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2018/02/27

Un altro giorno, un’altra cazzata monumentale sui giornali. Stavolta sul Corriere con Fabio Savelli

Non bastava lo scempio dell’astronautica di ieri su La Stampa. Sul Corriere della Sera, non sul Tumblr di un marmocchietto prepubere, il giornalista Fabio Savelli ha la pretesa di spiegare ai lettori che cos’è un datacenter, e scrive questa perla:

La distribuzione e la fornitura dell’energia elettrica per mantenere il centro elaborazione dati di Supernap avviene grazie ad un sofisticatissimo sistema di tubi con sistemi di raffreddamento per decomprimere l’energia in eccesso che arriva dalle richieste degli Ip delle aziende.

Sì, secondo Fabio Savelli (e secondo la redazione del Corriere che approva e pubblica i suoi articoli) le richieste degli IP aziendali generano energia, e pure in eccesso. Quelle non aziendali non si sa. E l’energia si decomprime.

Manca solo il “come se fosse Antani” e poi siamo a posto. Il giornalismo italiano ci regala una nuova dimostrazione della sua incompetenza e della sua propensione a rifilar balle ai propri lettori.

Per chi, fra le lacrime, non vuole credere che un giornale possa arrivare a questi abissi di inettitudine, offro screenshot qui sotto e copia permanente su Archive.is.


Questi, ripeto, sono quelli che dicono che ci salveranno dalle fake news di Internet.


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“Mandatemi le vostre criptovalute, ve le raddoppierò”. Indovinate come va a finire

Credit: Coindesk.
Se qualcuno vi chiedesse di spedirgli una banconota da cento euro e vi promettesse di mandarvene in cambio ben quattro dello stesso valore, gli credereste? Immagino di no. Eppure questo è esattamente quello che sta succedendo in questo momento su Internet, in particolare su Twitter.

Da qualche tempo si è scatenata una nuova febbre dell’oro intorno alle cosiddette criptovalute, ossia le monete virtuali come i Bitcoin, usabili per fare acquisti e ricevere pagamenti in molti siti Internet e in alcuni punti di vendita tradizionali. Molti utenti sperano di poter guadagnare grandi cifre comprando criptovalute nella speranza che aumentino ancora di valore, e in effetti questo è successo nei mesi scorsi. Chi ha comprato Bitcoin a febbraio del 2017 e li ha rivenduti a dicembre dello stesso anno, ha incassato circa venti volte il proprio investimento iniziale in pochi mesi, secondo i dati di Coindesk. Ma non c’è nessuna garanzia che questi andamenti proseguano: anzi, da dicembre 2017 a oggi il valore dei bitcoin si è dimezzato.

Questa frenesia sta producendo livelli di ingenuità davvero preoccupanti, di cui i truffatori si stanno puntualmente approfittando. La moda del momento fra questi criminali è creare un account Twitter il cui nome somiglia a quello di qualche imprenditore molto ricco, come Elon Musk o John McAfee, ma ha una grafia leggermente differente e non ha il bollino di autenticazione; da questi account annunciano che i primi che manderanno una certa somma in criptovalute riceveranno in cambio una somma raddoppiata o addirittura decuplicata.

Per rendere vagamente più plausibile questa promessa assolutamente incredibile, questi truffatori creano delle pagine Web nelle quali si possono vedere quelle che sembrano essere le somme restituite agli investitori, ma è tutto finto: infatti non tutti sanno che tutte le transazioni fatte in criptovalute sono pubblicate in un registro liberamente accessibile e verificabile, e in questo registro non c’è traccia di queste restituzioni.

Spesso questi annunci truffaldini vengono pubblicati su Twitter in una conversazione fatta dal legittimo titolare dell’account originale, che è seguitissimo, e quindi vengono visti da milioni di persone. E fra questi milioni c’è sempre qualcuno che abbocca. Lorenzo Franceschi-Bicchierai, su Motherboard, segnala il caso di uno di questi truffatori che è riuscito a farsi mandare l’equivalente di circa 35.000 dollari dagli ingenui in cerca di facili guadagni. Lo sappiamo, appunto, perché il registro delle transazioni è pubblico e quindi i movimenti sul conto virtuale del truffatore sono visibili a chiunque.

Twitter sta correndo ai ripari rimuovendo questi annunci e bloccando gli account che li pubblicano, ma i truffatori stanno reagendo a questo filtraggio con vari trucchi, come l’uso dell’alfabeto cirillico per comporre frasi in inglese. Se vedete un annuncio di questo genere, non abboccate e segnalatelo a Twitter. E se avete amici appassionati di criptovalute, avvisateli di questa nuova frontiera del raggiro.

In tutta questa vicenda resta un mistero di fondo, ossia il motivo per cui una cosa che non faremmo mai nella vita reale diventa credibile su Internet. E come in ogni febbre dell’oro reale o virtuale, c’è sempre qualcuno che guadagna sicuramente: i truffatori e i venditori di picconi.


Questo articolo è basato sul testo preparato per il mio servizio La Rete in 3 minuti per Radio Inblu del 27 febbraio 2018.

2018/02/26

La Stampa, Carlo Grande: Neil Armstrong è ancora vivo, e altre cazzate

An English summary is available at the end of the Italian text. Ultimo aggiornamento: 2018/02/27 12.30.

Ah sì, il giornalismo, quello della carta stampata, quello che ci salverà dalle fake news che son tutta colpa di Internet signora mia, se solo lasciassero le notizie ai giornalisti staremmo tutti bene, i treni arriverebbero in orario e tornerebbero le mezze stagioni.

Carlo Grande, su La Stampa, ha pubblicato una delle più spettacolari collezioni di cazzate spaziali degli ultimi tempi. Si intitola “La Luna e poi? Illuminazioni e arche di Noè: le storie, un po’ folli, degli ex Moonwalker”. Non regalate clic a questo sconcio: lo trovate in copia su Archive.is qui. Leggetelo e piangete.

Cazzata numero uno: Neil Armstrong è ancora vivo. Non lo sapevate? Ve lo dice Carlo Grande: “Armstrong, primo uomo sulla Luna, si è concesso meno di tutti. È vivo, forse stanco di sentirsi chiedere: «Ehi, com’è passeggiare lassù?»”. Armstrong è morto il 25 agosto 2012. C’era pure scritto su La Stampa, quel giorno. Si vede che sarà stata una fake news. Suvvia, La Stampa: non avete un giornale, in redazione?

Cazzata numero due: sono ancora vivi in quattro. “Salvo errori, ne sono rimasti quattro”, scrive Carlo Grande. Salvo errori, dice il giornalista, perché contare fino a dodici è difficile e si potrebbe sbagliare. Perché andare su Wikipedia e guardare quali e quanti di questi dodici sono ancora vivi costa troppa fatica ed è indegno di un Vero Giornalista. Fra coloro che hanno camminato sulla Luna, i vivi sono oggi cinque, non quattro: Aldrin, Bean, Scott, Duke, Schmitt. I morti sono sette: Armstrong, Conrad, Mitchell, Shepard, Irwin, Young, Cernan. Sette più cinque fa dodici. Salvo errori, s’intende.

Cazzata numero tre: siamo andati sulla Luna sette volte, non sei, sapevatelo. Carlo Grande scrive: “David Scott (settimo sbarco)”. Balle. Gli sbarchi lunari furono sei: Apollo 11, 12, 14, 15, 16, 17 (Apollo 13 fu interrotta per uno scoppio a bordo). Non esiste nessun settimo sbarco. Anche questo errore dilettantesco si poteva evitare usando Wikipedia.

Cazzata numero quattro: Mitchell partecipò al sesto sbarco. Scrive Grande: “Edgar Mitchell (sesto sbarco)”. Falso. Mitchell arrivò sulla Luna con Apollo 14, che fu il terzo sbarco.

Ce ne sarebbero altre, e ci sarebbe molto, ma molto da dire su come Carlo Grande riduce questi uomini che hanno fatto la Storia a rimbambiti disadattati, ossessivi e disonesti, ma mi fermo qui per pietà. Questi sono andati sulla Luna, ma un giornalista che ha problemi a contare fino a dodici li tratta dall’alto in basso. Complimenti, davvero complimenti.

Prima l’intervista inventata a Samantha Cristoforetti, adesso questa balla spaziale su La Stampa. Poi mi chiedono perché non perdo mai tempo a leggere notizie aerospaziali nei giornali generalisti. Articoli pieni di errori dilettanteschi come questi gettano fango sugli astronauti e sui buoni giornalisti.

“Ehi, Alan, leggi qui quante cazzate dicono di noi su La Stampa...” (Foto NASA).


Aggiornamento (2018/02/27 12:30)


Carlo Grande ha replicato pubblicamente su Twitter. La Stampa ha invece corretto l’articolo aggiungendo una postilla informativa.



English summary


Today the Italian national newspaper La Stampa published an article by journalist Carlo Grande about the Apollo moonwalkers. The article (saved here on Archive.is for the record) contains a number of outrageous factual errors that could have been easily avoided just by looking up the Apollo missions in an encyclopedia or on Wikipedia. Such errors show a total disregard for the basic journalistic duty of checking the facts before posting an article.

  1. Mr. Grande claims that Neil Armstrong is still alive. He passed away in 2012. Even La Stampa reported his death. Yet Mr. Grande writes “Armstrong, first man on the Moon, was the least willing to make himself available [to the press]. He’s alive, perhaps tired of being asked «Hey, what’s it like to walk up there?»”. How can a journalist write about the men who walked on the Moon and not know that the first one, one of history’s most famous and celebrated explorers, is dead?
  2. Mr. Grande states that four Moonwalkers are still alive: “Barring any mistakes, four are left.” Apparently counting the living and the dead among all of twelve men is somewhat challenging for Mr. Grande. Five moonwalkers, not four, are still alive: Buzz Aldrin, Alan Bean, Dave Scott, Charlie Duke, Harrison Schmitt. Seven are no longer with us: Neil Armstrong, Pete Conrad, Ed Mitchell, Alan Shepard, Jim Irwin, John Young, Gene Cernan.
  3. Mr. Grande claims there were seven Moon landings. He writes: “David Scott (seventh landing) was banished from NASA for taking 400 stamped enveloped to the Moon, for resale to collectors”. There were six landings, not seven: Apollo 11, 12, 14, 15, 16, 17 (Apollo 13 was aborted due to an onboard explosion).
  4. Finally, Mr. Grande claims that Ed Mitchell was a crewman of the sixth landing. He writes: “Edgar Mitchell (sixth landing), upon returning has an epiphany...”. That is simply wrong. Mitchell went to the Moon on Apollo 14, which was the third landing.

In addition to these blatant factual errors, Mr. Grande treats the moonwalkers disparagingly, calling them “maladjusted” and saying they had to “deal with alcohol problems, divorces, mystical obsessions”, while making no mention at all of their spectacular human and scientific achievements: all he says about Aldrin is that he “boasts that he was the first to urinate on the Moon, claims he doesn’t know how to make coffee and can’t finish a sentence.” And all he has to say about Alan Bean is that he “tirelessly paints the same subject (the Moon, of course)”.

These men went to the Moon and back in one of history’s most complex and challenging endeavors, yet Mr. Grande, who has trouble even bothering to check the dead and the living among twelve people, thinks it’s OK to mock them. This, apparently, is what passes for journalism in Italy nowadays.


Update (2018/02/27 12:30): The newspaper corrected the article and noted the corrections in a footnote.

2018/02/24

Il Delirio del Giorno: l’ufologo e l’uccello così grande

Il suo "lavoro" è provare,SENZA prove,smontare sistematicamente tutto che va nel senso dell ufologia(cicap/rai clan angela). un uccello cosi grande,senza ali,mai visto! e l ala,ha degli aletoni che si muovono,quindi falso! e non è UN giornalista che ha il monopolio della verità assoluta. anche le tartaruge del mare sanno che sulla luna,marte,pluto,phobo,cometa67p,venere ecc c è la vità extraterrestre,aspettiamo solo un processo alla nurimberg...

-- Commento anonimo a questo articolo.

2018/02/23

Podcast del Disinformatico del 2018/02/23

È disponibile per lo scaricamento il podcast della puntata di oggi del Disinformatico della Radiotelevisione Svizzera. Buon ascolto!

La mia prima auto elettrica: Peugeot iOn

Ultimo aggiornamento: 2018/09/11 23:50.

Forse ricordate che a ottobre 2017 vi avevo chiesto informazioni sulla Mitsubishi i-MIEV / Citroen C-zero / Peugeot iOn. Ora posso spiegarvi perché: stavo valutando di acquistarne una di seconda mano, quella nella foto qui accanto, come prima auto elettrica sperimentale del Maniero Digitale. L’ho fatto, e oggi è arrivata: è una Peugeot iOn.

Resto in attesa della futura Tesla Model 3 che ho prenotato, la cui consegna in Europa è prevista attualmente per l’inizio del 2019, ma nel frattempo ho deciso di acquistare questa iOn come complemento (non sostituto) della mia attuale auto a benzina, che è una Opel Mokka con cambio automatico.

Come mai ho scelto proprio questa mini-auto elettrica fra le tante e ho rinunciato per esempio alla Opel Ampera-e che avevo provato con molto piacere? Per due motivi fondamentali: prezzo e (non ridete) larghezza.


Prezzo


Le auto elettriche sono dannatamente care, per ora. Una piccola iOn nuova costa oltre 30.000 euro in Italia (ma 22.500 CHF, ossia 19.330 €, in Svizzera). Usata, però, si trova a molto meno (come nel mio caso, presso Robbiani Automobili ad Agno). Questo mi consente di acquisire esperienza nell’uso di un’auto elettrica (pianificazione dei viaggi, procedure di ricarica nei punti pubblici, tecnica di guida, invecchiamento delle batterie, paranoie altrui) senza svenarmi, prima di decidere se imbarcarmi nella spesa notevole di una berlina elettrica nuova a lunga autonomia di qualunque marca, e tenendo l’auto a benzina per qualunque emergenza e per i viaggi lunghi.

Parlando di prezzi, la suddetta Ampera-e è salita di prezzo rispetto a quando l’ho provata. Già non era a buon mercato, ma ora costa cinquemila franchi in più (52.700 CHF, circa 46.000 euro).


Larghezza


Nel mio caso personale le dimensioni sono un fattore decisivo. La iOn è “larga” 148 centimetri (179 a specchietti aperti), per cui ha un grandissimo vantaggio: passa agevolmente nello stretto vialetto a S che conduce alla porta d’ingresso del Maniero, mentre l’auto che ho ora ci passa a fatica e rischio costantemente di graffiarla nella mia maldestrezza. Una Tesla Model 3, larga due metri e lunga 4,7, nelle mie mani in quel vialetto sarebbe spacciata.

Con la iOn arrivo direttamente davanti alla porta di casa con la spesa, per esempio, invece di fare ripetuti pellegrinaggi con le borse su e giù per le scale dalla rimessa dell’auto. Problema da primo mondo, forse, ma percorrere le scale quando sono ghiacciate senza potersi reggere al corrimano è come giocare alla roulette russa, e in più da qualche tempo ho una questioncella di salute che mi obbliga a non sforzare la schiena (noi rettiliani longitipi siamo un po’ troppo fragili per la gravità terrestre).

Scegliendo specificamente un’auto stretta elettrica, inoltre, non emetto gas di scarico e rumore, che darebbero fastidio ai vicini davanti ai quali devo transitare.

Le ridotte dimensioni della iOn saranno utili anche quando mi arriverà la Tesla che ho prenotato, perché anche la Model 3, nonostante le apparenze, non è affatto una macchina piccola (come dicevo, è larga due metri e lunga 4,7). Anzi, la Model 3 è decisamente ingombrante per le strade e i parcheggi stretti di Lugano: lo so perché l’ho sperimentato a fondo guidando una Model S, che è larga come la Model 3 e 30 cm più lunga, e non è un’esperienza che rifarei (e probabilmente non rifarebbe il concessionario Tesla ticinese che coraggiosamente me l’ha prestata): i sensori di parcheggio della Model S sono meravigliosamente precisi e chiari, con la loro curva grafica delle distanze e l’indicazione in centimetri, per cui l’ho restituita intatta, ma una manovra di parcheggio chirurgica non è il tipo di stress che voglio subire ogni volta che vado in città.

La larghezza è un fattore importante anche perché i miei due posti auto coperti nella rimessa del Maniero sono piuttosto stretti, per cui una iOn e una Tesla ci stanno, ma un’auto normale e una Tesla decisamente no. Non senza imparare a uscire dal bagagliaio o fare una cura dimagrante drastica.

La questione degli ingombri di una Tesla non è una magagna solo mia, fra l’altro. So che alcuni Teslari semplicemente si rifiutano di usare alcuni parcheggi locali perché rigano puntualmente i cerchioni sui cordoli e toccano con il muso sulle rampe troppo ripide e mal raccordate, a causa della larghezza e lunghezza dell’auto. La Dama del Maniero ed io abbiamo preso l’abitudine di commentare “fallo con una Tesla!” ogni volta che riusciamo a infilare la nostra auto attuale in una strada stretta o in un autosilo che sembra concepito per le macchine degli anni Settanta.

In altre parole, una city car compatta mi serve, se mai vorrò avere una qualunque auto elettrica a lunga autonomia (Tesla o altro), e sarà utile per molti, molti anni.


Autonomia, prestazioni e costi


La iOn ha una batteria da 16 kWh che le dà un’autonomia realistica di circa 100 km (Peugeot dice che “può arrivare a 150 km”, ma in condizioni assolutamente ideali).

Per alcuni mesi ho tenuto traccia dei miei spostamenti in auto e ho visto che produco circa il 20% del mio chilometraggio in tragitti di meno di 100 km: faccio tanti giri nelle vicinanze del Maniero e poi ogni tanto (circa una volta la settimana) faccio un viaggio lungo oltre 100 km. Questo vuol dire che userò piuttosto spesso l’auto elettrica, riducendo leggermente il mio inquinamento e la mia spesa di carburante, che attualmente è di 0,11 CHF/km (0,095 €/km).

Fra l’altro, se avessi un’auto con un‘autonomia di 350 km (come la Model 3), potrei fare in elettrico circa l’80% dei miei spostamenti senza neanche ricaricare in viaggio e praticamente il 100% se accettassi di ricaricare in giro.

Piccola parentesi: prendere nota diligentemente dei propri chilometraggi in auto è un esercizio illuminante a prescindere dall’intenzione o meno di acquistare un’auto elettrica, perché permette di capire meglio come ci si sposta e quanto costano questi spostamenti. Ve lo consiglio in ogni caso.

Tornando alla iOn, l’auto è subito piaciuta sia a me, sia alla Dama del Maniero: accelerazione vivace (come è normale nelle auto elettriche, nonostante i 1200 kg di peso), splendido silenzio, cruscotto semplice e intuitivo, sedili comodi persino per uno spilungone come me, nonostante le dimensioni ridotte dell’auto (è una quattro posti), e un bagagliaio ottimale per portare la spesa della settimana se si ribaltano i sedili posteriori.


Sì, lo so, è un’auto di sette anni fa e di certo non rispecchia il top della tecnologia attuale. Non ha i sensori di parcheggio (ma è piccolissima e ben vetrata, per cui non servono granché). Non ha l’app di gestione e quindi non la si può preriscaldare da remoto e non si può ricevere sullo smartphone la notifica dello stato di carica. Non ha nessuna forma di guida assistita o software aggiornabile come le Tesla: è un’auto elettrica a corto raggio e basta.

Ma al tempo stesso:
  • è in ottime condizioni (al momento della consegna aveva fatto 25.421 km, usata solo dal concessionario, e per la vendita ha appena superato il controllo tecnico ufficiale; unica incognita è la batteria, che ha sette anni ed è quasi a fine garanzia del costruttore);
  • ha comunque climatizzatore, sedili riscaldati, airbag, ASR ed ESP, specchietti retrattili elettricamente e altre amenità;
  • consuma pochissimo;
  • mi costa una sciocchezza di assicurazione (circa 50 CHF/anno, perché è inclusa nell’assicurazione dell’auto principale grazie al metodo svizzero delle targhe trasferibili);
  • ha una tassa di circolazione trascurabile di 71 CHF/anno (grazie a questi dati: codice di emissione A24; prima immatricolazione 3/2011; fascia di emissione CO2 da 0 a 30 g/km; peso totale 1450 kg; potenza 49 kW);
  • è modificabile con un banale cambio di mascherina per migliorarne le prestazioni in rigenerazione (2018/08: fatto!);
  • le si possono aggiungere accessori da geek per monitorare meglio le sue funzioni. 

Ma come dicevo, soprattutto in questo momento mi risolve un problema di salute e di mobilità personale e mi offre la possibilità di fare un primo, cauto passo elettrico senza rischiare troppo.

Cauto, sì. Perché devo ammettere che un conto è discutere sulla carta di auto elettriche o viaggiare su quelle altrui, e un altro è passare all’atto pratico: emergono mille magagnine, angosce, dubbi e incognite che sembrano banali fino al momento in cui devi mettere mano al portafogli o mettere le mani sul volante, oppure devi spiegare ai curiosi o ai vicini di casa che no, le auto elettriche non prendono fuoco spontaneamente più di quelle a benzina (semmai è vero il contrario), e che il fatto che la ventola si accenda di notte durante la carica non vuol dire che l’auto stia per esplodere o abbia preso vita propria. Ve le racconterò prossimamente.


Prima cosa: come e dove la carico?


Il bello di un’auto elettrica è che puoi partire da casa sempre col “pieno”, a patto di predisporre una presa per la ricarica in garage. Questo riduce moltissimo l’inconveniente dell’autonomia limitata e dei tempi di ricarica: è sempre al massimo ogni mattina, e tanto l’auto passa tutta la notte in garage e quindi può metterci anche parecchie ore a caricare senza che la cosa causi alcun problema. Portarla ai punti di ricarica pubblici, dove il “pieno” di una iOn richiede circa mezz’ora, sarebbe invece molto scomodo e ridurrebbe parecchio il risparmio di denaro (la corrente dei punti pubblici costa circa il triplo di quello che mi costa a casa).

Ho quindi deciso di predisporre un punto di ricarica adeguato in garage e l’elettricista l’ha completato proprio oggi: include una presa da 240 V AC 16A per la iOn e una presa industriale per esterni da 400V 16A (3P+N+T), per la futura Tesla (o altra auto elettrica a lunga autonomia), con relativo salvavita nel locale dei contatori. Costo complessivo dell’impianto: circa 760 CHF (660 €). Non ho dovuto cambiare il contatore perché quello standard svizzero eroga sia i 240 V, sia i 400 V trifase, e il mio contratto eroga fino a 25 ampere (quindi, se ho fatto bene i conti, regge ben oltre 10 kW).

Va detto che in queste cose la differenza rispetto all’auto tradizionale si sente: è facile perdersi nel labirinto dei vari tipi di connettori e dei vari tipi di corrente con le relative unità di misura, e devi farti installare un “distributore” in casa. Se non siete pratici di kilowatt, kilowattora, volt e ampere, fatevi assistere e consigliare da un elettricista o da una persona che ha già un’auto elettrica. Ringrazio in particolare Paolo P. e Tiziano di Teslari.it per tutti i loro suggerimenti, che mi hanno fatto risparmiare parecchio.

Parlando di complicazioni, la iOn ha due connettori elettrici: un Tipo 1 (SAE J1772) e un CHAdeMO. Il CHAdeMO serve per la carica rapida (80% in mezz’ora, a 330V CC) presso i punti di ricarica commerciali. Il Tipo 1 è per la carica lenta in corrente alternata, a casa o presso i punti di ricarica commerciali.

Connettore Tipo 1. Notate lo sportello doppio.
Connettore CHAdeMO. Sportello doppio anche qui.


L’auto è fornita con un cavo di carica lenta dotato di regolatore, che a un capo si collega al connettore Tipo 1 della iOn e ha una spina standard da 220V all’altro capo. Questo cavo permette di caricare la iOn completamente (cosa che capita raramente) in circa 7 ore su qualunque presa da 10A assorbendo 2,3 kW: un carico ben gestibile insieme agli altri apparecchi domestici, perlomeno in Svizzera (tanto per dire, il mio bollitore per il tè consuma 2,4 kW); so che in Italia molti hanno contatori da 3 kW per risparmiare e questo potrebbe essere un problema, ma è un limite solo italiano che nel resto d’Europa non c’è (e, mi dicono, è superabile anche in Italia con una spesa non eccessiva).

Sette ore possono sembrare un’eternità, ma provate a pensare quanto tempo passa in garage la vostra auto ogni notte. Appunto.

[2018/09/11: Fra l’altro, ho visto che una carica completa (da zero) della batteria è un caso molto raro, perché non capita quasi mai di arrivare a casa “in riserva” e quindi si tratta quasi sempre di “rabbocchi” che durano meno delle sette ore di una carica completa. Di solito arrivo a casa con 3-4 kWh residui (oltre alla riserva d’emergenza) e ci metto meno di sei ore ad arrivare al “pieno”.]

Cavo con regolatore e connettore Tipo 1.

Spina svizzera tripolare.


Ho già chiesto tempo addietro i permessi condominiali e il mio contratto di fornitura regge tranquillamente un’auto sotto carica oltre agli altri elettrodomestici. Non ho fatto nessuna modifica al contratto, visto che eroga già anche corrente a 400 V (in Svizzera le lavatrici e le piastre di cottura elettriche solitamente sono a 400 V trifase). Dalle 22 alle 6, inoltre, ho una tariffa elettrica agevolata (0,146 CHF/kWh, pari a 0,126 €/kWh, tutto compreso).

Calcolando un po’ di margine per le inefficienze di ricarica, un “pieno” da 100 km dovrebbe costarmi 2,7 CHF (2,34 €), pari a 0,027 CHF/km (0,023 €/km) contro i già citati 0,11 CHF/km (0,095 €/km) della mia auto a benzina. Un quarto del costo della benzina sembra troppo bello per essere vero: staremo a vedere [2018/09/11: è vero].

Voglio adottare un approccio molto prudente, pratico e di minimo disagio, per cui non intendo usare la iOn per allontanarmi dal Maniero Digitale tanto da dovermi fermare a ricaricare. In pratica, con quest’auto andrò a non più di una quarantina di chilometri da casa (distanza più che sufficiente per quasi tutti i miei spostamenti quotidiani: radio, spesa, lezioni nelle scuole). So che potrei osare qualcosina di più, probabilmente, ma non intendo rischiare o farmi affliggere dalla famosa range anxiety (ansia da autonomia) tipica dei conducenti di auto elettriche pure: per qualunque viaggio troppo lungo posso sempre usare l’auto a benzina. Di conseguenza, praticamente tutte le mie ricariche saranno alla presa di casa, dove mi costano meno. E la carica lenta allunga la vita della batteria. [2018/09/11: alla fine ho ceduto e ho iniziato a fare anche spostamenti ben più lunghi].

Per sicurezza e per fare un po’ di esperienza, comunque, mi sono informato sui punti di ricarica veloce locali disponibili (sono parecchi): mi sono procurato la app di Emoti (gestore locale in Canton Ticino), la app Lemnet e la mappa dei punti di ricarica. Ho anche aperto online un account con Swisscharge.ch, che offre 30 CHF di credito ai nuovi iscritti e un’app che permette di trovare i punti di ricarica affiliati e di addebitarne il costo.

A differenza delle auto a motore termico, che hanno distributori ovunque e hanno metodi di pagamento standardizzati (contanti o carta di credito), i punti di ricarica elettrici sono ancora abbastanza rari e i metodi di pagamento sono una giungla (tessere, app e altro ancora); in più bisogna sperare che abbiano il connettore giusto e che siano liberi. Le Tesla semplificano tutto questo grazie alla loro lunga autonomia, al connettore unico e a una propria rete di punti di ricarica veloce (i Supercharger, da 120 kW), ma questa semplicità si paga. Vi racconterò le mie esperienze di ricarica man mano che mi capiteranno.


Seconda cosa: come la guido?


La iOn non è recente, ma supporta comunque il one-pedal driving, ossia la guida a pedale singolo: è facile e divertente come guidare la macchinina dell’autopista, specialmente per chi (come me) si è abituato al cambio automatico sulle auto a motore termico.

La frizione non c’è, ovviamente (non c’è neanche il cambio, perché i motori elettrici non ne hanno bisogno), e inoltre se si rilascia l’acceleratore l’auto rallenta rapidamente (anzi, piuttosto drasticamente) perché entra in funzione la rigenerazione: il motore agisce come una dinamo e converte l’energia di movimento in energia elettrica, ricaricando le batterie e aumentando l’autonomia. In pratica il pedale del freno (tradizionale) non si tocca quasi mai, specialmente se si impara ad anticipare i momenti in cui sarà necessario rallentare. Così si evita di buttare via energia e di inquinare disperdendo le particelle delle pastiglie dei freni (come avviene nelle auto a motore termico).

A parte questo, la iOn si guida come qualunque auto col cambio automatico: ha un selettore a leva per la marcia avanti (D), la retromarcia (R), il folle (N) e il parcheggio (P).



Per il resto, la sensazione di guida è abbastanza normale, a parte il silenzio totale quando si è fermi, per esempio al semaforo, che può creare inquietudine finché non ci si abitua. Bisogna inoltre tenere conto che l’auto praticamente non fa rumore a bassa velocità e quindi è importante assicurarsi che pedoni e ciclisti siano consapevoli della presenza dell’auto.

Le salite, anche lunghe, vengono affrontate senza alcuna difficoltà e le discese offrono la possibilità di ricaricare parzialmente le batterie invece di consumare i freni.

In autostrada si raggiunge senza problemi la velocità massima consentita in Svizzera (120 km/h) e si ha un’accelerazione molto godibile e rassicurante, anche se siamo lontani (ovviamente) dai valori brucianti di una Tesla. L’importante è ricordarsi di premere a fondo subito l’acceleratore, in modo che l’auto “capisca” che si vuole accelerare rapidamente, e tenere conto che queste accelerate costano molto in termini di autonomia.

Questo, per ora, è tutto. Mi ero ripromesso che quella attuale sarebbe stata la mia ultima auto fossile e così è stato. Ora sono proprietario di un’auto elettrica: piccola, semplice, con autonomia limitata, ma elettrica. Inquino meno da subito.

Certo, non pretendo assolutamente che sia un’auto adatta a tutti o che tutti la debbano comperare, ma a me funziona. Nei prossimi articoli vi racconterò gioie e dolori di questo modo nuovo di pensare la mobilità sostenibile.


Questo articolo non è sponsorizzato dal fabbricante o dal concessionario dell’auto (che ho acquistato di tasca mia) e vi arriva gratuitamente e senza pubblicità grazie alle donazioni dei lettori. Se vi è piaciuto, potete incoraggiarmi a scrivere ancora facendo una donazione anche voi, tramite Paypal (paypal.me/disinformatico), Bitcoin (3AN7DscEZN1x6CLR57e1fSA1LC3yQ387Pv) o altri metodi. Fonti: e-station.store.it, E-station.it, EV-database.uk.

Le ricerche di immagini in Google ora sono più facili

SearchReSearch ha pubblicato una bella analisi della novità che si trova da qualche tempo in Google Immagini: la serie di rettangoli colorati, contenente una o più parole, appena al di sotto della casella di ricerca. SearchReSearch spiega che si chiamano chip (non nel senso di “patatina”, ma di “fiche da gioco”) e sono dei suggerimenti per affinare la ricerca.

Se cliccate su di uno di questi chip, diventa bianco, cambia posizione spostandosi a sinistra e i risultati di ricerca proposti si aggiornano per tenere conto delle parole presenti nel chip che avete selezionato. Potete cliccare di nuovo sui chip già cliccati per disattivarli.

Questi suggerimenti sono molto pratici e spesso offrono spunti che non verrebbero in mente facilmente per migliorare i criteri di ricerca delle immagini, ma occorre fare attenzione a un equivoco potenziale: il colore dei chip non c’entra nulla con il colore delle immagini corrispondenti ma serve solo per separarli visivamente in categorie concettuali, come nello screenshot qui sopra.

Provate a pasticciarvi un po’ e scoprirete spesso ispirazioni originali per trovare più facilmente e rapidamente il tipo d’immagine che stavate cercando.

Tutto chiaro, insomma, tranne una cosa: non capisco perché le parole che Google Immagini propone nei chip quando cerco il mio nome e cognome sono bufale, blogger, delfini, incontro, festival, trento, 2011. Lusingato dell’accostamento, per carità, ma che c’entrano i delfini?

Aziende aiutano stalker a violare le vite altrui, vengono violate

Credit: spymasterpro.com.
Mobistealth e Spymaster Pro sono due aziende che producono e vendono quello che si chiama stalkerware, ossia software per spiare le persone.

Si tratta di prodotti per Android e iPhone che possono intercettare le conversazioni fatte su Facebook e su vari altri sistemi di messaggistica, localizzare la vittima grazie al GPS e (nel caso di Mobistealth) anche accendere a distanza il microfono dello smartphone sorvegliato, come racconta Motherboard. Basta installarle di nascosto sullo smartphone della vittima oppure procurarsi le sue credenziali iCloud.

Esistono usi legittimi di questo tipo di software, per esempio per la sorveglianza di bambini, persone malate o vulnerabili, ma il grosso del mercato è nella sorveglianza coniugale o dei partner adulti senza il loro consenso: un atto illegale in quasi tutti i paesi.

Di recente queste due aziende di sorveglianza sono state sorvegliate, attaccate e saccheggiate di nascosto: gigabyte di dati dei clienti, compresi i loro messaggi intercettati, sono stati forniti a Motherboard, che li ha verificati. Mobistealth e Spymaster Pro non hanno risposto alle richieste di commento.

Qualcuno si sta chiaramente vendicando di chi fornisce questi strumenti di stalking. A queste due è andata molto male, perché ora i dati dei loro clienti (e quindi i nomi degli stalker) sono stati resi pubblici, con tutto quello che ne consegue, ma a un’altra società dello stesso genere, Retina-X, è andata peggio: pochi giorni fa è stata attaccata e dai suoi server sono state cancellate tutte le foto rubate alle persone sorvegliate, che oltretutto erano facilissime da ottenere. Le era già successo un anno fa, ma chiaramente la lezione non è stata imparata.

Se temete che qualcuno vi voglia sorvegliare con stalkerware di questo genere, ecco alcuni consigli di base:

  • Non lasciate mai incustodito il vostro smartphone e non lasciatelo maneggiare da nessuno, partner e figli compresi.
  • Non installate app che non conoscete, specialmente giochi.
  • Proteggete il vostro account iCloud con una password molto robusta e cambiatela spesso.
  • Non dimenticate che gli smartphone sono vulnerabili, mentre i telefonini tradizionali sono praticamente inattaccabili. Valutate se potete fare a meno di uno smartphone e accontentarvi di telefonare e mandare SMS.

Le parole di Internet: metadati (e cosa se ne fa WhatsApp)

I metadati sono le informazioni che descrivono dei dati. Per esempio, i metadati di un documento Word possono essere la data e l’ora di creazione, il nome dell’autore e così via. I metadati di una fotografia possono essere il tipo di fotocamera, i parametri di scatto (tempo e diaframma), la data e l’ora dello scatto e le coordinate geografiche del luogo nel quale è stata fatta la foto.

Di solito i metadati sono considerati poco importanti, specialmente quando c’è di mezzo la crittografia. Prendete per esempio WhatsApp, una delle più diffuse app che offre a tutti gli utenti la cosiddetta crittografia end-to-end: in altre parole, i messaggi di WhatsApp sono cifrati e indecifrabili dal momento in cui lasciano il vostro smartphone al momento in cui arrivano su quello del destinatario (o quelli dei destinatari), e neanche WhatsApp può leggerli.

Questo crea in molti utenti una rischiosa illusione di sicurezza e anonimato che è meglio smontare, in modo da usare correttamente questi servizi di messaggistica tenendo conto dei loro limiti.

Il problema è spiegare come e quanto possono essere sfruttati i metadati: l’obiezione tipica è che se il contenuto di un messaggio o di una conversazione è segreto, non importa se qualcuno ha i suoi metadati. Per esempio, WhatsApp ha pieno accesso ai metadati dei messaggi degli utenti, ma cosa vuoi che se ne faccia? Sa che Mario e Rosa si sono parlati, ma non sa cosa si sono detti, no?

Un primo modo per spiegare meglio l’importanza dei metadati è chiamarli in maniera comprensibile. Come suggerisce Edward Snowden, provate a sostituire metadati con informazioni sulle attività.



Un altro modo è proporre degli esempi che facciano emergere il valore dei metadati, come fa la Electronic Frontier Foundation qui. Cito e traduco adattando al contesto italofono:

  • Loro sanno che hai chiamato una linea erotica alle 2:24 del mattino e hai parlato per 18 minuti. Ma non sanno di cosa hai parlato.
  • Loro sanno che hai chiamato il numero per la prevenzione dei suicidi mentre eri su un ponte. Ma l’argomento della conversazione resta segreto.
  • Loro sanno che hai parlato con un servizio che fa test per l’HIV, poi con il tuo medico e poi con il gestore della tua assicurazione sanitaria. Ma non sanno di cosa avete discusso.
  • Loro sanno che hai chiamato un ginecologo, gli hai parlato per mezz’ora, e poi hai chiamato il consultorio locale. Ma nessuno sa di cosa avete parlato.

In concreto, quali metadati (o meglio, quali informazioni sulle attività) raccoglie WhatsApp?

Secondo Romain Aubert (freeCodeCamp), WhatsApp accede a tutti i numeri della rubrica del vostro smartphone (vero: è nelle FAQ), e lo fa “in modo ricorrente” e includendo “sia quelli degli utenti dei nostri Servizi, sia quelli dei tuoi altri contatti” (fonte). WhatsApp inoltre raccoglie

il modello di hardware, informazioni sul sistema operativo, informazioni sul browser, l’indirizzo IP, informazioni sulle reti mobili compreso il numero di telefono, e gli identificatori del dispositivo. Se usi le nostre funzioni di localizzazione... raccogliamo informazioni sulla localizzazione del dispositivo [...]

(dalla privacy policy di WhatsApp)

Oltre a fare questa raccolta massiccia di metadati che riguarda circa un miliardo e mezzo di persone (dati Statista), per cui quello che non gli date voi se lo può sicuramente prendere dai vostri amici e contatti che usano l’app, WhatsApp ha un altro limite nell’uso della crittografia: il contenuto dei messaggi (testi, foto, conversazioni) viene conservato sul dispositivo senza protezioni, per cui se qualcuno ha accesso al vostro smartphone può leggere tutto, e questo è piuttosto ovvio: meno ovvio è che se qualcuno mette le mani sullo smartphone di uno qualsiasi dei vostri interlocutori può spiare la conversazione. Quindi la vostra riservatezza è determinata dal più sbadato dei vostri amici.

C’è anche la questione dei backup di WhatsApp, se li avete attivati: se il vostro smartphone è un Android, il backup (su Google Drive) non è cifrato e quindi è recuperabile. Se è un iPhone, invece, il backup (su iCloud) lo è.

Se preferite un’alternativa che raccolga molti meno metadati, c’è Signal: è open source, è gratuito (sostenuto dalle donazioni), è slegato dalle logiche di sorveglianza commerciale e raccoglie soltanto il vostro numero di telefonino e il giorno (non l’ora) della vostra ultima connessione ai loro server.

L’unico difetto di Signal è che tutti usano invece WhatsApp, ed è inutile avere un’app blindatissima se poi non la usa nessuno dei vostri amici. Però potreste provare a convincerli a usare entrambi.

Un’altra telecamera Internet vulnerabile: MiSafes Mi-Cam

Le telecamerine di sorveglianza IP, quelle che si collegano tramite Wi-Fi e si usano per tenere d’occhio bambini, animali o ambienti domestici e di lavoro, si rivelano ancora una volta dei colabrodo di sicurezza. Chi ha una Mi-Cam di MiSafes, per esempio, in vendita in negozi online come Amazon, si espone al rischio che chiunque gli possa guardare in casa, ascoltare le conversazioni e addirittura mettersi a parlare con chi è in casa. Se l’idea che uno sconosciuto parli al vostro bambino nella sua cameretta non vi entusiasma, staccate questa telecamera.

Secondo la società austriaca di sicurezza informatica SEC Consult, infatti, le telecamerine Mi-Cam di MiSafes (e tutte quelle analoghe con altri marchi) hanno una serie di difetti gravissimi di progettazione. Hanno, per esempio, una password di amministrazione predefinita di quattro cifre. Cosa ancora più grave, sono interrogabili via Internet semplicemente modificando una singola richiesta HTTP (in pratica basta cambiare i parametri del link di collegamento).

Questo significa che uno sconosciuto, usando soltanto una normale connessione a Internet, può guardare, ascoltare e persino parlare attraverso queste telecamere.

La cosa peggiore, però, è che il fabbricante non solo non rilascia aggiornamenti correttivi, ma non risponde neanche alle segnalazioni di vulnerabilità dei suoi prodotti. L’unica cosa che può fare chi ha comprato questa telecamera è buttarla via oppure usarla sapendo che le immagini e l’audio sono pubblici.


Fonti aggiuntive: Naked Security.

2018/02/22

Fake news scientifiche

Ultimo aggiornamento: 2018/02/22 14:20.

Capita spesso di sentir citare nei media qualche notizia un po’ curiosa basata su una ricerca scientifica. Gli scienziati hanno scoperto per esempio che il cioccolato fondente fa bene al cuore; altri scienziati hanno trovato che il cioccolato fa male; insomma, si sente di tutto e il suo contrario, eppure ogni volta le notizie sono basate su studi scientifici. E se si va a cercare gli studi citati, si scopre che esistono davvero. Come è possibile?

Spesso si tratta di interpretazioni giornalistiche maldestre e troppo sensazionaliste di articoli scientifici di per sé corretti, ma un’altra spiegazione è arrivata di recente grazie a una dimostrazione particolarmente memorabile. Anche se da fuori magari la differenza non è ben visibile, non tutte le riviste scientifiche hanno la stessa qualità: ci sono quelle serie e ci sono quelle che di scientifico in realtà hanno ben poco e sono soltanto contenitori dai titoli altisonanti nei quali chiunque può pubblicare qualunque cosa senza che vi sia il minimo controllo di scientificità.

Prendete per esempio la rivista American Research Journal of Biosciences. Suona autorevole e scientifica, ma un biologo è riuscito recentemente a farsi accettare e pubblicare da questa rivista un articolo [Rapid genetic and developmental morphological change following extreme celerity, ora rimosso] che descriveva dei presunti effetti biologici delle velocità estreme: allergie all’acqua, mutazioni genetiche e morfologiche che però non influivano sulla fertilità. Uno degli autori dell’articolo era il dottor Lewis Zimmerman.

Se conoscete Star Trek, state già ridendo: infatti Zimmerman è il nome del medico di bordo della serie Star Trek Voyager e l’articolo non è altro che una riscrittura, con lessico pseudoscientifico, di Threshold (Oltre il limite) una delle puntate più imbarazzanti di questa serie, nella quale alcuni membri dell’equipaggio di un’astronave viaggiano a velocità altissime, mai raggiunte prima, e di conseguenza si trovano trasformati progressivamente in una sorta di viscide salamandre spaziali che si accoppiano e si riproducono.

Le “salamandre spaziali” di Star Trek: Voyager.

Il biologo (quello vero) è riuscito a farsi pubblicare dalla rivista tutta questa storia semplicemente pagando cinquanta dollari. Nessuno l’ha verificata. E non è finita: anche tre altre riviste “scientifiche” hanno accettato l’articolo-burla, ma non sono arrivate al punto di pubblicarlo.

Queste pseudoriviste scientifiche si chiamano in gergo predatory journal, ossia “riviste predatorie”: esistono soltanto per incassare soldi dai ricercatori che hanno fame di essere pubblicati e fanno, in sostanza, fake news in campo scientifico. Ne esistono parecchie, e per fortuna esistono anche esperti che le smascherano, come Jeffrey Beall, bibliotecario e ricercatore alla University of Colorado, che gestisce un elenco online di questi journal, utilissima ai giornalisti per evitare di diffondere notizie false apparentemente avvalorate da una pubblicazione scientifica.

Per sapere se un articolo scientifico è attendibile, non basta insomma che sia pubblicato su una rivista dal nome scientifico: serve che la rivista goda di buona reputazione, guadagnata sul campo. Questa reputazione si misura con il cosiddetto impact factor o fattore di impatto: una sorta di punteggio basato sul numero di citazioni ricevute altrove dagli articoli pubblicati nella rivista. Più è alto, più la rivista è considerata attendibile e credibile. Le classifiche degli impact factor sono facilmente consultabili su Internet. Non vi stupirà, credo, scoprire che la rivista che ha pubblicato la burla delle salamandre di Star Trek ha un impact factor che vale esattamente zero.


Aggiornamento 1:
se volete leggerlo e godervelo, l’articolo Rapid genetic and developmental morphological change following extreme celerity è tuttora presente negli archivi dell’Austin Journal of Pharmacology and Therapeutics, ed è firmato da Paris T, Kim H, Torres B, Ocampa K, Janeway K e Zimmerman L.

Aggiornamento 2: Ruggio81 e altri mi segnalano correttamente che il medico olografico si chiama Joe Zimmerman, mentre Lewis Zimmerman è il nome del suo progettista. Ho corretto l’articolo per tenerne conto.


Questo articolo è basato sul testo preparato per il mio servizio La Rete in 3 minuti per Radio Inblu del 22 febbraio 2018. Fonti aggiuntive: Iflscience, Science Alert, Space.com.

2018/02/21

L’astronauta, la giornalista e l’intervista fantasma. Storia di ordinario giornalismo

Ultimo aggiornamento: 2019/04/04 21:40.

Ne avrete sentito parlare: una testata giornalistica ha pubblicato un’intervista all’astronauta Samantha Cristoforetti, che ha messo online una dettagliata e garbata smentita pubblica (2019/04/04: non più online, visto che Google+ ha chiuso, ma archiviata qui su Archive.is e riportata in fondo al presente articolo), nella quale ha dichiarato categoricamente di non aver mai rilasciato quell’intervista, ha scelto di non fare il nome della testata o della giornalista coinvolta e ha chiesto che venisse pubblicata una rettifica, mettendosi comunque a disposizione per un‘intervista autentica.

Risultato: la testata ha rimosso l’intervista e la sua direttrice ora minaccia querela a “chiunque dica che il mio giornale ha inventato un’intervista”.

Internet non è garbata, non dimentica e non perdona, per cui le identità della testata e della giornalista sono emerse in men che non si dica e sono ormai note, quindi non ricorro a inutili omissioni: la direttrice è Daniela Molina, la testata è Donnainaffari.it, l’intervista era qui (link non più funzionante) e la giornalista autrice dell’intervista è Laura Placenti.

L’intervista è stata ripescata dalla cache di Google e salvata su Archive.is, dove potete leggerla per farvene un’opinione personale: ve lo consiglio, perché va messa a confronto con la risposta della Cristoforetti. Ho incluso entrambe in coda a questo articolo, caso mai dovessero sparire anche da Archive.is.

A questo punto la direttrice si è palesata su Facebook con nome e cognome, nel gruppo Giornalisti italiani su Facebook, minacciando appunto querela. Raccomando di leggere anche tutta la sua versione degli eventi, che riporto qui sotto come screenshot per chi non è iscritto a Facebook e non lo vuole frequentare:



Non solo: la direttrice della testata ha accusato Samantha Cristoforetti di aver “VOLUTO levare il lavoro” alla giornalista e ha affermato che “evidentemente era la Cristoforetti a volere tutto questo rumore”. Certo, perché quando vai nello spazio e lavori per tornarci non hai di meglio da fare che attaccare una giornalista.


Tutto indica invece che Donnainaffari.it ha pubblicato un’intervista palesemente, sfacciatamente, maldestramente inventata e piena di errori. Quel “Sally Raid” al posto di Sally Ride (manco fosse un insetticida), quel “Yuri Gagarin nel 1961, fu il primo uomo a uscire dall’orbita terrestre”, quel “il primo uomo Neil Amstrong [sic] mise il primo piede nello Spazio”, il nome sbagliato della figlia di Samantha e tante altre perle giornalistiche dello stesso calibro sono, per essere molto educati, castronerie da matita blu.

Sì, direttrice Molina, mi quereli pure perché oso dire le cose come stanno: l’intervista pubblicata dalla testata di cui lei è responsabile è stata inventata. Questo è il mio parere professionale basato sui fatti, come giornalista e come persona che conosce Samantha Cristoforetti da anni e sa che non direbbe mai e poi mai quelle banalità che le vengono attribuite (diventare mamma sarebbe “una nuova avventura emotiva che ti fa volare oltre l’infinito”). Basta leggere una sua qualunque intervista autentica per rendersene conto. Non lo farebbe neanche sotto minaccia di tortura tramite poesia Vogon.

Con sublime quanto involontaria autoironia, fra l’altro, Donnainaffari.it si vanta che “A differenza dei comuni siti di informazione, infatti, noi siamo obbligati dalla Legge e dai Codici deontologici prescritti dall’Ordine dei Giornalisti a controllare la veridicità di ogni articolo pubblicato” (copia su Archive.is). Beh, si è visto come funziona questo controllo di veridicità.

Pubblicare interviste inventate, attribuendo agli intervistati scempiaggini che non hanno mai detto, è un malcostume diffuso che affossa la già traballante credibilità del giornalismo. In un momento in cui si parla tanto di fake news, la scelta di Laura Placenti di falsificare un’intervista è una vergogna per la categoria: è un tradimento del patto sociale con i lettori. E la scelta della sua direttrice di minacciare querela a chi osa dire che il re è nudo e di accusare un’astronauta in questo modo è un atto di arroganza anche peggiore.

Non è certo questo il giornalismo che ci può salvare dalle fake news.


Nota tecnica


Durante le mie ricerche per questo articolo ho notato una particolarità nel testo della (presunta) intervista: l’uso, da parte di Laura Placenti, della curiosa grafia errata “Svletana Savitzakaia” al posto di “Svetlana Savitzkaya” per far citare alla Cristoforetti la prima donna al mondo che ha compiuto un’attività extraveicolare (o “passeggiata spaziale”). Notate il refuso “Svletana”, con la L prima della T.

In tutta Internet, gli unici due altri articoli trovati da Google che contengano quella stessa grafia sono questo, sul sito Victoria50.it (copia su Archive.is), e il suo equivalente in spagnolo presso Victoria50.es. La versione francese scrive invece “Svetlana Savitzakaia” (T ed L sono nell'ordine giusto nel nome, ma il cognome ha sempre una A di troppo). Guarda caso, in tutti e tre questi articoli, come in quello di Laura Placenti pubblicato da Donnainaffari.it e poi rimosso, c’è anche lo stesso errore sul cognome dell’astronauta Sally Ride, che viene scritto erroneamente Raid.

Non faccio congetture su quale legame vi possa essere fra questi articoli e quello di Laura Placenti, ma mi pare molto improbabile che due errori così specifici vengano ripetuti su Donnainaffari.it per puro caso.

I siti Victoria50.it, .es e .fr sono di proprietà della Procter & Gamble, concetto ribadito anche qui, e contengono soltanto pubblicità di prodotti di quest’azienda. Si tratta dunque di siti pubblicitari travestiti da siti d’informazione. E che informazione: notate, per esempio, che le presunte autrici dei contenuti si presentano come “Noi cinque” anche se la foto mostra solo quattro persone (anche nella versione spagnola), ma soprattutto che le stesse donne si chiamano Maria, Laura, Lisa, Anna e Carla nella versione italiana, però sono Beatriz, Isabel, Carmen, Raquel e Patricia in quella spagnola e sono Anne, Béatrice, Catherine, Nathalie e Patricia in quella francese. Fake news industriale, insomma.


Noi cinque, che siamo quattro.



Aggiornamento: 2018/02/22


Nei commenti, Marco Alici segnala una ulteriore, sorprendente coincidenza. Questa è una risposta che Laura Placenti attribuisce, con tanto di virgolette, a Samantha Cristoforetti nell’asserita intervista ora rimossa:

Sempre nel 1984 la prima donna americana a svolgere un’attività extra veicolare fu Kathryn Sullivan, che successivamente volò in altre due missioni Shuttle, totalizzando 532 ore di permanenza nello spazio. Ci vollero quasi vent’anni (fino all’estate del 2007) prima che Barbara Morgan (che era stata la riserva di Christa McAuliffe) potesse volare sulla missione STS-118 e insegnare dallo spazio alcune delle lezioni proprio di Christa McAuliffe.

Screenshot:

E questa è una frase tratta dall’articolo di Victoria50.it:

Sempre nel 1984 la prima donna americana a svolgere un'attività extra veicolare fu Kathryn Sullivan, che successivamente volò in altre due missioni Shuttle, totalizzando 532 ore di permanenza nello spazio. Ci vollero quasi vent'anni (fino all'estate del 2007) prima che Barbara Morgan (che era stata la riserva di Christa McAuliffe) potesse volare sulla missione STS-118 e insegnare dallo spazio alcune delle lezioni proprio di Christa McAuliffe.

Screenshot:

Una coincidenza davvero impressionante. Attendo impaziente le spiegazioni di Daniela Molina o della sempre più silente Laura Placenti.


Aggiornamento: 2019/04/04


La recente chiusura di Google+ (con conseguente rimozione di tutti i post di Samantha Cristoforetti su questa piattaforma) ha fatto scomparire un altro tassello importante di questa vicenda. Ripubblico qui l’articolo originale e la risposta di Samantha Cristoforetti come screenshot per completezza d’informazione: entrambi gli screenshot sono cliccabili per ingrandirli.

L’articolo originale di Donnainaffari.it (13 febbraio 2018):



La risposta di Samantha Cristoforetti su Google+ (14 febbraio 2018):


Video: “Dove sono tutti quanti? Il mistero della vita extraterrestre”

Venerdì scorso ho partecipato come relatore a Un venerdì tra le stelle, a Omegna (VB), con una conferenza dedicata al celebre paradosso di Fermi a proposito della mancanza di segnali di civiltà extraterrestri. Il video integrale della conferenza è qui. Buona visione.

Fine dell’angoscia per il carattere indiano che crasha gli iCosi

Panico generale per gli utenti di iPhone, iPad, Apple Watch, Mac e Apple TV: temono di ricevere in un messaggio il temutissimo carattere della lingua telugu (mostrato qui accanto) che manda in tilt tutti questi dispositivi se viene visualizzato.

Apple ha distribuito oggi un aggiornamento di iOS (11.2.6), macOS (10.13.3), watchOS (4.2.3) e tvOS (11.2.6) che risolve il problema, ma chi ha un dispositivo Apple non aggiornabile rischia di restare indifeso a lungo. E nel frattempo imperversano da giorni i guastafeste che pensano che sia divertente pubblicare nei social network questo carattere in modo da far crashare in massa i dispositivi Apple e mettere nei guai i loro utenti.

Non è la prima volta che i dispositivi Apple o di altre marche vengono messi in crisi da una cosa apparentemente così banale come un semplice carattere tipografico, ma stavolta gli effetti sono molto seri: c’è chi lamenta di non riuscire più a riavviare il telefonino o il tablet, trasformatosi in un costoso fermacarte.

Se potete, installate gli aggiornamenti [nota personale: su un mio Mac Mini del 2014 l’installazione ha richiesto una trentina di minuti, per molti dei quali il Mac non ha dato il minimo segno di vita (schermo totalmente nero); su un MacBook Pro del 2015 ci sono voluti 12 minuti e non ci sono state inquietanti schermate nere]. Se non potete, vi conviene imparare a fare prima di tutto un po’ di prevenzione. Il passo più importante è disattivare le anteprime delle notifiche, perché la paralisi completa del dispositivo avviene quando questo famigerato carattere viene visualizzato in una notifica. Nei dispositivi Apple che usano iOS, andate quindi nelle Impostazioni, scegliete Notifiche e poi scegliete Mai nella sezione Mostra anteprime.

Fatto questo, se qualcuno vi manderà il carattere in questione e non avete (ancora) installato l’aggiornamento, perlomeno non andrà in tilt l’intero dispositivo ma si bloccherà soltanto la specifica app di messaggistica (che può essere Telegram, Snapchat, Twitter o altre ancora). Riavviarla è inutile, perché si bloccherà di nuovo. In questo caso potete provare ad accedere al vostro account di messaggistica usando un’altra versione della stessa app che sta su un computer Windows o Linux o su un dispositivo Android, e cancellare da lì la conversazione che contiene il carattere famigerato. Questi sistemi, infatti, sono immuni al problema che causa il collasso.

Nel caso dell’app Messaggi di iOS, invece, occorre andare nelle Impostazioni, scegliere Generali e poi Spazio libero: qui troverete un elenco di app che include appunto l’app Messaggi. Se la selezionate, potrete poi scegliere la conversazione da eliminare e tutto tornerà a funzionare.

Ma che succede se è troppo tardi e il vostro iPhone o iPad è completamente bloccato? Vi conviene andare da un tecnico e chiedere il suo intervento. Se siete smanettoni e coraggiosi, potete provare a mettere il dispositivo in modalità DFU e tentare un ripristino da zero di iOS. Alcuni coraggiosi hanno tentato di risolvere il problema installando la versione beta (cioè instabile) di iOS 11.3, che ha già eliminato il difetto del carattere telugu. Ma se lo fate senza fare prima un backup perderete tutti i vostri dati.

Come fa un singolo carattere a causare così tanti problemi? In realtà il simbolo è una combinazione di lettere e segni che contiene complesse istruzioni di posizionamento, per cui non è come un semplice carattere alfabetico latino: visualizzarlo richiede invece una serie di calcoli che i sistemi operativi di Apple sbagliavano, causando il tilt.


Questo articolo è derivato dal testo preparato per il mio servizio La Rete in 3 minuti per Radio Inblu del 20 febbraio 2018.

2018/02/17

Podcast del Disinformatico del 2018/02/16

È disponibile per lo scaricamento il podcast della puntata di ieri del Disinformatico della Radiotelevisione Svizzera. Buon ascolto!

2018/02/16

A bordo della Tesla spaziale c’è la Trilogia della Fondazione. Geek fino in fondo

Sì, tutti parlano del recente lancio del vettore Falcon Heavy di SpaceX perché ha usato come carico di test un’automobile (specificamente la vecchia Tesla Roadster di Elon Musk, boss di SpaceX e Tesla) ed è diventato il vettore più potente del mondo fra quelli attualmente operativi, ma a bordo c’era anche una chicca informatica che non ha ricevuto altrettanta attenzione mediatica: un messaggio per gli alieni o per i nostri pronipoti.

Si tratta di un minuscolo disco ottico, denominato Arch (si pronuncia Ark), che contiene il testo integrale della Trilogia della Fondazione di Isaac Asimov, registrato in un formato che a detta dei produttori garantisce una capienza teorica di 360 terabyte e soprattutto una stabilità di conservazione per oltre quattordici miliardi di anni. Niente male.

Questi risultati, spiega la Arch Mission Foundation, sono ottenuti usando un laser per incidere del vetro di quarzo tramite impulsi dell’ordine dei femtosecondi (milionesimo di miliardesimi di secondo), creando un reticolo di puntini da 20 nanometri fissati nella struttura del vetro. La Foundation ha lo scopo di preservare a lungo termine la cultura umana, e lo spazio è un luogo molto efficace dove metterla al riparo dagli sconquassi naturali e artificiali che potranno colpire il nostro pianeta.

Come faranno eventuali discendenti o alieni a trovare e decifrare questi dati? Lo stadio del vettore Falcon Heavy e il suo carico, che orbitano intorno al Sole oscillando fra l’orbita della Terra e la fascia degli asteroidi oltre Marte, hanno delle caratteristiche spettrografiche facilmente riconoscibili come non naturali (prodotte dalle vernici di rivestimento), per cui gli astronomi (terrestri o alieni) non farebbero fatica a riconoscerlo. Al suo interno troverebbero questo disco di vetro, che include delle informazioni (visibili con un semplice microscopio) che consentono a qualunque civiltà tecnologica di accedere ai dati e decodificarli e spiegano anche come costruire un computer e un laser per farlo.

Non è chiaro, tuttavia, come faranno gli alieni (o i nostri discendenti) a capire che la Trilogia della Fondazione è fantascienza e che l’Impero Galattico degli esseri umani che descrive, durato trentamila anni, esisteva solo nell’immensa immaginazione di uno dei più grandi autori del genere.


Fonte aggiuntiva: Ars Technica.

Aggiornate Telegram per Windows: ha una falla

Fonte: Kaspersky Lab.
Ultimo aggiornamento: 2018/02/16 17:45.

Un altro esempio (dopo Skype) dell’importanza di aggiornare il software arriva da Telegram. I ricercatori di Kaspersky hanno scoperto che la versione Windows di questa popolare app di messaggistica aveva una falla che permetteva agli aggressori informatici di prendere il controllo dei PC e installare malware e programmi per la generazione di criptovalute.

Gli attacchi sono in corso almeno da marzo 2017 e derivano da un difetto nella gestione delle lingue che si scrivono da destra a sinistra. Il difetto era sfruttabile, e veniva attivamente sfruttato, inviando alla vittima semplicemente un allegato che sembrava essere un’immagine ma era in realtà un JavaScript ostile che veniva eseguito sui PC privi di difese.

Per esempio, il nome vero dell’allegato poteva essere photo_high_regnp.js, quindi un JavaScript, ma veniva presentato all’utente bersaglio come photo_high_resj.png (in modo da sembrare un’immagine PNG) perché dopo photo_high_re c’era il carattere Unicode U+202E che inverte l’ordine dei caratteri che lo seguono, per cui gnp.js viene visualizzato come sj.png. Ingegnoso.

La falla è risolta nella versione più recente di Telegram, per cui il modo migliore per risolverla è aggiornarsi.

A parte questo scivolone, è importante ricordare che Telegram non cifra i messaggi in modo client-client (molto difficile da intercettare) se non glielo chiedete appositamente usando una chat segreta (secret chat) e usa un protocollo di sicurezza ritenuto insicuro dagli esperti. Per carità, per l’utente comune usare Telegram consente una maggiore privacy rispetto a WhatsApp (che cifra tutto end-to-end ma prende i metadati dell’utente e li condivide con Facebook). Se avete esigenze davvero serie, provate Signal.

Le parole di Internet: cryptojacking

Ne avevo parlato la settimana scorsa nel Disinformatico radiofonico, ma c’è una novità: se avete notato che il vostro computer, tablet o telefonino rallenta, diventa molto caldo o fa partire le proprie ventole quando visitate un sito, fate molta attenzione, perché forse state facendo diventare ricco qualche criminale informatico. E può succedere anche visitando siti di ottima reputazione, come Youtube e persino alcuni siti governativi.

La moda del momento in campo criminale, infatti, è il cosiddetto cryptomining o cryptojacking, ossia l’inserimento, nelle pagine dei siti Web, di istruzioni che prendono il controllo del dispositivo del visitatore e gli fanno eseguire i complessi calcoli matematici che generano le criptovalute, come per esempio i Bitcoin, e depositano questo denaro virtuale nei conti dei truffatori. In pratica i criminali usano i nostri dispositivi per fare soldi per loro.

A prima vista può sembrare che per noi utenti questo sia un raggiro innocuo che non ci costa nulla, ma in realtà il surriscaldamento di smartphone e tablet li fa invecchiare precocemente e può anche danneggiarli, mentre lo sforzo di calcolo aggiuntivo imposto ai computer aumenta il loro consumo di energia elettrica e quindi pesa sulla nostra bolletta.

La novità è che pochi giorni fa è stato messo a segno un attacco di cryptojacking particolarmente audace e diffuso: alcune migliaia di siti governativi, principalmente in lingua inglese, sono stati manipolati dagli aggressori informatici per fare in modo che contenessero istruzioni che facevano generare criptovalute (Monero) ai visitatori. Fra i siti colpiti spiccano quello della sanità britannica, quello ufficiale dei tribunali statunitensi (UScourts.gov) e, ironicamente, quello dell’autorità per la protezione dei dati del Regno Unito (Information Commissioner's Office (ICO)).

Invece di attaccare questi siti uno per uno, gli ignoti aggressori hanno attaccato uno dei loro fornitori, Browsealoud, i cui servizi informatici (i cosiddetti script) vengono inseriti direttamente nei siti in questione e vengono eseguiti quando un utente visita anche solo la pagina iniziale di uno di questi siti; poi hanno modificato le istruzioni di questi script in modo da aggiungere la generazione delle criptovalute, e hanno aspettato che gli utenti visitassero i siti colpiti. In sostanza, infettando un fornitore sono riusciti a infettare automaticamente tutti i siti clienti di quel fornitore.

Per fortuna la reazione degli esperti d’informatica è stata molto rapida e il fornitore infetto è stato isolato ed escluso, ma il successo di quest’incursione ispirerà sicuramente molti emuli, che potranno colpire per esempio attraverso un altro tipo di fornitore molto diffuso: gli inserzionisti pubblicitari.

Difendersi da questo abuso è per fortuna abbastanza semplice: un buon antivirus riconosce questo genere di attacco e lo blocca, sia sugli smartphone e tablet sia sui computer. Inoltre lo sfruttamento illecito dei nostri dispositivi termina quando smettiamo di visitare un sito infetto e chiudiamo il programma di navigazione, non lascia sui dispositivi virus o altri elementi informatici pericolosi e non ruba dati personali. Ma è comunque un furto, se non altro di energia elettrica, che arricchisce qualcuno alle nostre spalle e incoraggia i criminali a violare i siti per infettarli. Conviene quindi fare prevenzione, intanto che gli esperti predispongono soluzioni.

Ma intanto è già partita la moda successiva: la rivista online Salon.com ha deciso che chi la visita usando un adblocker per bloccare le pubblicità potrà accedere ai suoi articoli solo se acconsente all’uso del suo computer, tablet o telefonino per generare criptovalute.