Sentenza shock antipirateria: meritata, ma rischia di essere un boomerang inutile
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Il 4 ottobre scorso una trentenne del Minnesota, Jammie Thomas (nella foto, tratta da News.com), madre single di due figli, è stata dichiarata colpevole di violazione del diritto d'autore da un tribunale del suo stato: per aver offerto in condivisione su Kazaa ventiquattro canzoni senza il permesso dei titolari, dovrà pagare una multa di 222.000 dollari (155.000 euro, 260.000 franchi svizzeri), più 60.000 dollari di spese legali. La Thomas ha già deciso di appellare la sentenza.
E' il primo caso riguardante il file sharing che finisce davanti a una giuria negli Stati Uniti. La RIAA, l'associazione dei discografici statunitensi che ha promosso la causa, esulta. Per una trentenne che guadagna 36.000 dollari l'anno, la multa è una mazzata micidiale. Però, a costo di andare controcorrente e di attirarmi gli strali di una buona fetta della comunità di Internet, devo dire una cosa: Jammie Thomas se l'è cercata e la RIAA ha ragione.
La posizione della Thomas è infatti indifendibile, se non legalmente (ci sono dei possibili cavilli) perlomeno moralmente. Non ha scambiato canzoni altrimenti irreperibili, per cui non ha la scusante di dire che non aveva altro modo di arricchirsi culturalmente o tutelare una parte di cultura che rischiava il dimenticatoio: è andata su Kazaa a scambiare Aerosmith, Green Day, e Guns N' Roses (*). Tutta musica che poteva andare a comperare in negozio o su Internet o scaricare dai siti legali. Il principio che ho spesso invocato anch'io, quello della pirateria a scopo di difesa della cultura dalle manipolazioni dei discocinematografici, qui non si applica.
(*) questa è la grafia corretta ufficiale del nome della band, in contrasto con le regole dello spelling inglese che vorrebbero la doppia elisione (da and a 'n'). Grazie ad Alessandro per la segnalazione.
Non può neanche dire che voleva avere una versione priva di lucchetti DRM di queste canzoni, perché i CD che le contengono sono senza DRM (o se l'hanno, è un DRM facilmente eludibile) e i siti legali le offrono anche in versione MP3 pulita, senza lucchetti.
Ma la faccenda non è così semplice. Come nota giustamente The Register, molta gente va su Internet, ed è disposta a pagare un abbonamento al proprio provider, proprio perché allettata dall'idea di scaricare film e musica a scrocco. Le pubblicità dei provider giocano spesso ambiguamente sull'attrattiva del file sharing indiscriminato: avete mai visto una réclame che dica "potrete scaricare musica e film" specificando "dai siti legalmente autorizzati"?
Anzi, si potrebbe dire che i maggiori profittatori della pirateria non sono gli utenti, ma i provider, che grazie all'attrattiva dello scaricamento a scrocco vendono più abbonamenti e intascano sempre, anche quando l'utente passa ore su eMule e alla fine si trova bloccato in coda senza riuscire a scaricare nulla (o scarica e alla fine si trova con una patacca). E i provider sanno benissimo a cosa servono i loro abbonamenti e allestiscono campagne di marketing di conseguenza. Suvvia, non ditemi che le offerte di ADSL da 20 megabit in download servono per sfogliare meglio la Wikipedia.
Ma i provider non sono stati toccati dal clamore e dall'indignazione che hanno accompagnato questa sentenza statunitense. Chiediamoci perché. Nel frattempo, ci sono alcune considerazioni tecniche sul caso Thomas che vale la pena di conoscere per sapere come regolarsi personalmente e che sono segnalate da Declan McCulloch di News.com.
La Thomas si è inoltre incastrata da sola usando lo stesso nick "tereastarr" sia su Kazaa, sia nel proprio indirizzo di e-mail su Hotmail. Questo ha reso insostenibile, agli occhi della giuria popolare, la difesa della Thomas, che sosteneva di poter essere stata vittima di uno spoofing dell'indirizzo IP (qualcuno avrebbe fatto finta di essere lei su Internet simulando di avere il suo stesso indirizzo IP).
Inoltre la Thomas è stata colta a mentire sulla data in cui ha cambiato il proprio disco rigido: lei diceva di averlo fatto nel 2004, ma in realtà l'ha fatto nel 2005, guarda caso un mese dopo aver ricevuto dalla RIAA un SMS di avviso. E' probabile che la giuria abbia interpretato questa falsa testimonianza e questa sostituzione come un tentativo della Thomas di coprire le proprie tracce.
C'è poi una parte giuridica importante: il giudice ha chiarito alla giuria che lo scaricamento non autorizzato di brani musicali è una violazione del diritto esclusivo di riproduzione e che mettere a disposizione di chiunque questi brani (in questo caso tramite un circuito P2P) è una violazione di un altro diritto esclusivo, quello di distribuzione, e costituisce violazione anche se non è stata dimostrata l'effettiva distribuzione.
Quest'ultima è la novità importante, che perlomeno nel sistema giuridico statunitense costituisce un precedente molto forte. Il solo fatto di mettere a disposizione è già una violazione: non occorre che qualcuno scarichi dal computer dell'accusato. E come nota McCullogh, non è il primo precedente in merito.
Ma nonostante tutto, questa sentenza rischia di essere un autogol per i discografici. Innanzi tutto ci sono i costi: difficilmente la Thomas riuscirà a pagare la multa, e le spese legali della RIAA per questa causa e le decine di migliaia di altre patteggiate, fallite o in corso, sono elevatissime. Secondo l'IFPI (International Federation of the Phonographic Industry), sono state intraprese 50.000 azioni legali in 18 paesi, con sanzioni medie di circa 2000 euro. E intanto negli USA l'industria del disco (intesa come disco fisico, non come download legale) è crollata da 15,3 miliardi di euro nel 2001 a 4,1 nel 2006.
E poi c'è l'entità delle sanzioni, che farà indignare anche molte persone che in linea di principio sono d'accordo sull'illegalità della pirateria. E' giusto che ci si possa trovare con la vita rovinata economicamente soltanto per aver scambiato sul P2P ventiquattro canzoni?
Non solo: poteva andare molto peggio. Secondo il Copyright Act statunitense, la giuria avrebbe potuto infliggere una sanzione variabile da un minimo di 750 dollari a più di 30.000 per ogni violazione (ossia per ogni canzone piratata), che possono salire a 150.000 dollari se si dimostra l'intenzionalità della violazione. In questo caso, la giuria ha scelto un importo di 9250 dollari a canzone, ma poteva arrivare a 3,6 milioni di dollari. Sempre per 24 canzoni, l'equivalente di due album.
Sarà un autogol per i discografici non solo perché si potrà giocare sentimentalmente sul cliché della giovane madre single spennata dagli avvoltoi del disco mentre Elton John o Robbie Williams incassano cifre da nababbi, ma anche perché c'è un fatto molto semplice che la RIAA involontariamente sottolinea.
Questo è il primissimo caso di sentenza inflitta da una giuria, e il numero di azioni legali conclusesi con ammende o risarcimenti è bassissimo. Il che significa che in quasi dieci anni di musica scambiata online (Napster è del 1999), miliardi di atti di pirateria sono rimasti impuniti. Tuttora, le probabilità di finire nelle maglie della giustizia del copyright sono minori di quelle di essere colpiti da un fulmine. Specialmente se si prendono delle precauzioni decenti e non si è sfrontati come lo è stata la Thomas (diamine, se proprio voleva scroccare i Green Day, poteva farsi prestare un CD da un amico o registrarli dalla radio o dalla TV: sarebbe stata imprendibile).
E per questo, nonostante lo spauracchio di multe salatissime, gli utenti se ne fregano di sentenze come queste, perché pensano (e non a torto) che tanto a loro non succederà. Secondo i dati del servizio di statistica BigChampagne, il numero di utenti P2P che scambiano materiale non liberamente distribuibile si è quasi triplicato dal 2003, quando la RIAA ha iniziato a prendere di mira i singoli utenti.
Nel frattempo, è già nata una colletta per Jammie, con tanto di sito e video Youtube, per finanziare quela che viene presentata come una lotta contro "le grandi case discografiche" che fanno "bullismo e intimidazione".
Fonti: The Register, News.com, News.com, Minnesota Public Radio, Yahoo.
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