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Il rientro procede in maniera automatica, come consueto. Le squadre di recupero si avvicinano alla capsula, coricata sul terreno, accompagnata dal suo grande paracadute, che si è aperto regolarmente. I razzi di frenata hanno agito come previsto. Le condizioni meteorologiche al suolo sono perfette. Ma gli uomini che arrivano per accogliere i tre cosmonauti sono costretti a trasmettere ai responsabili del programma spaziale un messaggio in codice scioccante: le tre cifre 1-1-1.
Nella procedura di comunicazione dell’epoca, le condizioni dei cosmonauti vengono annunciate usando per ciascuno le cifre da 5 a 1. Un 5 indica condizioni di salute ottime; 4 indica condizioni buone; 3 segnala ferite; 2 riferisce ferite gravi; e 1 annuncia il decesso. Dobrovolski, Volkov e Patsayev sono morti. Sul viso hanno segni bluastri; è colato sangue dal naso e dalle orecchie. I soccorritori tentano una disperata rianimazione, documentata in un video difficile da guardare, ma è tutto inutile. I tre sono morti per asfissia da decompressione da oltre mezz’ora e sono rimasti esposti al vuoto dello spazio per almeno undici minuti. È la prima volta nella storia dell’esplorazione spaziale che un equipaggio muore nello spazio.
Durante il ritorno a Terra, al momento della normale separazione del modulo orbitale della Soyuz dal modulo di rientro, lo scossone del distacco ha aperto erroneamente in anticipo uno sfiato e l’aria della piccola cabina è sfuggita rapidamente nel vuoto dello spazio, a oltre 100 chilometri di quota. I tre cosmonauti non indossano una tuta pressurizzata, che li salverebbe, perché nella Soyuz di allora (parente stretta di quella che vola tuttora) non c’è spazio per tre persone in tuta. L’equipaggio ha avuto meno di un minuto per tentare di individuare la causa della fuga d’aria prima di essere sopraffatto dagli inevitabili effetti della decompressione. I registratori di bordo documentano freddamente che 50 secondi dopo il distacco del modulo orbitale il battito cardiaco di Patsayev è precipitato da oltre 90 a 42 pulsazioni al minuto, segno inequivocabile di privazione d’ossigeno, e che 110 secondi dopo l’apertura accidentale dello sfiato i cuori dei tre cosmonauti hanno cessato di battere.
L’Unione Sovietica è scossa dalla tragedia e celebra per Dobrovolski, Volkov e Patsayev dei grandi funerali di stato, ai quali partecipa anche l’astronauta statunitense Tom Stafford, ma le cause precise del disastro vengono tenute segrete. I dettagli delle autopsie dell’equipaggio della Soyuz 11 sono segreti ancora oggi. Il difetto fatale dello sfiato verrà reso pubblico, perlomeno in Occidente, soltanto due anni più tardi. I russi svilupperanno rapidamente una tuta pressurizzata compatta e leggera, la Sokol-K, che verrà usata per tutti i voli spaziali successivi, e lo sfiato verrà riprogettato.
Il disastro della Soyuz 11 scuote anche il programma spaziale statunitense. Inizialmente il segreto assoluto sulle cause della morte dei tre cosmonauti fa sospettare che la lunga permanenza nello spazio abbia influito in qualche modo sulle loro condizioni fisiche: visto che un anno prima i cosmonauti Nikolayev e Sevastyanov, dopo 18 giorni di volo spaziale, quasi non riuscivano a reggersi in piedi, si teme che la permanenza da record dei tre (23 giorni) abbia raggiunto un limite fisiologico invalicabile, come documentano gli articoli del giorno successivo dei giornali italiani, tratte per gentile concessione dall’archivio di Gianluca Atti (@giaroun).
Una volta rivelate le reali cause della morte di Dobrovolski, Volkov e Patsayev, la missione lunare Apollo 15, che deve partire qualche settimana dopo, verrà cambiata per tenerne conto: Scott e Irwin dovranno indossare le tute pressurizzate durante il decollo dalla Luna, la progettazione dei finestrini, dei portelli, delle valvole e dei cablaggi del modulo lunare e del modulo di comando verrà riesaminata a fondo e verranno studiati i possibili effetti di una depressurizzazione del modulo di comando durante il rientro nell’atmosfera terrestre.
Fonti: Space Safety Magazine, Il Post.