* “The prospect for modern music is a little more favourable; now that electronic computers have been taught to compose it, we may confidently expect that before long some of them will learn to enjoy it, thus saving us the trouble”.
[CLIP: HAL si offre di cantare una filastrocca in 2001 Odissea nello spazio]
Sembra che Clarke ci abbia azzeccato ancora una volta: dopo la musica sintetica generata dall’intelligenza artificiale, è ora il turno degli ascoltatori sintetici.
Pochi giorni fa è emersa la notizia che la piattaforma di streaming audio Spotify ha rimosso dal proprio catalogo decine di migliaia di brani musicali che erano stati generati usando Boomy, un servizio di generazione di musica basato sull’intelligenza artificiale. Spotify ha inoltre bloccato temporaneamente la pubblicazione di nuovi brani provenienti da Boomy.
Questi brani sono stati rimossi perché sospettati di essere ingredienti di una frode di “streaming artificiale”. In pratica, gli account Spotify che consumavano questi brani non erano persone reali che ascoltavano musica: erano programmi che fingevano di essere ascoltatori, allo scopo di far salire artificialmente il numero di ascolti di brani spazzatura e generare incassi fraudolenti.
Va chiarito, fra l’altro, che Boomy è estranea alla frode ed è soltanto uno strumento usato dai truffatori, tanto che Spotify ha riattivato la pubblicazione supervisionata di nuovi brani provenienti da questo servizio di generazione musicale.
La notizia di questo blocco di massa ha fatto scalpore, ma in realtà non è il primo caso del suo genere: il meccanismo della truffa è già noto da tempo, ma secondo le ricerche del sito specializzato Music Business Worldwide è in rapida crescita a causa di tre fattori concomitanti.
Il primo fattore è la recente possibilità di generare a costo bassissimo o nullo un numero enorme di brani musicali, grazie appunto a servizi come Boomy, che dichiara di aver generato per i suoi utenti oltre 14 milioni di tracce musicali. Questo riduce enormemente i costi operativi della frode, perché prima era necessario prendere una persona e farle comporre qualcosa che somigliasse a un brano musicale. E quella persona, ovviamente, doveva essere pagata: poco, ma pagata.
Il secondo fattore è il successo delle cosiddette stream farm, che sono delle organizzazioni illecite che usano dei software basati sull’intelligenza artificiale per simulare il comportamento di un ascoltatore di musica in carne e ossa e coordinano le attività di un numero elevatissimo di questi ascoltatori sintetici per gonfiare il numero di ascolti dei brani spazzatura.
Il terzo fattore, quello decisivo secondo Music Business Worldwide, è l’attuale criterio di distribuzione dei compensi dei servizi di streaming audio, denominato “pro-rata”. In pratica, i soldi che ciascun abbonato paga mensilmente a Spotify, Apple Music o altri servizi analoghi confluiscono in un unico conto generale. Questo totale viene poi distribuito agli artisti e alle etichette musicali in base alla loro rispettiva quota di mercato. Più un brano è alto in classifica, più soldi incassa. E qui sta il problema: questo metodo di distribuzione incentiva gli utenti commerciali del servizio di streaming, cioè quelli che producono la musica, a cercare di ottenere il numero più alto possibile di ascolti (reali o simulati) invece del maggior numero possibile di ascoltatori.
La differenza può sembrare sottile, ma ha un effetto cruciale: con questo criterio pro-rata, parte dei soldi che ciascun abbonato paga per il servizio viene versata a brani che quell’abbonato non ha ascoltato e che spesso non sono stati ascoltati da nessuno, perché il loro piazzamento nella graduatoria dei compensi è stato ottenuto illecitamente usando le stream farm. Varie fonti stimano che questa frode porti via ai servizi di streaming circa un miliardo e duecento milioni di dollari l’anno, sui 17 miliardi e mezzo incassati dallo streaming musicale in tutto il mondo nel 2022, secondo i dati IFPI. E i vari filtri utilizzati dai servizi di streaming per identificare i brani generati dall’intelligenza artificiale e bloccarli sono imperfetti e insufficienti.
Esiste però un rimedio a questo problema, che toglierebbe di colpo l’ossigeno alle frodi di questo tipo: passare a un criterio in cui i soldi dell’abbonamento di un utente vengono dati esclusivamente agli artisti ascoltati da quell’utente. È il modello che SoundCloud, per esempio, chiama fan-powered, e che altri servizi di streaming stanno iniziando ad adottare. In questo modello non c’è un gruzzolo comune di soldi altrui accessibili ai truffatori, e quindi le stream farm e i loro brani musicali fittizi non hanno più motivo di esistere.
Il problema, insomma, è serio, e non potrà che peggiorare con il maturare dei software di generazione di musica sintetica tramite intelligenza artificiale, perché i brani falsi saranno sempre più difficili da distinguere da quelli autentici. Ma una soluzione, volendo, c’è.
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