamento in officina comporta lo stesso rischio. Anche non aggiornare ha lo stesso problema: chi vi dice che il software corrente non abbia lo stesso baco/sabotaggio dormiente?
Ma ci sarebbe il movente del ricatto. Sì, un attacco informatico che riuscisse a compromettere gli aggiornamenti di un’intera flotta sarebbe disastroso per la reputazione aziendale. Ma perché prendersi tutta questa briga, trovando qualcuno talmente bravo da superare tutti gli ostacoli informatici di sicurezza, quando è molto più facile un ricatto basato, che so, sul rapimento dei figli di un dirigente? Una cosa tipo “Musk, smetti di fare auto o tuo figlio fa una brutta fine”? I criminali non sono scemi: preferiscono la maniera più semplice che richieda lo sforzo minimo.
E se restassimo con l’auto che non si aggiorna? Purtroppo questo non risolverebbe il problema, perché anche le auto che non hanno la funzione di aggiornamento possono avere difetti nel software di bordo che consentono di attaccarle (come è successo con le Jeep Cherokee e con altre marche). Cosa peggiore, non essendo aggiornabili non è possibile, o è onerosissimo, correggere la vulnerabilità (come nel caso di GM, che ci ha messo cinque anni). Un’auto aggiornabile OTA può risolvere la vulnerabilità in pochi giorni (è successo nel 2016 per una falla di Tesla).
In sintesi: realizzare un sistema di aggiornamento OTA per auto sicuro si può (e si deve, visto che comunque è software che gestisce una tonnellata o due in movimento ad alta velocità con persone a bordo). Se fatto bene, ha lo stesso livello di rischio (o un livello minore) di un aggiornamento fatto in officina o di un non aggiornamento. Quello che dobbiamo chiedere alle case automobilistiche è di usare i criteri di affidabilità della NASA e non quelli del massimo risparmio.
2017/07/27 21:40. A proposito della sicurezza informatica di Tesla, visto che qualcuno mi scambia per un fanboy, segnalo questi commenti di Charlie Miller di oggi (se non sapete chi è, Googlatelo).
Fonte aggiuntiva: Ars Technica.
Daimler ha annunciato qualche giorno fa che spenderà 220 milioni di euro per aggiornare il software di gestione delle Mercedes diesel europee, allo scopo di migliorare le prestazioni del sistema di controllo dei gas di scarico. L’aggiornamento, a quanto pare, dovrà essere effettuato in officina, e così mi è venuto spontaneo un commento:
Mi sa che in questo momento Mercedes rimpiange di non fare auto aggiornabili OTA come Tesla :-) https://t.co/ww8eTxaVLZ— Paolo Attivissimo (@disinformatico) 19 luglio 2017
Non l’avessi mai fatto: se date un’occhiata alla conversazione che ne è scaturita, noterete le reazioni angosciate di molti commentatori all’idea che un’auto aggiorni il proprio software automaticamente, senza passare da un intervento in officina, scaricandolo via Internet (OTA, over the air) come fa uno smartphone o un computer.
Sono emerse le paure e le dicerie più strane, per cui credo che valga la pena di cogliere l’occasione per sentire le vostre opinioni e sensazioni sul tema proposto dal titolo e per smontare alcuni miti a quanto pare piuttosto diffusi. Mentre alcuni vedono l’aggiornabilità del software di un’auto come un enorme vantaggio (l’auto invecchia di meno e può migliorare le proprie prestazioni anche dopo l’acquisto), altri la percepiscono come un pericolo. È un sentimento di diffidenza che, se diffuso, può seriamente compromettere il successo di una casa automobilistica, per cui non va sottovalutato: poco importa che abbia basi razionali o no.
Qui sotto faccio occasionalmente riferimento all’unica auto aggiornabile OTA che conosco (Tesla), ma i concetti generali valgono per qualunque marca.
Aggiornamenti a sorpresa? No. C’è chi teme di accendere l’auto la mattina e subire l’“effetto Windows”, ossia di dover aspettare che gli aggiornamenti s’installino, o che addirittura la procedura di aggiornamento parta da sola durante la guida, creando scompiglio o rendendo ingovernabile l’auto. Assolutamente no: bisognerebbe essere pazzi per implementare un sistema del genere. Più semplicemente, si può fare in modo che l’aggiornamento venga scaricato e installato in un momento scelto dall’utente, per esempio di notte, quando l’auto è ferma in garage. Inoltre l’aggiornamento può essere proposto e non imposto.
E se l’aggiornamento si pianta? Non è che l’auto diventi un ammasso di ferraglia immobile. Si può fare in modo che il software venga scaricato e verificato prima di tentare l’installazione (checksum): cose che si fanno da tempo in informatica. Si può implementare un rollback: se l’aggiornamento non si installa correttamente, l’auto torna alla versione precedente.
E se l’aggiornamento mi peggiora le prestazioni? Non è una fantasia: stando ai reclami, è già successo con le Jeep Renegade Fiat nel 2017, a quanto pare per evitare un Dieselgate, come mi segnala mambo nei commenti. Questa, però, non è questione tecnica, ma una questione legale e di politica aziendale. I consumatori e gli enti che li tutelano dovranno attrezzarsi ed essere vigili, in modo che chi bara in questo modo venga punito.
Incubo hacker. C’è chi teme che aggiornare un’auto via Internet, o peggio ancora avere un’auto costantemente connessa a Internet, esponga al rischio di un attacco informatico. E se si scarica un aggiornamento falso, creato da criminali? Dipende com’è fatta la procedura di scaricamento e aggiornamento. Chiunque abbia un briciolo di buon senso la implementa in modo che sia l’auto a interrogare il server degli aggiornamenti della casa produttrice, e lo faccia in modo cifrato e autenticato; firma digitalmente gli aggiornamenti con una chiave di autenticazione robusta (code signing) e fa in modo che l’auto accetti solo aggiornamenti firmati con quella chiave. Si fa in modo, insomma, che un criminale informatico non possa semplicemente inviare un file a un’auto e sperare che l’auto lo installi.
Farlo in officina è più sicuro (no). Molti preferiscono un intervento in officina, ma in realtà questo non fa che spostare il punto di attacco senza offrire alcuna garanzia aggiuntiva. Il tecnico in officina non fa altro che scaricare l’aggiornamento e poi installarlo. Di certo non controlla il codice (ammesso che sappia e possa farlo). Se lo scarica su un PC infetto, magari quello sul quale gioca a GTA craccato nei momenti liberi, rischia di infettare le auto dei clienti. Il concetto di officina come punto centrale di attacco (watering hole) è già stato dimostrato.
Ma non è mai stato fatto prima. In realtà Apple e Microsoft gestiscono da anni lo scaricamento sicuro degli aggiornamenti. Se ci riescono loro, può riuscirci anche una casa automobilistica.
Ma non è tecnicamente possibile essere così affidabili. Lo è: la NASA e l’ESA, per esempio, aggiornano periodicamente il software delle proprie sonde interplanetarie. I loro sistemi di controllo sono progettati per sopravvivere alle condizioni più impegnative, nelle quali è impossibile andare a premere Reset o reinstallare da zero e ci sono in ballo miliardi.
Ma l’aggiornamento OTA potrebbe trasformare l’auto in un killer. Si pensa, per esempio, a un baco del software o a un sabotaggio intenzionale, che in certe condizioni manda in tilt i freni o causa accelerazioni incontrollate. In effetti potrebbe succedere. Ma fare un aggiornamento in officina comporta lo stesso rischio. Anche non aggiornare ha lo stesso problema: chi vi dice che il software corrente non abbia lo stesso baco/sabotaggio dormiente?
Ma ci sarebbe il movente del ricatto. Sì, un attacco informatico che riuscisse a compromettere gli aggiornamenti di un’intera flotta sarebbe disastroso per la reputazione aziendale. Ma perché prendersi tutta questa briga, trovando qualcuno talmente bravo da superare tutti gli ostacoli informatici di sicurezza, quando è molto più facile un ricatto basato, che so, sul rapimento dei figli di un dirigente? Una cosa tipo “Musk, smetti di fare auto o tuo figlio fa una brutta fine”? I criminali non sono scemi: preferiscono la maniera più semplice che richieda lo sforzo minimo.
E se restassimo con l’auto che non si aggiorna? Purtroppo questo non risolverebbe il problema, perché anche le auto che non hanno la funzione di aggiornamento possono avere difetti nel software di bordo che consentono di attaccarle (come è successo con le Jeep Cherokee e con altre marche). Cosa peggiore, non essendo aggiornabili non è possibile, o è onerosissimo, correggere la vulnerabilità (come nel caso di GM, che ci ha messo cinque anni). Un’auto aggiornabile OTA può risolvere la vulnerabilità in pochi giorni (è successo nel 2016 per una falla di Tesla).
In sintesi: realizzare un sistema di aggiornamento OTA per auto sicuro si può (e si deve, visto che comunque è software che gestisce una tonnellata o due in movimento ad alta velocità con persone a bordo). Se fatto bene, ha lo stesso livello di rischio (o un livello minore) di un aggiornamento fatto in officina o di un non aggiornamento. Quello che dobbiamo chiedere alle case automobilistiche è di usare i criteri di affidabilità della NASA e non quelli del massimo risparmio.
2017/07/27 21:40. A proposito della sicurezza informatica di Tesla, visto che qualcuno mi scambia per un fanboy, segnalo questi commenti di Charlie Miller di oggi (se non sapete chi è, Googlatelo).
Next up: the main event (for me), the keen team talking about their @TeslaMotors hack from last September. I've been waiting for details.
tesla will connect to previous SSIDs and reload last page visited, attacker can intercept this traffic and attack browser.
They used an old webkit bug from 2012 for exploitation and a bug from 2011 for info leak.
They get a restricted shell and then exploit a kernel bug from 2013. it's funny how everyone says tesla takes security so seriously.
the gateway runs powerPC. they flash new firmware onto it (this is like we did against jeep). There was no code signing (like jeep)
(tesla added code signing on flashing the gateway after this vuln was reported)
it's unknown whether fiat chrysler added code signing for the jeep
some ecus don't respond while driving. they block the speed messages with the gateway
wow, the ecus use a fixed key for security access. ford, toyota, and fiat chrysler didn't make that silly mistake. nice job
i remember when everyone applauded tesla for their security at defcon during marc rogers talk in 2015.
i think tesla does a lot of security stuff right and should be commended, but let's not go overboard on congratulating them
keen team talking about new exploit chain from 2017 including model X. bypasses new code signing. no details on the 2017 vulns for now.
Fonte aggiuntiva: Ars Technica.
Antibufala micro: la foto del “corso di educazione sessuale” del 1929
Circola da anni, specialmente negli account Twitter dedicati alle immagini “sorprendenti” (in realtà fabbriche di spam e acchiappaclic), questa foto, che viene presentata come un’immagine di un corso di educazione sessuale datata 1929.
Falso: in realtà è un fotogramma tratto dal film Wild Party del 1929.
Fonte: Hoaxeye.
Falso: in realtà è un fotogramma tratto dal film Wild Party del 1929.
Fonte: Hoaxeye.
2017/07/21
Podcast del Disinformatico del 2017/07/21
È disponibile per lo scaricamento il podcast della puntata di oggi del Disinformatico della Radiotelevisione Svizzera. Buon ascolto!
Ci vediamo domani a Milano al Campus Party Italia?
Domani (sabato 22) alle 16 sarò ospite del Campus Party Italia (Milano Congressi, Piazzale Carlo Magno 1) per una conferenza intitolata “Una giornata...spaziale!”, in cui racconterò come si vive nello spazio, in particolare a bordo della Stazione Spaziale Internazionale. Attraverso foto e video rari o inediti in alta definizione, proporrò il racconto di una giornata tipica nello spazio: come si lavora, si mangia, ci si lava, si dorme e si ammira l’Universo dalla Stazione, e come si arriva oggi a diventare astronauti.
Attacco informatico al casinò tramite.... l’acquario?
Il Comandante Adama di Battlestar Galactica aveva capito tutto: le interconnessioni fra computer sono un tallone d’Achille.
La CNN racconta uno dei casi più bizzarri di attacco informatico degli ultimi tempi, messo a segno sfruttando un’interconnessione decisamente inconsueta: un acquario.
Un casinò situato in America settentrionale, di cui non è stato reso noto il nome, è stato oggetto di un’incursione informatica mirata a rubare dati. Per aggirare la sicurezza informatica del casinò, gli aggressori hanno attaccato il suo acquario smart, che era connesso a Internet per nutrire automaticamente i pesci e mantenere le condizioni ambientali adatte per i suoi ospiti.
Purtroppo l’acquario non era ben protetto informaticamente, per cui gli aggressori ne hanno preso il controllo e poi hanno usato i suoi sistemi e le sue connessioni per accedere alla rete informatica interna del casinò, trovare altri sistemi vulnerabili e penetrare più a fondo nella rete. Hanno poi utilizzato l’acquario anche per trasmettere verso la Finlandia i dati rubati, perlomeno finché non sono stati scoperti e bloccati.
Morale della storia: mai collegare a Internet dispositivi che non siano strettamente indispensabili. E se proprio sono indispensabili, collegarli usando una rete separata.
La CNN racconta uno dei casi più bizzarri di attacco informatico degli ultimi tempi, messo a segno sfruttando un’interconnessione decisamente inconsueta: un acquario.
Un casinò situato in America settentrionale, di cui non è stato reso noto il nome, è stato oggetto di un’incursione informatica mirata a rubare dati. Per aggirare la sicurezza informatica del casinò, gli aggressori hanno attaccato il suo acquario smart, che era connesso a Internet per nutrire automaticamente i pesci e mantenere le condizioni ambientali adatte per i suoi ospiti.
Purtroppo l’acquario non era ben protetto informaticamente, per cui gli aggressori ne hanno preso il controllo e poi hanno usato i suoi sistemi e le sue connessioni per accedere alla rete informatica interna del casinò, trovare altri sistemi vulnerabili e penetrare più a fondo nella rete. Hanno poi utilizzato l’acquario anche per trasmettere verso la Finlandia i dati rubati, perlomeno finché non sono stati scoperti e bloccati.
Morale della storia: mai collegare a Internet dispositivi che non siano strettamente indispensabili. E se proprio sono indispensabili, collegarli usando una rete separata.
Video: perché questo uccellino sta a mezz’aria con le ali ferme?
Quasi due milioni di visualizzazioni per un video di un uccellino che svolazza davanti a una telecamera di sorveglianza domestica possono sembrare tante, ma se lo guardate (dura solo undici secondi) capirete il motivo di tanto interesse: il volatile sta sospeso in aria senza che si veda alcun movimento delle ali. Come è possibile?
Non è grafica digitale o un trucco fisico: l’uccellino non è stato appeso a un filo o creato digitalmente. Quello che si vede nel video è tutto reale. La spiegazione è poco intuitiva per chi non conosce il funzionamento di una telecamera: per una fortunata coincidenza, le ali si muovono con la stessa cadenza con la quale la telecamera acquisisce la sequenza di immagini fisse che compongono il video (circa 20 cicli al secondo, come spiegato dall'autore, GingerBeard), per cui il video ha registrato le immagini delle ali solo quando erano in una posizione sempre uguale del loro battito.
Questa tecnica, chiamata spesso stroboscopia, si usa da tempo in numerose varianti per esaminare movimenti rapidi e ripetitivi, per esempio di macchinari, ed è la ragione per la quale in alcuni film e video si vede che le ruote dei carri e delle auto sembrano girare in senso contrario a quello di marcia. Ma è rarissimo vederla in azione per caso e con risultati così magici come in questo video.
In arrivo Play Protect, “antivirus” di Google per Android
Ultimo aggiornamento: 2017/07/21 11:35.
Se avete un dispositivo Android, provate ad andare nelle Impostazioni, selezionate la voce Google - Sicurezza (da non confondere con Accesso e sicurezza) - Verifica app. Se avete questa voce e compare un’icona con uno scudo verde e il triangolo di Google Play, come mostrato qui accanto, siete protetti da Google Play Protect, un nuovo “antivirus” per Android realizzato e distribuito automaticamente da Google.
Play Protect effettua una scansione di sicurezza di tutte le app installate, consente di ritrovare un dispositivo smarrito o rubato e protegge la navigazione in Internet: è insomma una risorsa utilissima per evitare le app truffaldine e infette che spesso compaiono anche nel Play Store ufficiale e ancora più spesso circolano sui siti poco raccomandabili. In pratica può sostituire o affiancare molti degli antivirus per Android già esistenti e forniti da altre aziende.
È importante sottolineare che Play Protect non è un’app: è una voce aggiuntiva dei menu del dispositivo. Diffidate delle app con nomi simili che stanno affollando il Play Store: nel caso migliore sono distrazioni o vi bombardano di pubblicità, nel caso peggiore sono inganni infettanti.
Non tutti i dispositivi Android riceveranno Play Protect: secondo la documentazione di Google, occorre un Android aggiornato almeno alla versione 7.0, ma i commenti arrivati dopo la pubblicazione iniziale di questo articolo mi segnalano che Play Protect compare anche su versioni precedenti.
Maggiori informazioni su Play Protect, comprese le istruzioni per disattivarlo se necessario, sono nella Guida e nella pagina informativa di Google.
Fonte aggiuntiva: HDblog.
Se avete un dispositivo Android, provate ad andare nelle Impostazioni, selezionate la voce Google - Sicurezza (da non confondere con Accesso e sicurezza) - Verifica app. Se avete questa voce e compare un’icona con uno scudo verde e il triangolo di Google Play, come mostrato qui accanto, siete protetti da Google Play Protect, un nuovo “antivirus” per Android realizzato e distribuito automaticamente da Google.
Play Protect effettua una scansione di sicurezza di tutte le app installate, consente di ritrovare un dispositivo smarrito o rubato e protegge la navigazione in Internet: è insomma una risorsa utilissima per evitare le app truffaldine e infette che spesso compaiono anche nel Play Store ufficiale e ancora più spesso circolano sui siti poco raccomandabili. In pratica può sostituire o affiancare molti degli antivirus per Android già esistenti e forniti da altre aziende.
È importante sottolineare che Play Protect non è un’app: è una voce aggiuntiva dei menu del dispositivo. Diffidate delle app con nomi simili che stanno affollando il Play Store: nel caso migliore sono distrazioni o vi bombardano di pubblicità, nel caso peggiore sono inganni infettanti.
Non tutti i dispositivi Android riceveranno Play Protect: secondo la documentazione di Google, occorre un Android aggiornato almeno alla versione 7.0, ma i commenti arrivati dopo la pubblicazione iniziale di questo articolo mi segnalano che Play Protect compare anche su versioni precedenti.
Maggiori informazioni su Play Protect, comprese le istruzioni per disattivarlo se necessario, sono nella Guida e nella pagina informativa di Google.
Fonte aggiuntiva: HDblog.
“Strano segnale” da una stella vicina? Interessante, ma non è ET
Ultimo aggiornamento: 2017/07/27 8:00.
Come sempre quando il mondo scientifico annuncia di aver ricevuto segnali interessanti dal cosmo, anche stavolta si è scatenato l’entusiasmo di chi spera che si tratti finalmente della prova dell’esistenza della vita intelligente al di fuori della Terra. Ma vista l’importanza della questione e la frequenza dei falsi allarmi, è meglio andarci cauti.
Qualche giorno fa Repubblica ha titolato (piuttosto sobriamente, va detto) “Ross 128, captato uno strano segnale dalla stella vicina”, a firma di Giacomo Talignani, e ha riassunto bene i fatti tecnici, tratti dall’annuncio originale: il professor Abel Méndez, dell’Università di Puerto Rico, ha descritto la ricezione, presso il sensibilissimo radiotelescopio di Arecibo, di un segnale radio “strano” dalla stella Ross 128, che si trova a 11 anni luce da noi nella costellazione della Vergine (praticamente sotto casa).
Tutte le stelle emettono segnali radio insieme alla luce visibile e ad altre radiazioni, per cui l’esistenza di un segnale in sé non è insolita: però le caratteristiche di questo segnale erano anomale (pulsazioni quasi periodiche), per cui meritavano un approfondimento.
Méndez ha messo subito le mani avanti dicendo che “l’ipotesi aliena è in fondo all’elenco dopo molte altre spiegazioni migliori” e che ha “una Piña Colada pronta per festeggiare se i segnali sono di natura astronomica” e pubblicando un tweet molto chiaro: “Aspettiamo tutti i risultati prima di giungere a una conclusione sulla natura dei segnali da #Ross128 questa settimana. Spoiler: niente alieni”.
Ieri (20 luglio) è arrivata la spiegazione: è molto probabile che si tratti di un disturbo radio proveniente da un satellite artificiale terrestre. Niente Piña Colada, insomma.
Non è la prima volta che capita che un segnale apparentemente promettente si riveli poi molto banale, come quando ci si accorse dopo cinque anni di mistero cosmico che il radiotelescopio di Parkes, in Australia, aveva in realtà captato il segnale manifestamente artificiale di un forno a microonde.
Ed è per questo che prima di pensare a ET è prudente scartare una per una, pazientemente, tutte le altre ipotesi alternative.
2017/07/27 8:00. Il SETI Institute ha annunciato che il segnale proviene dai satelliti geostazionari in orbita intorno alla Terra. La verifica è stata resa possibile dal radiotelescopio Allen Telescope Array e da osservazioni congiunte di altri radiotelescopi.
Fonti aggiuntive: The Verge, Washington Post.
Come sempre quando il mondo scientifico annuncia di aver ricevuto segnali interessanti dal cosmo, anche stavolta si è scatenato l’entusiasmo di chi spera che si tratti finalmente della prova dell’esistenza della vita intelligente al di fuori della Terra. Ma vista l’importanza della questione e la frequenza dei falsi allarmi, è meglio andarci cauti.
Qualche giorno fa Repubblica ha titolato (piuttosto sobriamente, va detto) “Ross 128, captato uno strano segnale dalla stella vicina”, a firma di Giacomo Talignani, e ha riassunto bene i fatti tecnici, tratti dall’annuncio originale: il professor Abel Méndez, dell’Università di Puerto Rico, ha descritto la ricezione, presso il sensibilissimo radiotelescopio di Arecibo, di un segnale radio “strano” dalla stella Ross 128, che si trova a 11 anni luce da noi nella costellazione della Vergine (praticamente sotto casa).
Tutte le stelle emettono segnali radio insieme alla luce visibile e ad altre radiazioni, per cui l’esistenza di un segnale in sé non è insolita: però le caratteristiche di questo segnale erano anomale (pulsazioni quasi periodiche), per cui meritavano un approfondimento.
Méndez ha messo subito le mani avanti dicendo che “l’ipotesi aliena è in fondo all’elenco dopo molte altre spiegazioni migliori” e che ha “una Piña Colada pronta per festeggiare se i segnali sono di natura astronomica” e pubblicando un tweet molto chiaro: “Aspettiamo tutti i risultati prima di giungere a una conclusione sulla natura dei segnali da #Ross128 questa settimana. Spoiler: niente alieni”.
Ieri (20 luglio) è arrivata la spiegazione: è molto probabile che si tratti di un disturbo radio proveniente da un satellite artificiale terrestre. Niente Piña Colada, insomma.
Non è la prima volta che capita che un segnale apparentemente promettente si riveli poi molto banale, come quando ci si accorse dopo cinque anni di mistero cosmico che il radiotelescopio di Parkes, in Australia, aveva in realtà captato il segnale manifestamente artificiale di un forno a microonde.
Ed è per questo che prima di pensare a ET è prudente scartare una per una, pazientemente, tutte le altre ipotesi alternative.
2017/07/27 8:00. Il SETI Institute ha annunciato che il segnale proviene dai satelliti geostazionari in orbita intorno alla Terra. La verifica è stata resa possibile dal radiotelescopio Allen Telescope Array e da osservazioni congiunte di altri radiotelescopi.
Fonti aggiuntive: The Verge, Washington Post.
Apple, aggiornamenti di sicurezza essenziali (uno anche per Android)
Apple ha rilasciato iOS 10.3.3, che contiene correzioni fondamentali per quanto riguarda la sicurezza di base. Come descritto nelle note tecniche, è disponibile per iPhone 5 e successivi, per iPad di quarta generazione e successivi, e per gli iPod touch di sesta generazione.
L’aggiornamento corregge falle che consentono a un aggressore di prendere il controllo del dispositivo in vari modi, il più spettacolare e interessante dei quali è un attacco che prende di mira i componenti Wi-Fi dell’iCoso: “un aggressore a portata può riuscire a eseguire codice arbitrario sul chip Wi-Fi”, dice laconicamente Apple.
Questa falla, etichettata CVE-2017-941 e nota informalmente come Broadpwn, tocca anche tutti i dispositivi Android dotati dei chipset Wi-Fi BCM43xx di Broadcom, come descritto dal NIST qui e da Blackhat.com qui, e consente di prenderne il controllo senza alcuna interazione dell’utente, semplicemente emettendo un segnale Wi-Fi appositamente confezionato. Brutto affare, insomma: e mentre gli utenti Apple che hanno dispositivi recenti sono aggiornati e protetti in massa, molti utenti Android possono solo pregare che il loro produttore offra prima o poi un aggiornamento software (il mio Nexus 5X, aggiornato direttamente da Google, è già a posto).
Anche macOS viene aggiornato, portandolo alla versione 10.12.6. Ci sono aggiornamenti anche per tvOS (10.2.2) e watchOS (3.2.3). Come sempre, è opportuno installare tutti questi nuovi software appena possibile.
L’aggiornamento corregge falle che consentono a un aggressore di prendere il controllo del dispositivo in vari modi, il più spettacolare e interessante dei quali è un attacco che prende di mira i componenti Wi-Fi dell’iCoso: “un aggressore a portata può riuscire a eseguire codice arbitrario sul chip Wi-Fi”, dice laconicamente Apple.
Questa falla, etichettata CVE-2017-941 e nota informalmente come Broadpwn, tocca anche tutti i dispositivi Android dotati dei chipset Wi-Fi BCM43xx di Broadcom, come descritto dal NIST qui e da Blackhat.com qui, e consente di prenderne il controllo senza alcuna interazione dell’utente, semplicemente emettendo un segnale Wi-Fi appositamente confezionato. Brutto affare, insomma: e mentre gli utenti Apple che hanno dispositivi recenti sono aggiornati e protetti in massa, molti utenti Android possono solo pregare che il loro produttore offra prima o poi un aggiornamento software (il mio Nexus 5X, aggiornato direttamente da Google, è già a posto).
Anche macOS viene aggiornato, portandolo alla versione 10.12.6. Ci sono aggiornamenti anche per tvOS (10.2.2) e watchOS (3.2.3). Come sempre, è opportuno installare tutti questi nuovi software appena possibile.
2017/07/20
Doctor Who sarà interpretato da una donna. Gente, fatevene una ragione e crescete
Questo articolo vi arriva gratuitamente e senza pubblicità grazie alle donazioni di lettori come nicolagrec* e p.suffr*. Se vi piace, potete farne una anche voi per incoraggiarmi a scrivere ancora. Ultimo aggiornamento: 2017/07/29 20:40.
Domenica scorsa la BBC ha annunciato che il prossimo interprete principale della serie Doctor Who sarà una donna, Jodie Whittaker, dopo 54 anni di interpreti maschili, e in Rete è scoppiato il putiferio (anche fra i fan italiani).
L’annuncio ha messo in luce un paio di cose: la prima è che ci sono tantissimi maschietti talmente insicuri che l’idea che una donna possa interpretare un ruolo iconico, forte ed eroico li mette in crisi. Una crisi che sarei tentato di chiamare isterica.
La seconda è che questa polemica dimostra che chi strilla non conosce neanche le basi di Doctor Who. Il Dottore è un alieno mutaforma che si rigenera in corpi sempre differenti: essendo alieno, non è “maschio” o “femmina”. Le categorie di sessualità terrestri sono irrilevanti.
Non solo: rigenerazioni con cambio di sesso sono già avvenute in Doctor Who.
-- Il Master, che è un Time Lord come il Dottore, si è già rigenerato in un corpo femminile tempo fa (nel 2016, in Dark Water);
-- il Generale si è rigenerato passando da un corpo maschile a uno femminile (in Hell Bent, 2015, video), cambiando anche colore della pelle (grazie a webwizard per la dritta);
-- si era già detto, nella serie, che i Time Lord lo fanno (The Corsair, in The Doctor's Wife, 2011; grazie a @gavhriel83 per questa segnalazione);
-- il Dottore stesso forse è già stato femmina da piccolo: lo dice Missy nella prima puntata della nona stagione, The Magician’s Apprentice, a 18:10: “Since he was a little girl”, ma forse sta mentendo (chicca segnalatami da @gsellitto);
-- Il Radio Times offre ulteriori esempi in questo articolo.
In altre parole: un Dottore che diventa donna è canon, fatevene una ragione e crescete.
La terza è che purtroppo c’è ancora tanta gente che valuta le persone in base a quello che hanno tra le gambe invece di quel che hanno tra le orecchie. Gente che è talmente fragile che si sente minacciata dall’emergere di ruoli forti interpretati da donne, come Wonder Woman o come Rey in Star Wars, giusto per citarne un paio di recenti. Gente (comprese alcune donne) ancora ferma allo stereotipo della damigella da salvare, come se non ci fossero già stati gli esempi del capitano Janeway in Star Trek Voyager o, prima ancora, di Ripley di Alien e della principessa Leia di Guerre Stellari.
Soprattutto noi fan di fantascienza, che esploriamo quotidianamente i limiti del possibile e non ci facciamo problemi ad accettare alieni superintelligenti con sette gambe o le orecchie a punta, dovremmo essere al di sopra di queste beghe sessiste. Siamo appassionati di un genere che, in teoria, dovrebbe aprire la mente. Oltretutto Jodie Whittaker ha talento da vendere: lo ha dimostrato in Broadchurch, Attack the Block, Black Mirror e tante altre sue interpretazioni, di cui trovate una buona selezione su DigitalSpy.
Sulla questione la risposta migliore è stata data dall’account Twitter di un dizionario:
Alla fine la BBC, obbligata per statuto, ha risposto magistralmente e ufficialmente alle lamentele:
Fine della storia. O quasi.
Infatti i fan italiani, in particolare, me compreso, si sono posti un dilemma linguistico: lo chiameremo ancora il Dottore? Certo che sì: la Dottoressa suonerebbe ridicolo, interromperebbe la continuità, causerebbe problemi di doppiaggio continui, e farebbe perdere la neutralità che invece il termine ha in inglese. Sono in contatto con chi traduce in italiano gli episodi di Doctor Who: resterà il Dottore.
Del resto, mi segnala un’amica, c’è un precedente nel doppiaggio italiano. Ne La signora del West, il medico donna, Micaela Quinn, era chiamato “il dottor Mike.”
Ora possiamo tornare a goderci Doctor Who come tutte le famiglie britanniche da 54 anni a questa parte, ossia i genitori sul divano e i bambini dietro il divano dalla paura?
Credit: BBC. |
Domenica scorsa la BBC ha annunciato che il prossimo interprete principale della serie Doctor Who sarà una donna, Jodie Whittaker, dopo 54 anni di interpreti maschili, e in Rete è scoppiato il putiferio (anche fra i fan italiani).
L’annuncio ha messo in luce un paio di cose: la prima è che ci sono tantissimi maschietti talmente insicuri che l’idea che una donna possa interpretare un ruolo iconico, forte ed eroico li mette in crisi. Una crisi che sarei tentato di chiamare isterica.
La seconda è che questa polemica dimostra che chi strilla non conosce neanche le basi di Doctor Who. Il Dottore è un alieno mutaforma che si rigenera in corpi sempre differenti: essendo alieno, non è “maschio” o “femmina”. Le categorie di sessualità terrestri sono irrilevanti.
Non solo: rigenerazioni con cambio di sesso sono già avvenute in Doctor Who.
-- Il Master, che è un Time Lord come il Dottore, si è già rigenerato in un corpo femminile tempo fa (nel 2016, in Dark Water);
-- il Generale si è rigenerato passando da un corpo maschile a uno femminile (in Hell Bent, 2015, video), cambiando anche colore della pelle (grazie a webwizard per la dritta);
-- si era già detto, nella serie, che i Time Lord lo fanno (The Corsair, in The Doctor's Wife, 2011; grazie a @gavhriel83 per questa segnalazione);
-- il Dottore stesso forse è già stato femmina da piccolo: lo dice Missy nella prima puntata della nona stagione, The Magician’s Apprentice, a 18:10: “Since he was a little girl”, ma forse sta mentendo (chicca segnalatami da @gsellitto);
-- Il Radio Times offre ulteriori esempi in questo articolo.
In altre parole: un Dottore che diventa donna è canon, fatevene una ragione e crescete.
La terza è che purtroppo c’è ancora tanta gente che valuta le persone in base a quello che hanno tra le gambe invece di quel che hanno tra le orecchie. Gente che è talmente fragile che si sente minacciata dall’emergere di ruoli forti interpretati da donne, come Wonder Woman o come Rey in Star Wars, giusto per citarne un paio di recenti. Gente (comprese alcune donne) ancora ferma allo stereotipo della damigella da salvare, come se non ci fossero già stati gli esempi del capitano Janeway in Star Trek Voyager o, prima ancora, di Ripley di Alien e della principessa Leia di Guerre Stellari.
Soprattutto noi fan di fantascienza, che esploriamo quotidianamente i limiti del possibile e non ci facciamo problemi ad accettare alieni superintelligenti con sette gambe o le orecchie a punta, dovremmo essere al di sopra di queste beghe sessiste. Siamo appassionati di un genere che, in teoria, dovrebbe aprire la mente. Oltretutto Jodie Whittaker ha talento da vendere: lo ha dimostrato in Broadchurch, Attack the Block, Black Mirror e tante altre sue interpretazioni, di cui trovate una buona selezione su DigitalSpy.
Sulla questione la risposta migliore è stata data dall’account Twitter di un dizionario:
'Doctor' has no gender in English.— Merriam-Webster (@MerriamWebster) 17 luglio 2017
Alla fine la BBC, obbligata per statuto, ha risposto magistralmente e ufficialmente alle lamentele:
Da quando il primo Dottore si è rigenerato nel 1966, il concetto che il Dottore sia un essere che si evolve costantemente è stato un elemento centrale del programma. L’introduzione continua di idee fresche e di voci nuove in tutto il cast e gli autori e gli addetti alla produzione è stata un fattore chiave della longevità della serie. Il Dottore è un alieno dal pianeta Gallifrey ed è stato assodato, nella serie, che i Signori del Tempo possono cambiare genere.
Fine della storia. O quasi.
Infatti i fan italiani, in particolare, me compreso, si sono posti un dilemma linguistico: lo chiameremo ancora il Dottore? Certo che sì: la Dottoressa suonerebbe ridicolo, interromperebbe la continuità, causerebbe problemi di doppiaggio continui, e farebbe perdere la neutralità che invece il termine ha in inglese. Sono in contatto con chi traduce in italiano gli episodi di Doctor Who: resterà il Dottore.
Del resto, mi segnala un’amica, c’è un precedente nel doppiaggio italiano. Ne La signora del West, il medico donna, Micaela Quinn, era chiamato “il dottor Mike.”
Ora possiamo tornare a goderci Doctor Who come tutte le famiglie britanniche da 54 anni a questa parte, ossia i genitori sul divano e i bambini dietro il divano dalla paura?
2017/07/17
Muore Martin Landau, quattro giornali pubblicano lo stesso errore madornale
Questo articolo vi arriva gratuitamente e senza pubblicità grazie alle donazioni di lettori come Domenico DelB* e Angelo Rot*. Se vi piace, potete farne una anche voi per incoraggiarmi a scrivere ancora. Ultimo aggiornamento: 2017/07/20 9:40.
Avete presente gli errori intenzionali inseriti nelle mappe per beccare chi copia, le trap street di cui scrivevo ad aprile scorso? La morte dell’attore Martin Landau ha messo in luce qualcosa di analogo nei giornali di lingua italiana: specificamente, nel Corriere della Sera, in Repubblica, ne L’Unione Sarda e nel Corriere del Ticino.
Tutti e quattro, infatti, nell’annunciare la scomparsa di Landau hanno pubblicato la stessa castroneria, dicendo che Spazio 1999, serie di fantascienza nella quale Landau interpretava il Comandante Koenig, era stata creata da Gene Roddenberry.
Ma come ben sa qualunque appassionato di fantascienza, Spazio 1999 era opera dei britannici Gerry e Sylvia Anderson, mentre lo statunitense Roddenberry era padre di tutt’altra serie: Star Trek. Confondere le due cose è come essere tifosi di calcio e confondere la Roma con la Lazio.
Questo è il Corriere della Sera, che scrive “L’attore Martin Landau, che tanti ricordano per l’interpretazione del comandante Koenig in Spazio 1999, serie fantascientifica cult creata da Gene Roddenberry, lo stesso produttore di Star Trek e Ufo”, raddoppiando la dose di panzane (anche UFO era di Gerry e Sylvia Anderson) e poi insiste scrivendo “Poi l’incontro con Gene Rodddenberry, «papà» di Star Trek, di Ufo e di altre fortunatissime serie tv, che lo recluta, ancora assieme alla moglie, per Spazio 1999”, aggiungendo un Roddenberry con 3 D (copia su Archive.is):
Questa è L’Unione Sarda (grazie a Federico Pisanu), che scrive “Spazio 1999, serie fantascientifica cult creata da Gene Roddenberry, lo stesso produttore di Star Trek e Ufo”:
Questa è Repubblica, che nel tweet scrive “Roddenberr”, perdendo per strada la Y finale:
Questo è il Corriere del Ticino, che scrive “'Spazio 1999', serie fantascientifica cult creata da Gene Roddenberr”. Anche qui la Y finale s’è persa nell’iperspazio (copia su Archive.is):
Certo, è un errore che non fa crollare il mondo, ma è un errore rivelatore. La sua ripetizione su quattro testate differenti indica che i giornali si copiano fra loro o copiano tutti dalla stessa fonte (presumibilmente un’agenzia). O meglio, indica che copiaincollano senza neanche pensare, e pure male (notate i vari “Roddenberr.”).
E naturalmente non c’è nessun controllo di qualità. Tant’è che al momento in cui scrivo queste righe (le 15:40 del 2017/07/17) nessuna delle testate ha corretto o pubblicato una rettifica, men che meno due righe di scuse.
Dopo la pubblicazione iniziale di questo mio articolo mi è arrivata la segnalazione dello stesso svarione sull’Huffington Post italiano: “Poi l'incontro con Gene Roddenberry, padre di Star Trek, che lo recluta, ancora assieme alla moglie, per Spazio 1999” (copia su Archive.is).
Stessa storia, mi segnala @teleblin, anche su TGCom24, che scrive: “Sempre con la moglie viene reclutato da Gene Rodddenberry regista, tra le tante serie tv di fantascienza, anche di "Star Trek" e di "Ufo", che gli chiede di lavorare in "Spazio 1999"” (copia su Archive.is). Anche qui, Rodddenberry scritto con 3 D e oltretutto promosso regista (in realtà era produttore e non ha mai diretto puntate di Star Trek o Spazio 1999 o UFO).
Per chi conosce la materia trattata da questi articoli, l’impressione amara che ne risulta è semplice: i giornali se ne strafregano della correttezza e della qualità, e quindi se ne strafregano del lettore, facendo finta di offrirgli notizie create da loro che invece provengono con il copiaincolla da qualche agenzia di improvvisati.
Se avessero almeno il pudore di scrivere che la fonte della notizia è un’agenzia che viene semplicemente ripubblicata in automatico, almeno sapremmo a chi dare la colpa. Cosa più importante, se le testate non segnalano che si tratta di copiaincolla da un’agenzia, il lettore pensa che la notizia sia confermata da quattro fonti indipendenti. È dura spiegargli che quattro giornali hanno torto e tu hai ragione.
E poi gli editori dei giornali dicono che il crollo delle vendite è colpa di Internet. Ditemi voi che motivo dovrei avere di pagare per leggere notizie sbagliate. Se questo è quello che succede nei campi in cui sono competente e mi accorgo degli errori, cosa succede in quelli in cui non lo sono?
2017/07/20 9:40. Dopo la pubblicazione iniziale di questo mio articolo, Repubblica ha rifatto il proprio articolo copiandolo pari pari da Wikipedia.
Alcuni commentatori hanno obiettato che questi errori sono nella versione online gratuita e non in quella cartacea. A parte il fatto che comunque la versione online porta il marchio della testata e quindi un errore nella versione online è una macchia sulla testata nel suo complesso, e che il messaggio “se non paghi ti rifilo m*rda” non mi sembra particolarmente costruttivo o rispettoso del lettore, @teleblin mi ha inviato la scansione della versione cartacea del Corriere della Sera. Non contiene la panzana di Roddenberry creatore di Spazio 1999, ma in compenso offre ai lettori paganti questa doppia perla: “dal 1974 al 1977... in anticipo sui tempi di Star Trek” (falso: Star Trek era già in televisione dal 1966) e “[ricevendo] pure la partner, Barbara Bain, in moglie” (falso: erano sposati dal 1957). Online o su carta cambia poco, insomma: proprio non ce la fanno.
Avete presente gli errori intenzionali inseriti nelle mappe per beccare chi copia, le trap street di cui scrivevo ad aprile scorso? La morte dell’attore Martin Landau ha messo in luce qualcosa di analogo nei giornali di lingua italiana: specificamente, nel Corriere della Sera, in Repubblica, ne L’Unione Sarda e nel Corriere del Ticino.
Tutti e quattro, infatti, nell’annunciare la scomparsa di Landau hanno pubblicato la stessa castroneria, dicendo che Spazio 1999, serie di fantascienza nella quale Landau interpretava il Comandante Koenig, era stata creata da Gene Roddenberry.
Ma come ben sa qualunque appassionato di fantascienza, Spazio 1999 era opera dei britannici Gerry e Sylvia Anderson, mentre lo statunitense Roddenberry era padre di tutt’altra serie: Star Trek. Confondere le due cose è come essere tifosi di calcio e confondere la Roma con la Lazio.
Questo è il Corriere della Sera, che scrive “L’attore Martin Landau, che tanti ricordano per l’interpretazione del comandante Koenig in Spazio 1999, serie fantascientifica cult creata da Gene Roddenberry, lo stesso produttore di Star Trek e Ufo”, raddoppiando la dose di panzane (anche UFO era di Gerry e Sylvia Anderson) e poi insiste scrivendo “Poi l’incontro con Gene Rodddenberry, «papà» di Star Trek, di Ufo e di altre fortunatissime serie tv, che lo recluta, ancora assieme alla moglie, per Spazio 1999”, aggiungendo un Roddenberry con 3 D (copia su Archive.is):
Muore Martin Landau e il @Corriere, a firma di "A. Full.", dimostra di non saper neanche copiare da Wikipedia. Se questo è giornalismo. pic.twitter.com/9rQzMCTI7J— Paolo Attivissimo (@disinformatico) 17 luglio 2017
Questa è L’Unione Sarda (grazie a Federico Pisanu), che scrive “Spazio 1999, serie fantascientifica cult creata da Gene Roddenberry, lo stesso produttore di Star Trek e Ufo”:
Questa è Repubblica, che nel tweet scrive “Roddenberr”, perdendo per strada la Y finale:
No ragazzi, sbagliate voi... lo dice anche @repubblica! pic.twitter.com/szCbQjNUTm— CattivoPensiero (@CattivoPensiero) 17 luglio 2017
Questo è il Corriere del Ticino, che scrive “'Spazio 1999', serie fantascientifica cult creata da Gene Roddenberr”. Anche qui la Y finale s’è persa nell’iperspazio (copia su Archive.is):
@disinformatico Anche il CdT non scherza.... pic.twitter.com/ysbRH5ryBm— Andrea Rezzonico (@AndyRezz) 17 luglio 2017
Certo, è un errore che non fa crollare il mondo, ma è un errore rivelatore. La sua ripetizione su quattro testate differenti indica che i giornali si copiano fra loro o copiano tutti dalla stessa fonte (presumibilmente un’agenzia). O meglio, indica che copiaincollano senza neanche pensare, e pure male (notate i vari “Roddenberr.”).
E naturalmente non c’è nessun controllo di qualità. Tant’è che al momento in cui scrivo queste righe (le 15:40 del 2017/07/17) nessuna delle testate ha corretto o pubblicato una rettifica, men che meno due righe di scuse.
Dopo la pubblicazione iniziale di questo mio articolo mi è arrivata la segnalazione dello stesso svarione sull’Huffington Post italiano: “Poi l'incontro con Gene Roddenberry, padre di Star Trek, che lo recluta, ancora assieme alla moglie, per Spazio 1999” (copia su Archive.is).
Stessa storia, mi segnala @teleblin, anche su TGCom24, che scrive: “Sempre con la moglie viene reclutato da Gene Rodddenberry regista, tra le tante serie tv di fantascienza, anche di "Star Trek" e di "Ufo", che gli chiede di lavorare in "Spazio 1999"” (copia su Archive.is). Anche qui, Rodddenberry scritto con 3 D e oltretutto promosso regista (in realtà era produttore e non ha mai diretto puntate di Star Trek o Spazio 1999 o UFO).
Per chi conosce la materia trattata da questi articoli, l’impressione amara che ne risulta è semplice: i giornali se ne strafregano della correttezza e della qualità, e quindi se ne strafregano del lettore, facendo finta di offrirgli notizie create da loro che invece provengono con il copiaincolla da qualche agenzia di improvvisati.
Se avessero almeno il pudore di scrivere che la fonte della notizia è un’agenzia che viene semplicemente ripubblicata in automatico, almeno sapremmo a chi dare la colpa. Cosa più importante, se le testate non segnalano che si tratta di copiaincolla da un’agenzia, il lettore pensa che la notizia sia confermata da quattro fonti indipendenti. È dura spiegargli che quattro giornali hanno torto e tu hai ragione.
E poi gli editori dei giornali dicono che il crollo delle vendite è colpa di Internet. Ditemi voi che motivo dovrei avere di pagare per leggere notizie sbagliate. Se questo è quello che succede nei campi in cui sono competente e mi accorgo degli errori, cosa succede in quelli in cui non lo sono?
2017/07/20 9:40. Dopo la pubblicazione iniziale di questo mio articolo, Repubblica ha rifatto il proprio articolo copiandolo pari pari da Wikipedia.
Adesso @repubblica copia direttamente parola per parola da Wikipedia, senza pudore. E senza citare la fonte. pic.twitter.com/8up5StDK4t— Paolo Attivissimo (@disinformatico) July 17, 2017
Alcuni commentatori hanno obiettato che questi errori sono nella versione online gratuita e non in quella cartacea. A parte il fatto che comunque la versione online porta il marchio della testata e quindi un errore nella versione online è una macchia sulla testata nel suo complesso, e che il messaggio “se non paghi ti rifilo m*rda” non mi sembra particolarmente costruttivo o rispettoso del lettore, @teleblin mi ha inviato la scansione della versione cartacea del Corriere della Sera. Non contiene la panzana di Roddenberry creatore di Spazio 1999, ma in compenso offre ai lettori paganti questa doppia perla: “dal 1974 al 1977... in anticipo sui tempi di Star Trek” (falso: Star Trek era già in televisione dal 1966) e “[ricevendo] pure la partner, Barbara Bain, in moglie” (falso: erano sposati dal 1957). Online o su carta cambia poco, insomma: proprio non ce la fanno.
2017/07/14
Podcast del Disinformatico del 2017/07/14
È disponibile per lo scaricamento il podcast della puntata di oggi del Disinformatico della Radiotelevisione Svizzera. Buon ascolto!
Aggiornamenti di rito (ma importanti) per Flash e Microsoft
È tempo di aggiornamenti: Adobe Flash Player ha una nuova collezione di vulnerabilità gravi che consentono a un aggressore di prendere il controllo del computer della vittima via Internet, per cui va aggiornato alla versione 26.0.0.137. La raccomandazione vale per Windows, Macintosh, Linux e Chrome OS; Google Chrome e Microsoft Edge si aggiornano automaticamente.
Microsoft, invece, ha rilasciato una serie di aggiornamenti che chiudono ben 19 vulnerabilità critiche in vari prodotti, compresi gli occhiali per realtà aumentata Hololens. Scaricateli e installateli, se non lo ha già fatto automaticamente Windows per voi.
Microsoft, invece, ha rilasciato una serie di aggiornamenti che chiudono ben 19 vulnerabilità critiche in vari prodotti, compresi gli occhiali per realtà aumentata Hololens. Scaricateli e installateli, se non lo ha già fatto automaticamente Windows per voi.
Dopo la fake news, la fake music? Gli inganni su Spotify
Spotify, il servizio di musica e video in streaming, ha oltre 140 milioni di utenti attivi e circa 50 milioni di abbonati paganti. Ma è anche un servizio che consente a molti truffatori o personaggi senza scrupoli di fare soldi alle spalle degl onesti.
Un recente articolo di Vulture.com ha fatto il punto di un giro di denaro basato sull’inganno citando per esempio il caso di Humble, la canzone di Kendrick Lamar che ha raggiunto il primo posto nella classifica di streaming di Billboard ed è stata ascoltata quasi 300 milioni di volte su Spotify. Accanto alla versione originale, però, su Spotify c’è anche Sit Down, Be Humble di un certo King Stitch, che si è aggiudicata oltre 300.000 visualizzazioni (con relativi incassi) solo per il fatto di imitare (anche nel titolo) l’originale di Lamar. Basta che un utente ascolti il brano per trenta secondi e Spotify paga.
Non è l’unico genere di trucco per fare soldi: su Spotify ci sono “artisti” come Happy Birthday Library, che offrono versioni personalizzate di Tanti auguri a te e così hanno incassato più di un milione di ascolti. C’è Chris Brown, che ha partorito un album, Heartbreak on Full Moon, che contiene ben quaranta canzoni. Non perché ha una vena musicale inesauribile, ma perché ha capito che più canzoni mette in un album più aumentano le possibilità che qualcuno le ascolti e quindi porti il suo album in cima alla classifica.
Prendete per esempio i Toilet Bowl Cleaners, la cui The Poop Song è stata ascoltata 400.000 volte. Dietro questa “band” c'è un uomo di nome Matt Farley, che ha al proprio attivo oltre 18.500 canzoni pubblicate su Spotify con questo e molti altri pseudonimi, come Guy Who Sings Songs About Cities and Towns, Wedding Proposal Music Song Band, Guy Who Sings Your Name Over and Over, Papa Razzi and the Photogs. È sempre lui, e tutte queste “band” cantano solo canzoni a tema: Papa Razzi, per esempio, canta solo di celebrità. Indovinate che cosa canta Guy Who Sings Your Name Over and Over. Diciottomilacinquecento canzoni non sono musica: sono spam.
E c’è di peggio: Sir Juan Mutant ha pubblicato 64 album, ciascuno con una cinquantina di brani. Ma molte canzoni sono ripetute usando però titoli differenti e sono poco più che strimpellamenti. Non mancano impostori come Bob Segar, che fa cover di Bob Seger e ha 1,2 milioni di ascolti di Turn the Page; come Brooks Stars Garth, che ha vari milioni di ascolti delle sue cover delle canzoni di Garth Brooks; come la band Imagine Demons, che ha 1,7 milioni di ascolti di Demons (come il brano degli Imagine Dragons).
L’articolo di Vulture.com porta molti altri esempi di come il sistema della musica a pagamento in streaming venga manipolato e fa un’osservazione deprimente: in tutto questo giro di soldi, alla fine, l’unico che ci perde è l’utente.
Addio, Windows Phone 8.1
Amici, utenti di smartphone, compatrioti, prestatemi orecchio; io vengo a seppellire Windows Phone, ma anche a lodarlo. Il male che gli smartphone fanno sopravvive loro; il bene è spesso sepolto con le loro SIM; e così sia di Windows Phone. Shakespeare 2.0.
Dall’11 luglio scorso Microsoft non offre più supporto per Windows Phone 8.1. Chi ha uno smartphone compatibile può aggiornarlo a Windows Phone 10, ma molti modelli (compreso il mio Nokia 1020 e la sua fotocamera Zeiss con sensore da 41 megapixel, nella foto qui sopra) sono stati esclusi dall’aggiornamento ufficiale pur essendo teoricamente compatibili. Se volete provare (a vostro rischio e pericolo) i metodi non ufficiali per passare a Windows Phone 10, date un’occhiata a Windowsblogitalia o a IBTimes.
Mi capita spesso di vedere che gli utenti Windows Phone vengono presi in giro dagli altri. Colpa, in parte, della quota di mercato minuscola (circa lo 0,3% di tutte le vendite di smartphone a fine 2016 contro l’81,7% di Android e il 17,9% di iPhone, secondo Gartner), che spinge molti creatori di app a non fornire una versione dei loro prodotti per Windows Phone. Ma chi tratta male Windows Phone non considera che dal punto di vista della sicurezza è considerato uno dei più robusti fra i sistemi operativi per smartphone.
Certo, questa reputazione è merito appunto anche della sua quota di mercato: visto che sono pochissimi a usarlo, ai creatori di malware conviene creare trappole per i sistemi più diffusi (e infatti Android è quello più preso di mira). Ma considerate queste testimonianze, raccolte da Naked Security: “Windows Phone sembra il più difficile da scardinare... se ho accesso fisico al dispositivo, di solito Android è il bersaglio più facile, poi c’è l’iPhone e poi ci sono le vecchie versioni di BlackBerry...se devi tenerti uno smartphone non recente, usa un Blackberry basato su BB10 o un Windows Phone che usa Windows Phone 8 o successivo” (Steve Lord di Mandalorian Security Services).
O questa: “La storia dimostra che i Windows Phone erano dispositivi a basso rischio... nella foga di passare a una piattaforma alternativa (iPhone o Android) gli utenti dovranno valutare l’impatto di migrare da una piattaforma che i criminali informatici hanno per lo più ignorato a una sulla quale questi criminali si concentrano.” (Simon Reed di Sophos).
Insomma, se avete un Windows Phone vecchiotto, non buttatelo via. Trattatelo con rispetto e siate fieri di essere differenti dalla massa.
Dall’11 luglio scorso Microsoft non offre più supporto per Windows Phone 8.1. Chi ha uno smartphone compatibile può aggiornarlo a Windows Phone 10, ma molti modelli (compreso il mio Nokia 1020 e la sua fotocamera Zeiss con sensore da 41 megapixel, nella foto qui sopra) sono stati esclusi dall’aggiornamento ufficiale pur essendo teoricamente compatibili. Se volete provare (a vostro rischio e pericolo) i metodi non ufficiali per passare a Windows Phone 10, date un’occhiata a Windowsblogitalia o a IBTimes.
Mi capita spesso di vedere che gli utenti Windows Phone vengono presi in giro dagli altri. Colpa, in parte, della quota di mercato minuscola (circa lo 0,3% di tutte le vendite di smartphone a fine 2016 contro l’81,7% di Android e il 17,9% di iPhone, secondo Gartner), che spinge molti creatori di app a non fornire una versione dei loro prodotti per Windows Phone. Ma chi tratta male Windows Phone non considera che dal punto di vista della sicurezza è considerato uno dei più robusti fra i sistemi operativi per smartphone.
Certo, questa reputazione è merito appunto anche della sua quota di mercato: visto che sono pochissimi a usarlo, ai creatori di malware conviene creare trappole per i sistemi più diffusi (e infatti Android è quello più preso di mira). Ma considerate queste testimonianze, raccolte da Naked Security: “Windows Phone sembra il più difficile da scardinare... se ho accesso fisico al dispositivo, di solito Android è il bersaglio più facile, poi c’è l’iPhone e poi ci sono le vecchie versioni di BlackBerry...se devi tenerti uno smartphone non recente, usa un Blackberry basato su BB10 o un Windows Phone che usa Windows Phone 8 o successivo” (Steve Lord di Mandalorian Security Services).
O questa: “La storia dimostra che i Windows Phone erano dispositivi a basso rischio... nella foga di passare a una piattaforma alternativa (iPhone o Android) gli utenti dovranno valutare l’impatto di migrare da una piattaforma che i criminali informatici hanno per lo più ignorato a una sulla quale questi criminali si concentrano.” (Simon Reed di Sophos).
Insomma, se avete un Windows Phone vecchiotto, non buttatelo via. Trattatelo con rispetto e siate fieri di essere differenti dalla massa.
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