2020/05/31

Storie di Scienza 6: L’uomo che pesò il mondo

Ultimo aggiornamento: 2020/06/01 11:30.

In un periodo in cui opinionisti, movimenti politici e presidenti di superpotenze mettono continuamente in discussione i fatti scientifici e alimentano volutamente la diffidenza verso il sapere e verso chi sa, forse è il caso di ricominciare dalle basi, per riavvicinare la scienza alla persona comune e far capire che i fatti scientifici non sono dogmi calati dall’alto, ma sono il risultato di osservazioni, misurazioni ed esperimenti. Ogni fatto accertato diventa una base sulla quale fare altre osservazioni, misurazioni ed esperimenti e costruire un castello di conoscenze.

Quei fatti fondamentali sono spesso verificabili con esperimenti incredibilmente semplici e intuitivi, spesso elegantissimi, che chiunque può ripetere con un po’ di buona volontà. La scienza, in questo senso, è democratica: i suoi materiali e metodi sono a disposizione di chiunque. Non c’è bisogno di affidarsi alle autorità.

Questa è la storia di come un uomo ha pesato la Terra usando soltanto un’asta di legno, un filo metallico e quattro sfere di piombo. Nel Settecento. Niente computer, niente elettricità, niente laser: solo materiali semplici e soprattutto un cervello fino.

Quando una persona comune si sente dire che la massa del nostro pianeta è circa 5,97 x 1024 chilogrammi, è abbastanza comprensibile che possa avere la sensazione che sia un numero detto a vanvera, impossibile da verificare. Gli scienziati potrebbero dirci che è 12,42 x 1012 chilogrammi e noi non potremmo sapere se ci stanno prendendo in giro o no.  Non possiamo mettere il pianeta su una bilancia. Ma allora come fanno gli scienziati a dare quel numero? Come sono arrivati a questo risultato, fondamentale per capire la scala del Sistema Solare e poi da lì quella del resto dell’Universo?

Lo scozzese Henry Cavendish, figlio del Duca del Devonshire, un timidone che aveva paura delle donne e passava il proprio tempo a fare esperimenti scientifici, ebbe un colpo di fortuna. Intorno al 1783 il geologo e reverendo John Michell aveva concepito un esperimento e progettato uno strumento per misurare il peso specifico della Terra, ma era morto una decina d’anni più tardi senza completare questo lavoro, che fu ripreso e completato da Cavendish.

Lo strumento era una bilancia di torsione: un apparecchio rudimentale ma straordinariamente sensibile, capace di misurare l’attrazione gravitazionale fra due oggetti. Che c’entra con la massa della Terra? Ci arriviamo tra poco.

Immaginate di sollevare un oggetto: un libro, un sacchetto della spesa, il vostro partner o figlio. La vostra forza muscolare sta vincendo l’attrazione gravitazionale di un intero pianeta. Ci vuole tutta la massa di un oggetto enorme come la Terra per generare una gravità che riuscite a battere con i vostri muscoli (la Terra si prenderà la rivincita se provate a saltare da qualche metro di altezza, ma questa è un’altra storia). Pensate quindi quanto possa essere spaventosamente minuscola l’attrazione gravitazionale fra due oggetti comuni: il vostro corpo e una casa. A tutti gli effetti pratici, quest’attrazione è assolutamente trascurabile: l’attrito fra i vostri piedi e il terreno impedisce alla casa di tirarvi.

Per misurare questa attrazione, e da lì arrivare a “pesare” la Terra, bastano letteralmente un’asta di legno lunga 180 centimetri (o sei piedi, viste le unità di misura dell’epoca), un filo metallico, due sferette di piombo da 5 centimetri (due pollici) di diametro, che pesano 730 grammi, e due sfere di piombo più grandi, con un diametro di 12 pollici (circa 30 centimetri), che pesano 158 chili ciascuna. Si appende l’asta al filo metallico, si agganciano le sferette alle estremità dell’asta e si racchiude il tutto in una massiccia cassa di legno in modo che non possano esserci spifferi o altri disturbi. Così:

Illustrazione originale dall’articolo di Cavendish Experiments to determine the Density of the Earth (1798). Fonte della versione digitalizzata: Wikipedia.


Una volta che il meccanismo si stabilizza e non oscilla più (come verificato guardando attraverso le due aperture praticate nella cassa e usando le lampade a olio per illuminarne l’interno), si piazzano le sfere grandi a una ventina di centimetri dalle sfere piccole. La minuscola attrazione gravitazionale fra le sfere grandi e quelle piccole le fa avvicinare, ruotando l’asta appesa e torcendo il filo dal quale pende. Il filo, torcendosi, oppone resistenza, per cui le sfere si avvicinano fino a raggiungere un nuovo equilibrio in cui l’attrazione gravitazionale fra le sfere è equivalente alla forza di torsione impartita al filo. Da qui il nome bilancia di torsione. Misurando il valore di questa forza di torsione si conosce l’attrazione fra le sfere.

Le sfere dello strumento di Michell e Cavendish si avvicinarono di poco più di quattro millimetri: poco, ma comunque sufficiente a dimostrare in maniera visibile, concreta e facilmente ripetibile che la gravità esiste e funziona come dice la scienza, con buona pace dei terrapiattisti. Non c’era altro modo di spiegare quei quattro millimetri.

Il rapporto fra l’attrazione gravitazionale delle sfere grandi e quella della Terra sulle sferette permise a Cavendish di calcolare (con un’approssimazione di circa l’1% rispetto ai valori ottenuti con le tecniche odierne) il peso specifico del pianeta (5,51 g/cm3) applicando la formula della gravitazione universale scoperta da Newton cent’anni prima. Conoscendo il diametro della Terra, si capì che questo valore era troppo alto per pensare che il mondo fosse fatto interamente di roccia al proprio interno: era necessario ipotizzare un nucleo molto denso, quindi metallico. Niente più Viaggio al centro della Terra con Jules Verne, ma anche tanti saluti ai teorici della Terra cava.

Sapendo l’attrazione gravitazionale fra due oggetti e misurando l’accelerazione di gravità della Terra (9,81 m/s2) diventava possibile applicare le formule di Newton per calcolare la massa della Terra, e così Cavendish si vantò di aver “pesato il mondo”, visto che all’epoca massa e peso erano considerati equivalenti. Partendo dalla legge newtoniana, l'esperimento di Cavendish fu inoltre interpretato a posteriori come metodo per calcolare, con buona approssimazione, la costante di gravitazione universale G:  sapendo il valore di questa costante e la durata e il diametro dell’orbita della Terra intorno al Sole, diventò possibile calcolare la massa della nostra stella.

Pesare un mondo e una stella usando soltanto legno, filo e piombo è un risultato davvero notevole, paragonabile per eleganza e potenza a quello della misura della curvatura della Terra da parte di Eratostene usando semplicemente la differenza fra le ombre in città distanti fra loro (e, ancora una volta, un cervello fino). Entrambe le dimostrazioni possono essere ripetute facilmente per eventuali dubbiosi, come ha fatto questa studentessa nella propria cameretta per l’esperimento di Cavendish.

È su risultati tangibili come questi che si è costruito, un passo dopo l’altro, il sapere scientifico. Non è stata una fantomatica “scienza ufficiale” a decidere la velocità della luce, la struttura degli atomi, la temperatura crescente della Terra o l’efficacia dei vaccini. Anche i risultati scientifici più sofisticati, alla fine, poggiano su altri risultati più semplici, a loro volta fondati su esperimenti e osservazioni ancora più elementari.

La strada dal semplice al sofisticato è a disposizione di chiunque voglia ripercorrerla: non servono iniziazioni o strette di mano segrete.

Per riavvicinare l’opinione pubblica alla scienza è importante rivisitare questi esperimenti così semplici, potenti e concreti che dimostrino le sue basi, invece di limitarsi a dispensare formule da un libro di testo. Recitare aridamente agli studenti che g = 9,81 m/s2 è spiccio, ma suona come un ipse dixit; far cadere un palloncino pieno d’acqua dall’ottavo piano di un palazzo e misurarne il tempo di caduta con i video rallentati degli smartphone richiede più tempo, ma rende viva, reale e memorabile la scienza e ne imprime per sempre il metodo, prima che sia troppo tardi.


Una versione molto ridotta di questo articolo è stata pubblicata su Le Scienze nel 2018. Fonti aggiuntive: Juliantrubin.com, Associazione per l’Insegnamento della Fisica, Britannica.com, PhysicsClassroom.com. Questo articolo fa parte delle Storie di Scienza: una serie libera e gratuita, resa possibile dalle donazioni dei lettori. Se volete saperne di più, leggete qui. Se volete fare una donazione, potete cliccare sul pulsante qui sotto. Grazie!



2020/05/30

SpaceX lancia per la prima volta due astronauti

Ultimo aggiornamento: 2020/05/31 23:10.

Mentre scrivo queste righe due astronauti americani, i veterani Doug Hurley e Bob Behnken, sono in orbita intorno alla Terra a bordo della Crew Dragon, il primo veicolo spaziale commerciale per equipaggi, costruito da SpaceX, partito due ore fa dalla storica Rampa 39A del Kennedy Space Center grazie a un vettore Falcon 9, sempre di SpaceX, e diretto alla Stazione Spaziale Internazionale.

È la prima volta dal 2011 che un veicolo americano porta nello spazio un equipaggio ed è la prima volta che il primo stadio di un vettore per equipaggi atterra verticalmente per il recupero. Per non parlare della riduzione di costi: portare un astronauta alla Stazione con un volo sulla Soyuz russa costa 90 milioni di dollari, mentre un volo su Crew Dragon costa 23 milioni a persona.

L’illustratore Tony Bela (@InfographcN) ha realizzato questa magnifica serie di illustrazioni della missione. La data è sbagliata (o meglio, corretta per Tony, che sta in Australia), ma verrà corretta nelle prossime versioni.

Partenza dalla Terra (versione per fuso orario australiano e simili):



Partenza dalla Terra (versione per fusi orari europei, americani e in generale non australiani):



Separazione a circa 83 km di quota del primo stadio, che gira su se stesso per frenare e rientrare sullla Terra mentre il secondo stadio si accende e accelera la capsula Crew Dragon verso l’orbita.



Il primo stadio ricade verso la Terra, usando le alette per orientarsi e i motori per frenare, dirigendosi verso la nave appoggio situata nell’Atlantico.



Poco prima dell’atterraggio sulla nave Of Course I Still Love You, il primo stadio dispiega le zampe e riaccende il motore centrale per azzerare la propria velocità di discesa e appontare delicatamente sulla nave appoggio.



Appontaggio del primo stadio:



Dopo circa nove minuti, il secondo stadio si spegne e la Crew Dragon si separa, entrando in un’orbita preliminare.



Questa è la Crew Dragon vista con il dispositivo di attracco aperto.



La manovra di attracco alla Stazione (se volete cimentarvi, il simulatore online è presso iss-sim.spacex.com):



Il simulatore è molto realistico, con la stessa interfaccia del sistema reale, eppure mi sono qualificato lo stesso al primo tentativo. Il trucco è avere molta calma (ci ho messo circa mezz’ora) e annullare rollio, beccheggio e imbardata per poi concentrarsi sulla traslazione. Non bisogna “pensare aereo”; bisogna “pensare astronave”.









Video: “Allunaggio: guida scientifica anti-complotto”, le prime due puntate

Ogni tanto qualche lunacomplottista mi rimbrotta chiedendomi quali siano le mie credenziali accademiche, per parlare di spazio e astronautica con autorevolezza. Io rispondo sempre che io non sono nessuno: ma quello che dico è quello che dicono gli esperti del settore.

Ora il debunking delle tesi di complotto sugli allunaggi lo fanno un cosmologo e un astrofisico. Così cade anche questa obiezione degli ottusangoli.

"Allunaggio: guida scientifica anti-complotto" è una collaborazione tra Melody On Time e l’Osservatorio Astronomico della Regione Autonoma Valle d'Aosta. In video ci sono l'astrofisico Matteo Benedetto e il cosmologo Lorenzo Pizzuti, con la supervisione del ricercatore Andrea Bernagozzi.

Queste sono le prime due puntate. Se vi piacciono, mettete loro un like e iscrivetevi al canale YouTube.



2020/05/29

Avventurette in auto elettrica: non ho più un’auto a carburante

Il 26 maggio scorso ho fatto rifornimento di carburante a un’auto di mia proprietà per l’ultima volta. Di ritorno da un viaggio di famiglia a La-Chaux-de-Fonds, in Svizzera, ho scattato questa foto ricordo di una tappa simbolica importante nel mio percorso di abbandono dell’auto a carburante per passare completamente all’auto elettrica. Ora capirete perché non faccio mai selfie :-)

A causa della pandemia e per varie altre ragioni di lavoro e di famiglia, questo viaggio è stato il primo significativo che ho fatto con quest’auto da febbraio 2020 (anzi, è stato il primo con qualunque veicolo da allora). Si tratta di una Opel Mokka 1.4 con cambio automatico, affettuosamente soprannominata Petula per via dei suoi cicalini continui e petulanti, acquistata quattro anni fa per iniziare la transizione alla guida assistita e senza cambio. Ho quindi deciso di venderla privatamente tramite il Touring Club Svizzero, che ha un servizio di vendita molto interessante: si occupano loro di tutto. L’annuncio è su Autoscout24.ch qui.

Non ho ancora deciso se e come sostituirla, ma di certo la vendo e non avrò mai più un’auto a carburante fossile. Prenderò una decisione finale tra pochi giorni, dopo un’ultima serie di prove delle possibili candidate elettriche. Per ora resto con la mia piccola iOn elettrica come unico veicolo. Non c’è fretta: tanto per ora non si va lontano, purtroppo.

In quattro anni, dal 10 giugno 2016, ho fatto con Petula 89.491 chilometri e speso 9892,52 CHF per 6440 litri di benzina, per un costo al km di 0,111 CHF/km e un consumo effettivo di 13,85 km/litro. Ho inoltre speso 2406.35 CHF in manutenzione (cambi gomme, tagliandi, cambi olio).

Oggi (29 maggio) ho consegnato la Mokka al TCS per la messa in vendita. Per la prima volta da quando sono diventato maggiorenne, non ho più un’auto a carburante. Fa un effetto strano. Dopo due anni di esperimenti con la piccola iOn, mi sento pronto ad affrontare questa nuova tappa di un percorso iniziato nel 2015 con una pazzia che mi ha fatto innamorare.

Il dado è tratto: d’ora in poi, solo auto elettriche. Troppo divertenti, scattanti, silenziose, economiche e dannatamente pratiche. Non è una scelta adatta a tutti, ma per il mio caso credo proprio di sì. Spero di non sbagliarmi.

La mia ultima auto a pistoni.

Goodbye, Petula. Sei stata una brava auto.



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Puntata del Disinformatico RSI del 2020/05/29

È disponibile la puntata di stamattina del Disinformatico della Radiotelevisione Svizzera, condotta da me insieme a Tiki. Da oggi torna lo streaming video.

Podcast solo audio: link diretto alla puntata.

Argomenti trattati:

Podcast audio precedenti: archivio sul sito RSI, archivio su iTunes e archivio su TuneIn, archivio su Spotify.

App RSI (iOS/Android): qui.

Video (con musica): lo troverete a breve nell’archivio.

Archivio dei video precedenti: La radio da guardare sul sito della RSI.

Buona visione e buon ascolto!


Giochini nascosti nei browser

Se volete divertirvi a sorprendere i vostri amici o colleghi con la profondità del vostro sapere informatico o semplicemente intrattenere i vostri figli con un videogioco a sorpresa, Lifehacker ha pubblicato una serie di easter egg, ossia di chicche nascoste nei programmi che utilizziamo comunemente e in particolare nei browser dei nostri computer.

In Google Chrome, per esempio, potete digitare chrome://dino: comparirà il consueto messaggio d’errore con icona di dinosauro che compare quando non c‘è connessione a Internet, anche se in realtà la connessione c’è. Se premete la barra spaziatrice, partirà un giochino: il dinosauro si metterà a correre e dovrete premere la barra spaziatrice per fargli saltare i cactus e accumulare punti.

Se usate Mozilla Firefox potete invece fare clic destro sulla barra strumenti, scegliere Personalizza e trascinare tutte le icone (tranne lo spazio flessibile) al menu Extra come mostrato qui sotto: vedrete comparire un pulsante con una piccolissima icona di unicorno in basso.


Se cliccate sul pulsante con l’icona dell’unicorno, potrete giocare a una bizzarra variante del classico gioco Pong: l’icona dello spazio flessibile in alto diventa la vostra “racchetta”, da spostare usando i tasti freccia orizzontali, e al posto della pallina farete rimbalzare degli unicorni. Non chiedetemi perché.

Per Microsoft Edge, invece, basta digitare edge://surf nella versione più aggiornata e potrete fare surf usando i tasti freccia orizzontali per spostarvi e il tasto freccia giù per accelerare. Se riuscite a raccattare un fulmine verde, potrete anche premere il tasto F per accelerare. Buon divertimento!

5GBioshield: il dispositivo da 380 euro che promette protezione contro il 5G è una chiavetta da 5 euro con un adesivo

La storia si ripete. Quando fu introdotta la telefonia mobile, spuntarono come funghi presunti dispositivi di “protezione” contro gli altrettanto presunti effetti nocivi. Ve la ricordate la “coccinella antiradiazioni universale”, che in realtà non assorbiva affatto le radiazioni dei telefonini e fu quindi condannata per pubblicità ingannevole? Era dicembre del 2000, ricorda Maxkava.

Sono passati vent’anni, la tecnologia è cambiata, ci siamo tutti abituati a usare la telefonia mobile ma i venditori di finti rimedi continuano a inventarsi nuove trovate.

Le preoccupazioni per l’introduzione della telefonia mobile 5G espresse da alcune persone (ma non dagli esperti del settore) hanno ispirato i venditori di 5GBioshield, che propongono un dispositivo che “fornisce protezione alla tua casa e alla tua famiglia grazie a un catalizzatore a nano-strati olografici indossabili... grazie a un processo di oscillazione quantistica... bilancia e riarmonizza le frequenze disturbanti che emergono dalla nebbia elettrica indotta da dispositivi come laptop, telefoni cordless, wi-fi, tablet, eccetera”.

La descrizione è pura fuffa pseudoscientifica, mentre il prezzo di questo prodigioso apparecchio è da fantascienza: ben 380 euro.

Gli esperti di Pen Test Partners ne hanno acquistato uno e hanno scoperto che si tratta semplicemente di una chiavetta USB da 128 megabyte (non giga; mega) dotata di un comune adesivo. Un oggetto che non solo non ha alcuna funzione protettiva, ma costa al massimo cinque euro.

I venditori dicono di avere “ricerche” che confermano l’efficacia del loro prodotto, ma non hanno detto quali. La vendita dell’oggetto è stata bloccata nel Regno Unito dalle autorità di difesa dei consumatori.

Questo non ha impedito ai membri di alcuni movimenti anti-5G di lodare le doti di questo dispositivo, per esempio in questo rapporto del comitato consultivo del consiglio comunale di  Glastonbury, sempre nel Regno Unito, uscito prima del blocco delle vendite. Uno degli acquirenti dice che ora che l’ha acquistato dorme meglio e sogna di più. Probabilmente dormono meglio anche gli inventori di quest’oggetto, sognando il proprio conto in banca sul quale si accumulano i soldi di chi crede alle loro parole prive di fondamento.


Fonte aggiuntiva: Butac.it.

EasyJet annuncia un “incidente di sicurezza informatica”: cosa fare?

Sono arrivate tante segnalazioni a proposito delle mail, ricevute da clienti EasyJet, nelle quali la compagnia aerea annuncia di aver subìto un “incidente di sicurezza informatica” che ha coinvolto circa nove milioni di clienti, di cui 480.000 in Svizzera.

La mail proviene effettivamente da Easyjet e include un link personalizzato che porta a una pagina del sito della compagnia aerea che contiene le stesse informazioni.

Il testo è piuttosto rassicurante e solitamente dice che “I dati del tuo passaporto e carta di credito non sono stati coinvoli [sic], ma sono state consultate informazioni del luogo di partenza, la destinazione di viaggio, la data di partenza, il numero di riferimento della prenotazione, la data di prenotazione e il valore della prenotazione.”

Ma il testo non è uguale per tutti: se l’avete ricevuto, leggetelo attentamente, perché l’esperto di sicurezza informatica Graham Cluley segnala che alcuni clienti hanno ricevuto una variante della mail che dice chiaramente che sono stati trafugati anche “dettagli di carte di credito (compresa la scadenza e il CVV)”. Se è questa la vostra versione, vi conviene far bloccare subito la carta di credito che avete usato e che è indicata nella mail.

Un altro aspetto interessante è che la fuga di dati è stata annunciata il 19 maggio, ma non viene precisato il momento in cui è avvenuto effettivamente l’attacco, che a quanto pare risale a un paio di mesi prima: chi ha ricevuto la mail con l’allerta riguardante la carta di credito l’ha infatti vista comparire nella propria casella di posta a fine marzo.

Ma come è possibile che EasyJet si sia fatta rubare i CVV? Questi dati normalmente non vengono conservati dai negozi online, e quindi è molto strano che la compagnia parli di trafugamento di questi codici di autorizzazione. L’ipotesi più probabile è che il sito di Easyjet sia stato attaccato e alterato in modo da installarvi un software (per esempio Magecart) che intercettava i dati di pagamento durante le prenotazioni. Non sarebbe la prima volta: la stessa cosa è successa a British Airways a ottobre 2018.

Comunque stiano le cose, resta valido il consiglio della compagnia aerea di fare molta attenzione a possibili tentativi di furto di password o dati personali da parte di truffatori che si spacciano per EasyJet via mail o per telefono. Conoscendo la spavalderia dei criminali, è probabile che tentino addirittura di presentarsi come addetti ai rimborsi e vi chiedano i dati della carta di credito per un presunto risarcimento. Non cascateci.

Pubblico virtuale per gli stadi, grazie a un’app

Ci vorrà ancora parecchio tempo prima che gli eventi sportivi possano avere di nuovo un pubblico fitto, e alle squadre non piace certo disputare partite o gare senza sentire l’incoraggiamento della folla. Ma la tecnologia sta provando a metterci una pezza: Yamaha ha annunciato Remote Cheerer, un’app che consente ai tifosi di trasmettere le proprie espressioni di sostegno o contestazione direttamente da casa facendole riecheggiare nell’impianto sportivo come se fossero lì.

Durante una prova generale del sistema, allo stadio giapponese Shizuoka da 50.000 posti sono stati piazzati 58 altoparlanti, che hanno diffuso le reazioni dei tifosi partecipanti all’esperimento. Non solo applausi e fischi, ma anche cori da stadio delle singole squadre, provenienti dalle varie zone dello stadio nelle quali normalmente sarebbero seduti i vari sostenitori.

Pandemia a parte, questa applicazione consente anche la partecipazione di chi non può recarsi materialmente all’evento per qualunque altra ragione più convenzionale, dalla distanza al ricovero in ospedale agli impegni di famiglia o di lavoro.


Aggiornamenti da fare e da NON fare: MacOS, Safari, Windows 10

Conviene aspettare.
Mi capita spesso di segnalare la necessità di fare aggiornamenti di sicurezza ad applicazioni e sistemi operativi. Mi capita meno spesso di dover segnalare di non fare uno di questi aggiornamenti.

Se siete utenti MacOS, l’aggiornamento è da fare per adottare la versione 10.15.5 (Catalina) ma anche per le versioni precedenti (10.14 Mojave e 10.13 High Sierra). Serve a correggere 46 falle importanti del sistema operativo (una si attiva semplicemente aprendo un documento PDF).

In più ci sono nove correzioni per Safari: molte delle falle corrette consentivano di prendere il controllo almeno parziale del Mac semplicemente visitando una pagina Web appositamente confezionata.

Ci sono anche varie migliorie generali in MacOS, in particolare nella gestione della batteria, che può ora essere caricata automaticamente a meno del livello massimo: questo accorcia l’autonomia consentita dalla singola carica, ma fa durare più a lungo negli anni la batteria.

Se invece siete utenti Windows, in particolare di Windows 10, aspettate a fare l’aggiornamento massiccio denominato 20H1 o 2004 o semplicemente “quello di maggio 2020”, perché c’è almeno una decina di potenziali problemi che possono verificarsi durante l’aggiornamento. Microsoft stessa raccomanda di lasciare che sia Windows stesso a proporvi di aggiornarsi, senza forzare l’aggiornamento. Bisogna infatti aspettare che i produttori di vari componenti (in particolare schede audio o schede grafiche) aggiornino i propri driver.

Come sempre, non dimenticate di fare una copia dei vostri dati prima di avviare qualunque aggiornamento importante.


Fonti aggiuntive: The Register, Ars Technica, Punto Informatico, Zeus News.

2020/05/28

App Immuni, aspetti tecnici e giuridici aggiornati

Dopo questo mio primo articolo/video su Immuni, torno a parlare di quest’app con alcuni aggiornamenti in questo video della conferenza tenuta online grazie alla Fondazione UPAD e al Movimento Universitario Altoatesino insieme al consulente su privacy e GDPR Patrick Lazzarotto, con la moderazione di Pietro Calò, membro del Senatus della Fondazione.

2020/05/26

App anti-coronavirus svizzera disponibile subito in anteprima

SwissCovid, l’app svizzera di aiuto alla gestione della pandemia da coronavirus, è disponibile subito in versione di anteprima qui sul Google Play Store. La versione iOS non è ancora disponibile nell’App Store di Apple.

La Svizzera diventa così il primo paese al mondo a usare un’app di tracciamento di prossimità basata sul supporto software sviluppato appositamente da Apple e Google.

Ne ho descritto le caratteristiche, i criteri e il funzionamento generale in questo articolo e in questo: vi consiglio di leggerli perché contengono già le risposte alle domande più frequenti, così eviterete di rifarle.

Ieri (25 maggio) è scattata la fase di test pilota ufficiale dell’app. Dal 28 maggio dovrebbe essere disponibile a tutti il codice sorgente definitivo per un test pubblico di sicurezza.

Queste sono le schermate iniziali di installazione (in italiano perché l’app usa per default la lingua usata dal telefono dell’utente), in ordine di apparizione.

Si comincia con una serie di schermate introduttive:






Poi viene chiesto di ignorare l’ottimizzazione della batteria in modo da consentire all’app di essere sempre attiva, anche quando è in background. Questo fa aumentare il consumo della batteria “soltanto leggermente”.




Ho dato il mio consenso:



Poi l’app mi ha chiesto il permesso di attivare il tracciamento:



Ho accettato:



L’installazione finisce ringraziando (“Grazie che ci aiuti a proteggere te e gli altri”) e chiedendomi di avviare l’app.



Al primo avvio c’è una segnalazione d’errore: “non ci sono dati aggiornati”.



Dettagli sull’errore e info di contorno:



Pochi secondi dopo l’errore scompare e il tracciamento si attiva.



Il tracciamento è disattivabile in qualunque momento andando nella sezione Incontri:




Toccando la I cerchiata nella schermata iniziale si possono leggere queste info sull’app, su chi la pubblica e su chi l’ha realizzata, insieme al numero di versione.



Vi terrò aggiornati se ci saranno novità.


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2020/05/24

Storie di Scienza 5: Come vedere i continenti su mondi di altre stelle

Simulazione di un’immagine di un
esopianeta tramite un telescopio
a lente gravitazionale
(NASA/JPL-Caltech/Slava Turyshev)
Gli esopianeti, ossia i mondi che orbitano intorno alle stelle lontane, sono oggetti incredibilmente difficili da osservare. Non è solo questione di distanze cosmiche inimmaginabili: un esopianeta si perde nel bagliore intensissimo della sua stella. Osservarlo è come tentare di vedere una lucciola mentre abbiamo un fanale d’automobile puntato dritto negli occhi. È così difficile che finora siamo riusciti a fatica a scorgere alcuni di questi esopianeti come vaghi puntini.

Immaginate ora di avere uno strumento che vi consenta di vedere i dettagli di questi esopianeti: non solo le forme dei loro continenti e oceani, se ne hanno, ma anche di scorgere variazioni stagionali o eventuali grandi strutture costruite da entità intelligenti: una città, per esempio. Vedere questi pianeti non più come macchioline indistinte ma come luoghi, che hanno una geografia precisa da esplorare, sarebbe una rivoluzione non solo tecnologica ma anche culturale: ci renderebbe molto chiaro il concetto che la Terra è solo uno di un numero infinito di mondi.

Questo strumento è già realizzabile adesso, con le tecnologie esistenti o con loro affinamenti: si chiama Solar Gravity Lens, e funziona usando una tecnica affascinante. La sua lente primaria, infatti, è una stella intera: specificamente il Sole.

Costruire un telescopio tradizionale con una risoluzione sufficiente a vedere dettagli della superficie di un esopianeta a 100 anni luce dalla Terra è ben al di sopra delle nostre attuali capacità, dato che le inesorabili leggi dell’ottica obbligherebbero a creare uno specchio primario con un diametro di 90 chilometri. Ma possiamo “barare” grazie ad Einstein.

Infatti i campi gravitazionali, per esempio quello prodotto dal nostro Sole, deflettono la luce, come previsto da Einstein nel 1913, dimostrato spettacolarmente durante l’eclissi solare del 29 maggio 1919 e calcolato dal grande fisico in una sua pubblicazione su Science del 1936.

Non è pura teoria: gli astronomi hanno già osservato concretamente questo fenomeno, noto come gravitational lensing o lente gravitazionale, nelle immagini di galassie lontane, il cui aspetto risulta deformato perché la loro luce arriva a noi passando nelle vicinanze di un altro corpo celeste di grande massa (per esempio un’altra galassia relativamente più vicina).

La galassia rossastra al centro distorce la luce proveniente dalla galassia azzurra che le sta “dietro” dal punto di vista della Terra, formando un anello di Einstein. Immagine del telescopio spaziale Hubble, 2011 (ESA/Hubble/NASA).


Questa distorsione può essere sfruttata anche per ingrandire enormemente un oggetto lontanissimo come una galassia ai limiti dell’universo conosciuto (11,7 miliardi di anni luce, grazie ad ALMA) oppure un esopianeta. Secondo gli sviluppatori del progetto SGL, per sfruttare il Sole come “lente d’ingrandimento” occorre piazzare un telescopio da un metro (quindi più piccolo di Hubble) nel “punto focale” del nostro Sole. Un telescopio del genere sarebbe in grado di ottenere immagini di esopianeti situati a 30 parsec (circa 100 anni luce) con una risoluzione di dieci chilometri. Le basi concettuali di questo ipertelescopio furono gettate da Von R. Eshleman e approfondite dall’astronomo italiano Claudio Maccone e altri.

C’è un piccolo problema, però. Per un esopianeta a 100 anni luce, il punto focale del Sole, quello che consentirebbe di usare questo globo termonucleare largo 1,4 milioni di chilometri come il più esagerato dei teleobiettivi, si trova a 97 miliardi di chilometri dalla Terra. Sedici volte più lontano di Plutone. La sonda Voyager 1 ci ha messo 40 anni per arrivare a circa un quinto di quella distanza.

Chiaramente nessuno vuole aspettare duecento anni, per cui bisogna trovare un modo un po’ piu rapido di viaggiare nello spazio. Per fortuna esiste, e sfrutta di nuovo il Sole: al posto di motori a propellente chimico si può usare la gravità solare, lanciando il veicolo verso il Sole (con un vettore convenzionale) ma passandogli vicino in modo da riceverne un impulso di accelerazione, e si possono adottare le vele solari. Si tratta di enormi superfici ultrasottili che ricevono la tenuissima spinta della luce solare (sì, la luce esercita una pressione di radiazione misurabile e misurata da circa cent’anni). Questa spinta è costante, per cui un veicolo spaziale dotato di vele solari continuerebbe ad accelerare per tutto il tempo invece di avere solo il breve spunto iniziale dei razzi tradizionali. Il risultato è che una vela solare che trasportasse un telescopio raggiungerebbe la distanza di 97 miliardi di chilometri in circa venticinque anni.

Arrivato alla distanza giusta e nella posizione corretta, il telescopio SGL punterebbe i suoi sensori in direzione del Sole, schermandone però la luce con un coronografo: una barriera fisica circolare posta davanti al telescopio. È lo stesso principio che usiamo quando copriamo una luce intensa con la mano per poter vedere gli oggetti fiochi nelle vicinanze. In teoria si potrebbe usare al posto del Sole qualunque altro corpo celeste dotato di notevole massa ed eliminare il problema del bagliore della corona solare, ma questa soluzione renderebbe impraticabilmente grande la distanza focale da raggiungere.

Questo permetterebbe al telescopio di captare l’immagine di un esopianeta, distorta in un anello di Einstein, piazzandosi in modo da avere il Sole esattamente allineato con quell’esopianeta. In realtà l’anello sarebbe doppio: uno conterrebbe la luce proveniente da una singola area di circa 10 km di diametro dell’esopianeta, mentre l’altro conterrebbe la luce di tutto il resto del mondo alieno. Spostando leggermente il telescopio di circa un chilometro nelle varie direzioni si cambierebbe la zona dell’esopianeta “inquadrata” dal primo anello e quindi si potrebbe fare una lenta scansione di tutta la sua superficie. Osservando queste distorsioni per sei mesi ed elaborando circa un milione di immagini raccolte, sarebbe possibile escludere la luce della corona solare e ottenere un’immagine simile a quella (simulata) mostrata all’inizio di quest’articolo, eliminando persino le eventuali nuvole.

Oltre all’immagine della superficie, questo telescopio farebbe anche spettroscopia dell’esopianeta, consentendo di conoscere la composizione chimica della sua eventuale atmosfera. Se una civiltà aliena lo facesse con noi, puntando un telescopio a lente gravitazionale solare verso la Terra, potrebbe rilevare il repentino aumento della CO2 atmosferica e di altri inquinanti e dedurne la presenza di attività industriali da parte dei poco lungimiranti abitanti del pianeta.

Costruire un telescopio SGL è insomma una sfida ingegneristica notevolissima e comporta una precisione di navigazione eccezionale (il telescopio va piazzato al centro di un piano che misura 1 km per 1 km, a 90 miliardi di km dalla Terra) e difficoltà di radiocomunicazione senza precedenti, ma non richiede nulla che non sappiamo già.

Una flotta di questi telescopi, piazzati in vari punti e a varie distanze dal Sole, potrebbe osservare tutti i pianeti situati a meno di 100 anni luce dalla Terra (per via della struttura di un telescopio SGL, ne occorre uno dedicato a ogni singolo esopianeta). Nel giro di qualche decennio conosceremmo molto meglio il nostro vicinato e i nostri eventuali vicini.

Strada facendo, inoltre, questa flotta raccoglierebbe anche informazioni sulla natura del nostro sistema solare, analizzando l’eliosfera nella quale si muovono tutti i pianeti e cercando oggetti della Fascia di Kuiper. Permetterebbe inoltre di osservare onde gravitazionali e, grazie alla parallasse, potrebbe misurare la posizione precisa di ogni singola stella della nostra Galassia.

Il progetto attuale propone di usare sonde molto piccole con vele solari di dimensioni realisticamente fattibili (16 pannelli da 1000 metri quadri ciascuno) e di ridurre i costi lanciando queste sonde in ride sharing, ossia come carico aggiuntivo di altre missioni, evitando così il costo di un vettore di lancio dedicato come l’onerosissimo SLS.

Se tutto questo vi sembra troppo fantascientifico, soprattutto in un momento in cui facciamo fatica persino a uscire di casa in sicurezza, considerate che la NASA è interessata a questo concetto abbastanza da finanziarne le ricerche con 2 milioni di dollari dai fondi del programma NIAC (NASA Innovative Advanced Concepts).

E se l’idea di poter vedere i continenti di mondi lontanissimi vi pare irrealizzabile, tenete presente che a molti sembrava impossibile poter ottenere un’immagine di un buco nero. Poi è successo questo, usando un radiotelescopio virtuale grande quanto la Terra.

Credit: Event Horizon Telescope Collaboration.


L’ambizione degli astronomi di costruire strumenti sempre più grandi non conosce limiti. Un telescopio SGL lungo 90 miliardi di chilometri non è certo il limite della loro creatività nel trovare modi nuovi di estrarre informazioni dall’Universo. Che ne dite, per esempio, di un rivelatore di onde gravitazionali grande come una galassia? Ma questa è un’altra storia.


Fonti aggiuntive: Planetary Society; Planetary Science Vision 2050 Workshop 2017; Direct Multipixel Imaging and Spectroscopy of an Exoplanet with a Solar Gravity Lens Mission; Putting gravity to work: Imaging of exoplanets with the solar gravitational lens. Questo articolo fa parte delle Storie di Scienza: una serie libera e gratuita, resa possibile dalle donazioni dei lettori. Se volete saperne di più, leggete qui. Se volete fare una donazione, potete cliccare sul pulsante qui sotto. Grazie!



2020/05/23

Oggi dalle 14 Starcon: convention virtuale di fantascienza e dintorni

Tra poco inizierà la StarCon, la convention di fantascienza alla quale partecipo ogni anno da tempo immemorabile per ritrovare gli amici, tradurre gli ospiti stranieri e ogni tanto fare qualche miniconferenza scientifica. Quest’anno, per ovvie ragioni, la StarCon si fa virtualmente, in videoconferenza: questo ha il vantaggio che chiunque può seguirla. Se volete, il link alla diretta Youtube di oggi è qui sotto. Si comincia alle 14 circa.

Il programma della giornata prevede gli ospiti Ross Mullan (Trono di Spade), Chase Masterson (Star Trek: Deep Space Nine) e Giulia Santilli (doppiatrice e attrice). Le conferenze includono "Passato, presente e futuro dei romanzi di Star Trek" con Carlo Recagno, "Il doppiaggio di Star Trek Picard" con Marcello Rossi e "Manuale per Viaggiatori nel tempo" con il sottoscritto, più varie visite a sorpresa.



Ross Mullan arriva a 3:49; Carlo Recagno inizia a 53:40; Marcello Rossi ci spiega i problemi di doppiaggio di Star Trek Picard da 1:37:00; io arrivo a 2:01:00 circa (in costume). Buona visione.

Ecco la seconda parte: dopo la sfilata dei costumi (virtuale) e le premiazioni per il modellismo di fantascienza, a 17:50 c‘è Chase Masterson, seguita da Giulia Santilli a 46:00. L’attività di beneficenza citata da Chase Masterson è la Pop Culture Hero Coalition, presso Popculturehero.org.



Terza parte: Tony Amendola (Stargate SG-1), prop-making con Annalisa Diacinti, astronomia dal balcone con Gian Franco Lollino, e Jeffrey Weissmann (Ritorno al Futuro Parte II e III).

2020/05/22

Puntata del Disinformatico RSI del 2020/05/22

È disponibile la puntata di stamattina del Disinformatico della Radiotelevisione Svizzera, condotta da me insieme a Alevì stando entrambi in studio, anche se a rispettosa distanza come prescritto dalle misure di protezione decise dalla RSI. Non c’è streaming video.

Podcast solo audio: link diretto alla puntata.

Argomenti trattati:

Podcast audio precedenti: archivio sul sito RSI, archivio su iTunes e archivio su TuneIn, archivio su Spotify.

App RSI (iOS/Android): qui.

Video: anche stavolta non c’è.

Archivio dei video precedenti: La radio da guardare sul sito della RSI.

Buon ascolto!

Raffica di attacchi informatici ai supercomputer

I supercomputer europei sono sotto attacco. Non è solo il Centro Svizzero di Calcolo Scientifico (CSCS) di Lugano a essere oggetto di tentativi di incursione informatica, come segnalato nei giorni scorsi, ma anche altri centri di supercalcolo sono stati presi di mira.

L’11 maggio scorso sono attaccati il supercomputer ARCHER dell’Università di Edimburgo e cinque supercomputer in Germania. Nei giorni successivi è toccato appunto al CSCS e a un centro di calcolo a Barcelona. Anche un altro centro di calcolo a Monaco è stato toccato.

Gli attacchi, scrive la European Grid Infrastructure in un rapporto, sono stati due: uno con il chiaro intento di usare la potenza di calcolo di questi calcolatori per generare criptovalute (e questo ha colpito anche computer cinesi e nordamericani) e uno per ragioni per ora sconosciute. Dato che molti di questi centri di supercalcolo sono coinvolti nella ricerca sul nuovo coronavirus, è possibile (ma tutt’altro che dimostrato) che si tratti di incursioni mirate a spiare queste ricerche o sabotarle.

In entrambi i casi il metodo di attacco è l’uso di credenziali SSH violate, quelle usate dai ricercatori per collegarsi da remoto, come stanno facendo in tanti per via del lavoro da casa, evidentemente senza prendere misure di sicurezza personale sufficienti.

Cado Security ha pubblicato un’analisi dettagliata del malware di mining installato e delle provenienze apparenti degli attacchi.

Anche se questi attacchi riguardano supercomputer ben diversi da quelli che abbiamo noi comunemente in casa o sul posto di lavoro, i princìpi di difesa sono gli stessi e c’è una lezione da imparare per tutti: l’improvviso spostamento verso il lavoro da remoto significa che molti utenti si collegano via Internet ai computer aziendali. Le loro postazioni di lavoro, che prima erano fisicamente e informaticamente protette all’interno dell’azienda e della rete aziendale, ora sono spesso su laptop usati in modo promiscuo, lasciati in giro e tenuti in locali ai quali hanno facile accesso anche altre persone. I codici di accesso remoto (le credenziali SSH) vengono custoditi spesso con molta disinvoltura, per cui i ladri hanno il gioco più facile.

Sto ricevendo segnalazioni di numerose aziende violate in questo periodo per ricattarle con ransomware. Fate backup, fateli ossessivamente e teneteli fisicamente scollegati dopo averli fatti.


Fonti aggiuntive: BBC, Engadget.

Perché tutti stanno bocciando TikTok?

TikTok è un’app social popolarissima. Ma allora come mai le sue recensioni sono precipitate a 1,6 stelle su 5 in Google Play mentre sono alte (4,8) su App Store? Visto che di solito si consiglia di non installare app che hanno recensioni scarse, vale la pena di capire cosa sta succedendo.

La spiegazione, a quanto pare, arriva dall’India: specificamente da una lite online fra uno YouTuber molto popolare nel subcontinente, CarryMinati (Ajay Negar), uno che fa 75 milioni di visualizzazioni con un singolo video, e un “TikToker”, Faizal Siddiqui. Siddiqui ha inoltre pubblicato su TikTok un video che è accusato di incoraggiare la violenza contro le donne.

Risultato: gli utenti indiani hanno partecipato alla lite inondando Google Play di recensioni negative di TikTok e promuovendo hashtag come #IndiansAgainstTikTok e #tiktokbanindia che invitano a disinstallare l’app o chiedono di bandirla dagli store.

Il crollo del punteggio di recensione si è fatto sentire su Google Play molto più che su App Store perché Android è di gran lunga il tipo di smartphone più diffuso in India.

Non c’è niente di improvvisamente negativo in TikTok, insomma; c’è solo una notevole dimostrazione del potere planetario degli internauti indiani.


Fonti aggiuntive: India Times, DNAIndia, IndianExpress, NDTV.

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