Tecnologia estrema
Il progetto Shuttle, nato negli anni Settanta, fu una sfida tecnologica straordinaria e spesso sottovalutata. Costruire e far volare un veicolo che decolla come un missile, va nello spazio come un’astronave e torna a terra planando come un aliante a 25 volte la velocità del suono, e lo fa ripetutamente portando sette astronauti e oltre venti tonnellate di carico, significò portare al limite la tecnologia aerospaziale dell’epoca.
Quel limite comportò compromessi e rinunce. Il veicolo spaziale non aveva una all-envelope escape capability, ossia la capacità di mettere in salvo gli astronauti in qualunque momento del volo. I vettori Mercury, Apollo, Voskhod e Soyuz ospitavano gli equipaggi dentro una capsula che poteva essere espulsa da un apposito motore a razzo mentre il vettore era sulla rampa o durante l’arrampicata verso lo spazio; lo Shuttle no. In caso di anomalia sulla rampa o durante i primi due minuti del volo, non c’era sostanzialmente nulla da fare; dopo, eventualmente, si poteva tentare una rischiosissima virata per rientrare planando. Gli astronauti lo sapevano e accettavano il rischio.
Durante i primi voli, lo Shuttle Columbia fu dotato di seggiolini eiettabili, che però erano inutili fino allo sgancio dei due booster a propellente solido ed erano usabili solo a velocità inferiori a 5.500 km/h e a quote minori di 39 km.
Quando un giornalista chiese a John Young, comandante della missione inaugurale del programma Shuttle nel 1981, se era possibile eiettarsi mentre i due booster erano accesi, l’astronauta rispose con il suo tipico umorismo laconico: “Basta che tiri la maniglietta”. In altre parole, ci si poteva sì eiettare, ma si finiva nel getto dei motori.
Scudo fragile
Gli Shuttle erano dotati di un’innovazione particolare: uno scudo termico riutilizzabile, a differenza di quelli ablativi dei veicoli precedenti. Era composto da migliaia di pannelli conformati per adattarsi alla fusoliera e alle ali. Questi pannelli avevano una capacità di protezione termica straordinaria, ma erano meccanicamente fragili: si sbriciolavano al minimo impatto.
Durante la missione militare STS-27, nel 1988, se ne danneggiarono al decollo oltre settecento sull’ala destra e una si staccò completamente, esponendo al calore del rientro l’acciaio e l’alluminio della struttura sottostante. Gli astronauti si resero conto della drammaticità della propria situazione mentre erano in orbita, ispezionando l’esterno con una telecamera montata sul braccio robotico dello Shuttle Atlantis. Il comandante, Robert Gibson, guardando i danni all’ala destra, ammise in seguito di aver pensato che sarebbero morti tutti al rientro.
Essendo una missione militare top secret, le immagini della telecamera furono inviate a terra in forma criptata. Questo ne peggiorò enormemente la qualità e spinse i tecnici a terra a sottovalutare i danni e a dare il via libera per un rientro normale. Gibson era incredulo, ma ubbidì.
Missione STS-27: i danni alla fiancata destra dello Shuttle Atlantis, fotografati durante l’atterraggio. |
Dettaglio della foto precedente, che evidenzia le numerosissime scheggiature bianche dello scudo termico. |
Missione STS-27: tracce di metallo fuso dove manca un pannello dello scudo termico; scheggiatura dei pannelli adiacenti. |
Un’altra inquadratura del danno dello scudo di STS-27 mostrato nella foto precedente. |
Missione STS-27: l’ispezione post-volo rivela l’entità dei danni. |
Il ritorno sulla Terra andò bene, ma gli astronauti e i tecnici rimasero ammutoliti quando videro i danni che Atlantis aveva subìto. Il fatto che questo Shuttle rientrò nonostante le lesioni estese allo scudo termico e il clima di segretezza che circondò la missione contribuirono all’idea che questo genere di danni fosse normale e non preoccupante.
Quindici anni più tardi, questa stessa fragilità fu la causa del disastro del Columbia, anch’esso lesionato nello scudo termico durante il decollo.
Motori d’oro
Nel 1999, la missione STS-93 sopravvisse a una grave avaria a uno dei tre motori RS-25 dello Shuttle Columbia. Doveva portare in orbita uno dei carichi più pesanti dell’intera storia dei voli Shuttle: le venti tonnellate del telescopio spaziale Chandra, dedicato all’osservazione dell’universo nella gamma di frequenze dei raggi X.
L’ossigeno liquido che, insieme all’idrogeno liquido, alimentava i motori dello Shuttle passava attraverso una rosa di circa seicento iniettori. Questi iniettori venivano ispezionati dopo ogni volo; se qualcuno risultava danneggiato, veniva tappato con un pernetto placcato d’oro. I motori potevano funzionare senza problemi anche se c’erano vari iniettori tappati in questo modo.
All’accensione dei motori del Columbia, uno di questi pernetti fu letteralmente sparato fuori dalla propria sede a causa della pressione dei gas e colpì la parete interna dell’ugello del motore destro, lesionandola. Questa parete era composta da circa un migliaio di tubicini nei quali fluiva idrogeno liquido per raffreddarla, altrimenti si sarebbe fusa per via del calore della combustione all’interno dell’ugello.
Le lesioni interruppero parzialmente questo flusso. Cinque interruzioni avrebbero comportato il surriscaldamento dell’ugello, l’esplosione del motore e la perdita dello Shuttle e del suo equipaggio. Qui ce ne furono tre.
Missione STS-93: il motore di destra ha una fiammata anomala all’interno dell’ugello. Sta perdendo idrogeno liquido. |
Missione STS-93: al centro, il danno all’interno di un ugello dello Shuttle Columbia. |
Missione STS-93: dettaglio del danno all’ugello del Columbia. |
Il Columbia decollò regolarmente lo stesso, grazie all’intervento compensativo dei computer di bordo che avevano rilevato il problema, ma il motore lesionato arrivò pericolosamente vicino al limite di surriscaldamento.
Come se non bastasse, la comandante, Eileen Collins, riferì un problema a una cella a combustibile che poteva portare alla sua esplosione, e al Controllo Missione i sensori indicavano che uno dei booster a propellente solido non aveva fluido idraulico per orientare il proprio ugello: un altro problema potenzialmente disastroso. Ma i tecnici a terra, durante i secondi concitati dell’arrampicata verso lo spazio, capirono che si trattava rispettivamente di un sensore difettoso e di un corto circuito a un cavo di controllo del motore centrale. La guaina isolante del cavo era stata progressivamente asportata, un volo dopo l’altro, dallo sfregamento contro la testa di una singola vite, deformata e resa tagliente dalla forza eccessiva usata per stringerla. Questo portò alla disattivazione di uno dei due computer ridondanti installati sul motore, riducendo ulteriormente i margini di sicurezza.
Il Controllo Missione, insomma, si trovava con uno Shuttle in corsa verso lo spazio che aveva un motore surriscaldato e un altro che dava problemi di telemetria e in più aveva un computer in avaria che lo faceva lavorare a potenza ridotta. Il Columbia riuscì a malapena a entrare in orbita alla quota pianificata e il resto della missione andò bene, mettendo correttamente in orbita il telescopio Chandra, ma il rischio di perdere uno Shuttle e il suo equipaggio fu di nuovo grande.
A lancio concluso, il direttore di volo, John Shannon, si lasciò scappare un raro commento pubblico sul canale di comunicazione con i controllori: “Altri [lanci] così non ne vogliamo”.
All’ultimo secondo
La partenza di uno Shuttle era una coreografia estremamente complessa. In sintesi, prima di tutto venivano accesi i tre motori principali a propellente liquido dello Shuttle, sei secondi prima del lancio, scaglionandoli leggermente per portarli a piena potenza in modo graduale ed evitare sollecitazioni eccessive.
Se questi motori risultavano funzionare correttamente, allora venivano accesi anche i booster laterali a propellente solido. Questi booster, a differenza dei motori dello Shuttle, non potevano essere spenti una volta accesi, e quindi era importante essere sicuri di poter lanciare. Anche perché in cima a quei motori c’erano degli astronauti.
Normalmente, quando quegli astronauti sentivano oscillare lo Shuttle sotto la spinta dei suoi tre motori, capivano che stavano per partire per lo spazio. Ma a giugno del 1984 la missione STS-41D fu interrotta quattro secondi prima del lancio; le missioni STS-51F (luglio 1985), STS-55 (marzo 1993) e STS-51 (agosto 1993) furono fermate tre secondi prima; e la STS-68 (1994) fu interrotta 1,9 secondi prima del lancio a causa di un valore eccessivo di temperatura rilevato da un sensore di uno dei motori.
#OTD in 1994, STS-68 (Endeavour) safely aborted at T minus 1 second. Shuttle automatic safety systems at work. pic.twitter.com/90kNbZO1ko— NASA History Office (@NASAhistory) August 18, 2016
Quando succedeva un abort di questo genere, gli astronauti si trovavano legati dalle cinture dentro un enorme razzo pieno di propellente che chiaramente non stava funzionando come avrebbe dovuto. Intervenivano potenti getti d’acqua per raffreddare i motori, la passerella di ingresso degli astronauti veniva riavvicinata allo Shuttle e i tecnici del Controllo Missione correvano per mettere in sicurezza il veicolo.
A questo punto gli astronauti dipendevano dai tecnici per sapere se evacuare in fretta lo Shuttle o attendere il ritorno degli addetti alla rampa di lancio. In caso di evacuazione, dovevano uscire dal portello dello Shuttle mentre indossavano circa 40 chilogrammi di tuta e bombole di sopravvivenza, tenendo presente che la cabina del veicolo era puntata verso l’alto e quindi il pavimento era una parete verticale, correre lungo la passerella e infilarsi in una cesta appesa a un cavo che li avrebbe portati verso un bunker ad alcune centinaia di metri di distanza. Sempre che, s’intende, lo Shuttle non fosse esploso nel frattempo.
Il sistema di fuga d’emergenza della rampa 39A nel 2012. |
1981: Bob Crippen (a sinistra) e John Young (a destra) si addestrano con il sistema di fuga prima del volo inaugurale dello Shuttle. |
Facilità ingannevole
Le agenzie spaziali sono talmente ben addestrate, competenti e professionali che fanno sembrare facili i lanci di questi grandi vettori, ma se si guarda dietro le quinte si apprezza quanto sia in realtà delicato e complesso il lavoro necessario per mettere delle persone dentro una cabina alleggerita al massimo, legata a qualche centinaio di tonnellate di sostanze altamente esplosive, e accelerare quelle persone verso il vuoto inospitale dello spazio in maniera controllata.
Le lezioni dei disastri passati servono come sprone per lavorare con diligenza e passione per evitare che si ripetano, perché in ogni lancio vale sempre una regola: affinché vada bene, migliaia di componenti devono funzionare tutti correttamente. Ma per farlo andar male basta che non ne funzioni uno.
Fonti: SpaceflightNow, AmericaSpace, Universe Today, American Digest.
Questo mio articolo è stato pubblicato per la prima volta su carta sulla rivista Spazio Magazine dell'Associazione ADAA, è stato aggiornato rispetto alla versione iniziale e vi arriva gratuitamente e senza pubblicità grazie alle donazioni dei lettori di questo blog. Se vi è piaciuto, potete incoraggiarmi a scrivere ancora facendo una donazione anche voi, tramite Paypal (paypal.me/disinformatico), Bitcoin (3AN7DscEZN1x6CLR57e1fSA1LC3yQ387Pv) o altri metodi.
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