È disponibile subito il podcast di oggi de Il Disinformatico della Radiotelevisione Svizzera, scritto, montato e condotto dal sottoscritto: lo trovate presso www.rsi.ch/ildisinformatico (link diretto) e qui sotto.
Le puntate del Disinformatico sono ascoltabili anche tramite feed RSS, iTunes, Google Podcasts e Spotify.
Buon ascolto, e se vi interessano il testo integrale e i link alle fonti di questa puntata, sono qui sotto.
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[CLIP: spezzone dal trailer di “The Social Network” e musica di sottofondo “Power” di Kanye West]
Quest’anno Mark Zuckerberg ha perso 71 miliardi di dollari. Non vi preoccupate, gliene restano altri 56, per cui dovrebbe avere comunque di che sfamarsi, ma quello che conta è che il crollo del suo patrimonio personale è legato a doppio filo a quello delle azioni di Meta, la società che controlla Facebook, Instagram e WhatsApp e di cui Zuckerberg è grande azionista oltre che CEO. E oggi quelle azioni valgono meno della metà di quello che valevano un anno fa.
L’intero settore delle tecnologie informatiche è al ribasso, ma Meta è stata colpita molto più duramente della media. Una delle ragioni, secondo gli esperti, è la decisione di Zuckerberg di incentrare tutto il futuro dell’azienda sulla realtà virtuale e il metaverso, cosa che richiede grandi investimenti e tempi lunghi che non piacciono agli investitori. Un’altra ragione è Apple, i cui smartphone dall’anno scorso, con iOS 14, rendono molto più difficile la profilazione commerciale dettagliata degli utenti dalla quale Facebook dipende in modo particolare. E poi c’è TikTok, che sta togliendo orde di utenti a Instagram.
Però i ricavi di Meta vanno bene: nel 2021 sono schizzati a oltre 117 miliardi di dollari, rispetto agli 86 del 2020. E soprattutto Meta vanta oltre tre miliardi e mezzo di utenti attivi. Tanti di quegli utenti si lamentano, in particolare di Facebook, ma vi restano fedeli, nonostante i ripetuti scandali legati alla privacy, alla diffusione e amplificazione dei contenuti di odio, alla manipolazione delle opinioni e alle censure arbitrarie.
Perché tanta gente dice di detestare Facebook e i social network in generale ma continua a usarli? Spiegarlo non è facile, ma c’è chi lo sa fare molto bene: la Electronic Frontier Foundation, una nota associazione per la difesa dei diritti digitali degli utenti, che ha pubblicato di recente un’analisi dettagliata del problema [PDF], firmata da Cory Doctorow.
Questa è la storia dei meccanismi poco conosciuti che ci tengono legati a servizi come Facebook, dei miti propagandati dalle aziende che li gestiscono, e delle leggi e delle tecnologie che offrono una soluzione molto elegante e intrigante a questo problema.
Benvenuti a questa puntata del Disinformatico, il podcast della Radiotelevisione Svizzera dedicato alle notizie e alle storie strane dell’informatica. Io sono Paolo Attivissimo.
[SIGLA di apertura]
Cory Doctorow e la Electronic Frontier Foundation partono da una premessa che è facile da condividere. Espongono il problema riferendosi specificamente a Facebook, ma le loro argomentazioni si applicano a qualunque altro servizio digitale analogo.
[CLIP: People don’t like Facebook but they use it anyway…]
Alla gente Facebook non piace, ma lo usa lo stesso. Gli utenti di Facebook si arrabbiano perché i contenuti che detestano rimangono online e vengono sbattuti loro in faccia ogni volta che si collegano al social network, perché i contenuti che a loro piacciono vengono bloccati o declassati (o downranked) dall’algoritmo di Facebook, e perché le procedure di appello contro le decisioni di Facebook sono distanti, prepotenti, arbitrarie e troppo sommarie oppure troppo lente ed esitanti.
Se il sistema non ti piace, non lo puoi cambiare. O lo accetti, o te ne vai. Ma gli utenti, nonostante tutto, non se ne vanno. C’è chi considera questo comportamento una sorta di dipendenza, ma secondo la EFF non è così: gli utenti non sono in crisi da dipendenza. Sono intrappolati.
[CLIP: People aren’t addicted to Facebook; they’re trapped by it]
Facebook ci tiene molto a promuovere l’idea della dipendenza, spiega Cory Doctorow. Facebook vende pubblicità, e ne ricava tanto denaro: oltre 117 miliardi di dollari nel 2021. E non è solo questione di volumi pubblicitari: Facebook è anche un posto molto costoso nel quale fare pubblicità. Gli inserzionisti sono disposti a pagare di più per gli spot su Facebook che altrove perché sono convinti che quegli spot funzionino meglio, grazie alla capacità di mostrare la pubblicità perfetta al destinatario perfetto e indurre l’utente a comprare, manipolando la sua volontà. Ma ne sono convinti semplicemente perché gliel’ha detto Facebook.
[CLIP: Why do they believe this? Because Facebook tells them so]
Di prove concrete e robuste che sia davvero così non ce ne sono.
Non si tratta di dipendenza, secondo la EFF, ma del cosiddetto “effetto rete” o “network effect”: il primo termine tecnico chiave di questa storia. Il network effect è l’aumento di valore che hanno certi prodotti o servizi man mano che aumenta il numero dei loro utenti. Facebook è indubbiamente uno di questi servizi: praticamente tutti coloro che usano Facebook oggi si sono iscritti perché volevano socializzare con le persone che già usavano Facebook. Quelle persone hanno fatto aumentare il valore del social network.
L’effetto rete è ben documentato e spiega come Facebook sia cresciuto così tanto, ma non spiega come faccia a restare così grande. Per capirlo serve un altro termine tecnico: costo di trasferimento o switching cost.
[CLIP: It means everything you have to give up when you stop using a product or a service…]
Il costo di trasferimento è costituito da tutto quello a cui dobbiamo rinunciare se smettiamo di usare un prodotto o un servizio per passare a un altro. Se usciamo da Facebook, non possiamo più restare in contatto agevolmente con le persone per le quali ci eravamo appunto iscritti a questo social network: la famiglia, le comunità, i clienti. Un costo che per molti è insostenibile.
Questo alto costo di trasferimento sembra inevitabile, ma è un mito molto diffuso. Dal punto di vista tecnico è perfettamente possibile creare uno strumento software che ci consenta di vedere i post pubblicati dagli utenti di Facebook e mandare a loro dei messaggi o commenti anche se non siamo più su Facebook ma su un altro servizio analogo, nello stesso modo in cui possiamo scambiare mail con chiunque anche se non usiamo il suo stesso fornitore di caselle di mail o se cambiamo il nostro, e nello stesso modo in cui possiamo cambiare operatore telefonico e continuare a telefonare esattamente come prima, magari mantenendo anche lo stesso numero. Questa possibilità si chiama interoperabilità, e di solito riduce moltissimo i costi di trasferimento.
Meta potrebbe abbattere questi costi di trasferimento offrendo questa interoperabilità. Potrebbe offrire quella che in gergo si chiama API o application programming interface, ossia una sorta di interfaccia standard fra programmi, e così qualunque altro servizio potrebbe agganciarsi a questa interfaccia e scambiare dati con Facebook e con i suoi utenti. Ma Meta non lo fa, e ricorre anzi agli avvocati per ostacolare chiunque ci provi. In altre parole, per dirla con Cory Doctorow, serve un modo per obbligare Meta a fornire l’interoperabilità e a garantire che Facebook abbia utenti anziché ostaggi.
[CLIP: If only there was a way to make sure that Facebook had users - not hostages]
La buona notizia è che questo modo esiste. Sia negli Stati Uniti sia in Europa, sono in via di realizzazione delle leggi che obbligherebbero tutte le grandi aziende digitali a essere interoperabili, fornendo appunto pubblicamente una API usabile da chiunque per creare un servizio compatibile. Negli Stati Uniti c’è la proposta denominata ACCESS Act; nell’Unione Europea c’è il Digital Markets Act.
Siamo talmente abituati a pensare ai vari social network come giardini cintati esclusivi che può essere difficile immaginare come sarebbe per esempio un Facebook interoperabile. Potreste uscire da Facebook e iscrivervi a un social network alternativo, gestito dalla parrocchia, dal vostro club o da una startup locale, ma continuare a ricevere lì i post e i commenti postati su Facebook da chi volete seguire, insieme a quelli degli altri utenti del social network alternativo.
Questi post vi verrebbero presentati, filtrati e moderati secondo le regole del social network alternativo, non quelle di Facebook. Gli argomenti e comportamenti vietati su Facebook sarebbero ammessi; quelli invece fin troppo tollerati da Facebook verrebbero filtrati e bloccati. Tutto secondo regole che avete selezionato voi quando avete scelto quel social network. Se cambiate idea, o se cambiano le regole, potete trasferirvi a qualunque altro social network interoperabile o federato senza perdere nulla. Potreste inoltre rispondere ai post degli utenti di Facebook stando nel vostro social network. Naturalmente le vostre risposte verrebbero viste dagli utenti di Facebook solo se conformi alle regole di Facebook.
Più in generale, potreste per esempio essere su Twitter e rispondere da lì a un post di Instagram o a un messaggio di WhatsApp o Telegram, e viceversa. Tutti potrebbero parlare con tutti senza essere vincolati a una singola piattaforma.
Questa indipendenza da un unico fornitore potrebbe risultare strana per molti utenti che non l’hanno mai vista perché sono letteralmente cresciuti per quasi due decenni con il modello esclusivo di Facebook, ma non va dimenticato che Internet è stata concepita, e si basa tuttora, sull’interoperabilità e sugli standard aperti e indipendenti.
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Fra l’altro, queste leggi e questa possibilità di comunicare con gli utenti di un social network senza farne parte offrono anche un altro grande vantaggio: eliminano la schedatura e la profilazione commerciale degli utenti.
[CLIP: Shadowy ad-brokers follow you around the web...]
Nel sistema attuale, basato sulla cosiddetta pubblicità “comportamentale” o “behavioral ad”, ogni utente viene sorvegliato invisibilmente dai broker pubblicitari, che guardano quali siti visita, comprano informazioni di geolocalizzazione e usano questi e altri dati per creare un dossier di gusti, orientamenti e preferenze che viene poi usato per decidere quali pubblicità mostrargli. Questo tipo di profilazione sarà sostanzialmente vietato da queste leggi statunitensi ed europee.
Questo non significa che i social network non potranno mantenersi con la pubblicità: potranno usare comunque la pubblicità contestuale, ossia quella basata su ciò che si legge e non su ciò che si è. Secondo la EFF, questa forma di spot è leggermente meno redditizia di quella comportamentale “solo perché l’industria della sorveglianza commerciale”, dice, “riesce a far pagare alla società i propri costi, cioè i furti di identità, l’inquietudine di essere spiati continuamente e la discriminazione basata sulla sorveglianza, e si intasca tutti i guadagni.”
[CLIP: ...while pocketing all the profits]
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L’analisi della Electronic Frontier Foundation, che qui ho riassunto e che raccomando di leggere nella sua versione integrale presso www.eff.org/interoperablefacebook, si conclude con una riflessione:
[CLIP: Facebook is in a mess of its own making…]
“Facebook si trova in un guaio che si è creato da sola. È stata sua l’idea di cercare di moderare conversazioni in oltre mille lingue e in oltre cento paesi. Il suo grandioso esperimento di moderazione su vasta scala ha fatto stare male tante persone, ma la sua capacità legale di infliggere costi di trasferimento elevati ha tenuto molti di quegli utenti infelici in trappola dentro il suo giardino cintato.
L’interoperabilità rimette le decisioni sugli standard della comunità nel posto dove è giusto che stiano: presso le comunità stesse. Permette che siano gli utenti, non i dirigenti d’azienda, a decidere chi appartiene ai loro gruppi e quali comportamenti siano accettabili e quali no. […] questa è una concezione veramente sociale di un social: una concezione basata sulle vite sociali delle persone reali, non sulla sorveglianza commerciale o sulle consuetudini sociali di un piccolo gruppo di manager in una sala riunioni della Silicon Valley.”
[... the social norms of a small group of executives in a Silicon Valley board-room]
O, aggiungo io, sulle consuetudini sociali inevitabilmente sganciate dalla realtà di una persona che può perdere otto milioni di dollari l’ora per un anno di fila e restare comunque fra le venti persone più ricche del pianeta.
Fonti aggiuntive: CBS News, Futurism.com, Bloomberg, Variety.
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