Ultimo aggiornamento: 2021/07/28.
2021/07/23. È appena terminato il montaggio del podcast di oggi de
Il Disinformatico della Rete Tre della Radiotelevisione Svizzera,
condotto dal sottoscritto, e la puntata è già online presso
www.rsi.ch/ildisinformatico
(link diretto). Questa è l’edizione estiva, dedicata a un singolo argomento.
I podcast del Disinformatico di Rete Tre sono ascoltabili anche tramite
feed RSS,
iTunes,
Google Podcasts
e
Spotify.
Buon ascolto, e se vi interessano il testo e i link alle fonti della storia di
oggi, sono qui sotto!
Nota: la parola CLIP nel testo che segue non è un segnaposto in
attesa che io inserisca dei contenuti. Indica semplicemente che in quel punto
del podcast c’è uno spezzone audio.
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L’uomo seduto davanti a me, in un ristorante di Zurigo in un caldissimo giorno
di giugno, ha un problema. Deve riprogrammare un vecchio computer, cosa che sa
fare benissimo, ma quel computer risponde molto, molto lentamente. Per
mandargli un comando e ottenere la risposta servono quasi nove ore.
Cosa più importante, se si blocca per un comando sbagliato è un po’ difficile
andare a spegnerlo e riaccenderlo, perché quel computer sta a cinque miliardi
di chilometri di distanza.
L’uomo, infatti, è Alan Stern, principale responsabile della sonda spaziale
New Horizons, partita dalla Terra nel 2006; quella che ci ha regalato
le prime,
bellissime immagini di Plutone
e che ora va riprogrammata per esplorare le zone più remote del Sistema
Solare.
Alan Stern è il secondo da sinistra. Sì, davanti a lui c’è Chase Masterson,
Leeta di Star Trek: Deep Space Nine. Coincidenze cosmiche. Non fate
caso al libro sul tavolo.
Questa è la storia di come uomini e donne di tutto il mondo riescono a creare
macchine così incredibilmente affidabili da sopravvivere a decenni di
funzionamento continuo nel gelo nello spazio, mentre noi conviviamo sulla
Terra a fatica con computer, tablet e telefonini che vanno spenti e riaccesi
perché si piantano continuamente. Perché loro ci riescono e noi no?
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Ho incontrato Alan Stern, il principal investigator della sonda
spaziale
New Horizons, a giugno del 2019, in occasione del festival di musica e scienza Starmus,
tenutosi appunto a Zurigo. Stern era lì per presentare gli straordinari
risultati della sua sonda.
(CLIP: AlanStern parla a Starmus)
I dati, appunto, arrivano lentamente perché la sonda sta a oltre cinque
miliardi di chilometri e trasmette con una potenza di trenta watt:
quella di una lampadina piuttosto fioca, per intenderci. E lui deve trovare il
modo di riprogrammare il computer di quella sonda per cercare nuovi corpi
celesti da esplorare negli anni che verranno.
Da sinistra, Cathy Olkin, Jason Cook, Alan Stern, Will Grundy, Casey Lisse e
Carly Howett guardano le immagini appena arrivate da Plutone. Credit: Michael
Soluri
Il lavoro di Alan Stern può sembrare lontanissimo, non solo in termini di
distanza siderale, dalla nostra vita di tutti i giorni. Lui, come tutti i
responsabili dei progetti spaziali, ha bisogno di sistemi informatici ad
altissima affidabilità, mentre noi possiamo tranquillamente accettare che ogni
tanto il nostro computer si pianti e vada riavviato pigiando un pulsante.
(CLIP: Suono di boot di Windows Vista)
Ma in realtà non è così: anche noi viviamo circondati da apparati informatici
che devono assolutamente funzionare. Le nostre automobili contengono computer
che ne gestiscono funzioni essenziali come la frenata; gli ascensori sono
comandati da sistemi elettronici programmabili; gli aerei di linea volano
grazie ai sistemi informatici di bordo. Sarebbe decisamente spiacevole se uno
di questi sistemi decidesse che
“Il computer ha riscontrato un problema e deve essere riavviato”
proprio mentre stiamo effettuando un sorpasso o sorvolando le Alpi. La
progettazione di sistemi a prova di crash informatico è insomma una cosa che
ci tocca molto da vicino.
Cose che non vuoi vedere sul cruscotto del tuo aereo.
Ma non la possiamo avere nei nostri computer, perché troveremmo indigesto il
prezzo di questa affidabilità totale. I progettisti di questi sistemi,
infatti, devono ricorrere a rinunce drastiche e a rimedi costosi. I loro
mantra non sono il numero di megapixel della fotocamera o la risoluzione ultra
HD dello schermo o i gigahertz del processore, ma la resilienza e la
ridondanza.
Resilienza significa che il software che controlla tutto, ossia il
sistema operativo, deve essere in grado di assegnare le giuste priorità ai
vari compiti che deve svolgere, e di decidere quali di questi compiti scartare
senza pietà se la situazione gliene chiede troppi contemporaneamente. Se il
vostro computer si ferma completamente per qualche secondo perché sta
scaricando la mail, non muore nessuno; ma se il computer di una sonda spaziale
che si sta avvicinando a Marte si blocca per una manciata di secondi nel
momento sbagliato perché è occupato a copiare un file o a salvare una foto,
rischia di schiantarsi sul pianeta o mancarlo completamente.
Non solo: il software deve essere anche capace di riavviarsi da solo e
istantaneamente in caso di problemi, qualunque cosa accada, perché nello
spazio non c’è nessuno che possa premere il pulsante di reset e non c’è tempo
di aspettare il caricamento dei programmi. I progettisti includono quindi un
cosiddetto safe mode: una modalità minima che permette al sistema di
ripartire velocemente da capo, a mente fresca, per così dire, e dedicarsi alle
attività essenziali ignorando tutto il resto.
Questa non è teoria o eccesso di prudenza: sono realmente accaduti vari
episodi in cui questa progettazione astuta ha salvato le missioni spaziali e
in alcuni casi anche le vite degli astronauti.
Un caso classico è quello del primo allunaggio, a luglio del 1969: due
astronauti, Neil Armstrong e Buzz Aldrin, stanno scendendo verso la Luna
quando il computer che mantiene stabile il loro veicolo va in sovraccarico a
tre minuti dall’atterraggio. Sta ricevendo troppe informazioni
contemporaneamente, e segnala questo problema ai due uomini con un laconico,
semplice codice: 1202.
(CLIP: Armstrong e Aldrin segnalano il 1202)
Senza quel computer i due astronauti sono spacciati, ma i tecnici sulla Terra
rispondono via radio di continuare tranquillamente la discesa, ignorando la
crisi informatica. È la scelta giusta, perché il software del computer si
riavvia istantaneamente, scarta i compiti non strettamente necessari e si
concentra sull'unica cosa davvero importante: atterrare. E i due, appunto,
atterranno con successo sulla Luna ed entrano nella Storia.
Se non abbiamo tanti pezzettini d'astronauta sparsi sulla Luna è grazie in
parte a una donna,
Margaret Hamilton, che era direttore e supervisore della programmazione del software della
missione Apollo 11, a soli 33 anni. È stata lei a progettare il computer di
allunaggio in modo così resiliente, ispirata in parte da un incidente avvenuto
durante una simulazione: la sua piccola figlia Lauren, che aveva portato con
sé in ufficio, era riuscita a
mandare in tilt
il computer di bordo semplicemente pigiando dei tasti a caso. Questo
chiaramente non doveva essere possibile durante una missione.
Questa resilienza, però, si paga: niente grafica, niente finestre, ma solo
lettere e numeri su uno schermo rigorosamente monocromatico. Accettereste un
telefonino o un computer così semplificato? Senza Fortnite, senza suonerie
personalizzate, senza video e foto per Instagram, senza schermo touch 4K, e
con una manciata di bei tasti robusti? Probabilmente no. E quindi niente
resilienza per il vostro smartphone.
Però il software del computerino che gestisce la frenata della vostra auto con
l’ABS fa a meno di tutte questi abbellimenti e quindi riesce a fare una sola
cosa e a farla bene: frenare senza bloccare le ruote. Quel computerino
salvavita della vostra auto è resiliente come un veicolo spaziale.
Anche Alan Stern, l’uomo che cerca di “vedere” una lampadina da cinque
miliardi di chilometri di distanza, sa bene quanto sia importante questa
resilienza. La sua sonda New Horizons a un certo punto aveva
perso il contatto radio
con la Terra proprio pochi giorni prima di raggiungere la sua destinazione
principale, Plutone, dopo anni di viaggio. Senza quel contatto radio i dati
raccolti sarebbero andati persi per sempre. Ma la sonda, che era andata in
sovraccarico di compiti da svolgere, si era resa conto della situazione e si
era riavviata da sola, andando in safe mode e dando priorità assoluta
alle trasmissioni, e così aveva ripreso il contatto con la Terra appena in
tempo.
L’altro asso nella manica di questi computer ultra-affidabili è la
ridondanza: tutti i componenti principali, dal processore alla memoria
ai sensori, sono duplicati o triplicati. Se se ne guasta uno, subentra
l’altro: se va in crisi anche quello, entra in azione il terzo, e così via.
Ovviamente questo significa dover installare il doppio o il triplo dei
componenti, occupando molto più spazio e quasi raddoppiando o triplicando i
costi. Una scelta accettabile per un veicolo spaziale, che costa comunque
milioni, ma non per un computer o uno smartphone che vogliamo che sia sempre
più compatto e leggero e che costi sempre meno. Sarebbe come andare in giro
sempre con quattro ruote di scorta: inutile quando c’è un gommista ogni pochi
chilometri, ma molto opportuno se c’è da attraversare un deserto roccioso.
Anche questa ridondanza è un trucco che troviamo anche qui sulla Terra, ma
solo nei sistemi informatici che proteggono cose essenziali: negli aerei di
linea, appunto, per esempio, e nelle automobili dotate di sistemi avanzati di
guida assistita. Questi sistemi devono avere tempi di analisi e reazione
rapidissimi e devono funzionare sempre, e quindi le loro memorie e i loro
processori sono ridondati, ossia duplicati; addirittura in molti casi
l’intero computer è installato in due esemplari completi e ce n’è un terzo,
differente, che decide cosa fare se gli altri due non concordano.
L’informatica spaziale, come quella terrestre, continua a evolversi, e la sua
nuova frontiera è l’intelligenza artificiale: le sonde più recenti non
chiedono più l’aiuto a casa, ma trovano da sole il punto giusto dove atterrare
grazie a software di bordo che analizzano le immagini delle telecamere di
navigazione e riconoscono crateri, massi e altri ostacoli da evitare. Anche
questo software deve essere perfettamente affidabile e privo di esitazioni.
Zibi Turtle è un'altra di quelle persone che lo sa bene: è una collega di Alan
Stern. Anche lei è coordinatrice di un progetto spaziale molto ambizioso: la
prima sonda capace di atterrare e ripartire in volo per esplorare Titano, una
delle lune di Saturno, alla ricerca di indizi chimici della vita. Lo farà nel
2036. La sonda, denominata Dragonfly, sarà così lontana, a un miliardo
e quattrocento milioni di chilometri, che i suoi segnali ci metteranno ore,
alla velocità della luce, ad arrivare al centro di controllo, per cui il suo
software dovrà essere in grado di decidere da solo come volare e dove
atterrare. Non potrà aspettare comandi dalla Terra.
Via Zoom, Zibi Turtle mi ha
spiegato
come Dragonfly, che è in sostanza un laboratorio volante simile a un grosso
drone a otto eliche, dovrà cavarsela completamente da solo su Titano.
(CLIP: Zibi spiega)
Le sue decisioni saranno guidate dal software di bordo, che dovrà fare
riconoscimento delle immagini in tempo reale. Se il software dovesse
sbagliare, addio sonda, e quindi anche qui sarà necessario adottare resilienza
e ridondanza.
Quello stesso riconoscimento delle immagini che permetterà a questo
“ottocottero” di esplorare una luna lontanissima è quello che, in forma più
semplice, riconosce i volti quando facciamo le foto con il telefonino, ed è
quello che, in forma molto più sofisticata, agisce nelle automobili più
moderne, che possono decidere di frenare autonomamente perché hanno
riconosciuto la sagoma di un bambino che sta attraversando di corsa la strada
senza guardare e hanno attivato il freno ben prima che il conducente avesse il
tempo di rendersi conto del pericolo e reagire.
(CLIP: Allarme di collisione)
Alla fine, insomma, gli investimenti spaziali hanno ricadute molto concrete
sulla Terra, grazie a persone come Alan Stern, Zibi Turtle, Margaret Hamilton
e a tante altre come loro, sparse per il mondo.
Ed è così che le pigiate incoerenti di una bambina sulla tastiera di un
computer spaziale mezzo secolo fa hanno creato un intero settore, l’ingegneria
del software, che vale circa 400 miliardi di dollari, e ci hanno portato qui,
sul nostro fragile pianeta, ad avere voli sempre più sicuri e automobili che
frenano ed evitano incidenti, spesso meglio di quanto farebbero i loro
conducenti umani. Ma al tempo stesso, la corsa al risparmio ci dà computer che
invece s’impallano puntualmente, contando sul fatto che arriverà la nostra
semplice, affidabile mano a spegnerli e farli ripartire.
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Aggiornamento (2021/07/28): Alan Stern l’ha fatto di nuovo: ha appena
annunciato il completamento con successo di un aggiornamento software su
New Horizons, a 7,5 miliardi di km dalla Terra. Fantastico.
Fonti aggiuntive:
Increment.com;
Nautil.us.