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2019/10/31

Tutte le mie aspirazioni nella vita sono ormai raggiunte: sono diventato un personaggio di Leo Ortolani

Mi è arrivata or ora questa segnalazione, che credo citi il nuovo libro Luna 2069 di Leo Ortolani, e sto sorridendo così tanto che rischio il crampo ai muscoli delle guance.


Sesso nello spazio? Ne parlo domani sera al Planetario di Lecco

Domani sera (1/11) alle 21 sarò ospite del Planetario di Lecco per una conferenza intitolata Dinamica delle interazioni fra corpi rigidi e semirigidi in ambienti in microgravità: in altre parole, sesso nello spazio.

Il tema è un classico della fantascienza e la fantasia, ma io racconterò quali sono i fatti, i miti e i problemi inattesi di questo aspetto molto delicato ma indispensabile della vita nello spazio, affrontandolo con rigore scientifico e schiettezza e attingendo anche alle esperienze di uomini e donne astronauta.

Del resto, se vogliamo diventare una specie multiplanetaria prima o poi dovremo riprodurci, e comunque la sessualità è un aspetto fondamentale della natura umana che non si può ignorare.

La conferenza è consigliata a un pubblico adulto.

2019/10/30

Un uomo che ha camminato sulla Luna sarà in Italia a metà novembre. Non perdete quest’occasione per incontrarlo

Il generale Charlie Duke, uno dei dodici astronauti che hanno camminato sulla Luna, sarà in Italia il 16 e 17 novembre. Solo quattro di loro sono ancora in vita. È un’occasione difficilmente ripetibile per incontrare di persona una leggenda vivente della storia dell’esplorazione.

Ci saranno due possibilità di incontro: la prima è una cena di gala, sabato 16 novembre, al ristorante Il Rustichello a Lonato (BS) alle 19:30. Attenzione: l’evento si terrà solo se verrà raggiunto un numero minimo di partecipanti, per cui affrettatevi a prenotare; se avete amici appassionati di spazio, spargete la voce.

La prenotazione va fatta in ogni caso entro l’8 novembre telefonando al numero italiano 339-8576303 oppure scrivendo una mail a sindamor@libero.it.

Oltre all’astronauta, sarà presente un campione di Luna raccolto durante le missioni Apollo.



La seconda occasione sarà a Torino, alla Cavallerizza Reale, il 17 novembre alle 16:30. L’incontro è gratuito: per i dettagli, visitate la pagina apposita di Eventbrite.

Io sarò sicuramente presente a Torino come traduttore per Charlie Duke; spero di poterci essere anche per la cena di gala.

2019/10/29

Avventurette in auto elettrica: Lugano-Milano-Lugano (con record e complicazioni)

Ultimo aggiornamento: 2019/10/31 21:15.

Ieri (28/10) la Dama del Maniero ed io dovevamo essere in centro a Milano per una conferenza stampa medica entro le 10:30 (se vi state chiedendo cosa c’entro io con una cosa del genere, ero stato invitato per parlare di fake news e medicina). Abbiamo deciso di andarci in auto. Auto elettrica, s’intende.

Non è andata come previsto dal Piano A. Nemmeno come previsto dal Piano B. In compenso abbiamo stabilito un piccolo record elettrico personale e raggiunto un nuovo livello di esasperazione. Se volete tutti i dettagli e i conticini, trovate il racconto completo qui su Fuori di Tesla: questa è una sintesi.

Come sempre, sottolineo che quello che leggete qui sotto non è il modo normale di usare un’auto elettrica e che le auto elettriche odierne hanno molta più autonomia della nostra piccola Peugeot iOn di otto anni fa e coprirebbero tranquillamente l’intero tragitto senza aver bisogno di ricaricare fuori casa.

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Prima che qualcuno obietti che avremmo dovuto usare i mezzi pubblici invece dell’auto: andare in treno in due da Lugano a Milano ci sarebbe costato 96 euro fra andata e ritorno solo di biglietto ferroviario, più l’autobus o taxi per andare dal Maniero alla stazione di Lugano e ritorno e la metropolitana a Milano. Con l’auto elettrica spenderemo in tutto 22 euro, compreso il parcheggio. Con buona pace di chi dice che dovremmo lasciare a casa le auto e usare il trasporto pubblico.

Il viaggio di 162 km è ben oltre la modestissima autonomia di ELSA, per cui dovremo caricare una volta durante il ritorno.

L’andata va benissimo: arriviamo al parcheggio periferico (Molino Dorino), lasciamo ELSA e prendiamo la metropolitana. Io faccio la conferenza, poi ripartiamo con ELSA per fare una ricarica rapida all’autogrill Villoresi Est. Ci arriviamo alle 15:20 con tre tacche residue, che secondo l’indovinometro equivalgono a 22 km di autonomia rimanente. La colonnina è libera, ed è accanto all’autogrill: l’ideale per fare uno spuntino durante i venti minuti necessari per la carica. Siamo a posto.

E invece no. Qui cominciano i guai.

Collego ELSA al connettore CHAdeMO della colonnina, seguo la procedura sullo schermo (non occorre usare tessere o carte di credito: la colonnina è gratuita), e... non funziona. Mi dice Errore d’inizializzazione. Riprovo. Stesso problema.

Cose che non vorresti vedere quando hai 22 km di autonomia residua.


Chiamo per telefono l’assistenza clienti della colonnina, che risponde prontamente, ma non riesce a risolvere il problema. Fa un reset da remoto, ritento la carica, ma invano. Gli leggo anche i codici diagnostici, ma non gli sono utili per venirne a capo.

Intanto è arrivata una Tesla Model 3; il suo proprietario tenta di caricare usando la colonnina (con il connettore CCS), ma niente da fare. Mi dice, mentre sono al telefono con il gentile assistente clienti, che non è la prima volta che il connettore CHAdeMO dà problemi e fa impallare la colonnina anche sul connettore CCS. Li aveva dati anche la volta scorsa che avevo usato questa colonnina, ad aprile 2019, ma almeno in quel caso alla fine un po' di carica me l’aveva erogata. Stavolta niente.

Che si fa?

Niente paura: abbiamo già predisposto un Piano B. C’è un’altra colonnina di ricarica rapida (ELSA accetta solo CHAdeMO, per la carica veloce) che sta a un paio di chilometri. Proviamo quella? Volentieri, ma sono un paio di chilometri in linea d’aria. In auto, invece, dobbiamo uscire dall’autostrada al casello successivo e fare sedici km. Abbiamo 22 km di autonomia residua, per cui se non funziona quella siamo messi maluccio. Dovremmo ricorrere al Piano C, ossia zoppicare fino alla terza colonnina veloce che sta nelle vicinanze, oppure al Piano D, che è usare una delle colonnine lente nelle vicinanze (ho con me il cavo adattatore da Tipo 2 a Tipo 1), oppure al Piano E, che è elemosinare una normale presa di corrente a un negozio o a un benzinaio, e quindi caricare molto, molto lentamente. Non resteremmo a secco, certo, ma sarebbe una scocciatura considerevole.

Con la guida più delicata e risparmiosa possibile e sfruttando al massimo inerzia e rigenerazione, arriviamo alla colonnina Enel X del Centro Guida Sicura ACI. La raggiungiamo dopo aver percorso un chilometraggio record per la piccola ELSA con una singola carica: 99,2 km. Bazzecole per un’elettrica moderna, ma ELSA è una city car che noi ci ostiniamo a portare ben oltre le sue normali condizioni d’uso.

Non abbiamo mai fatto così tanta strada con un “pieno”.

L’indicatore di carica della nostra auto ha esaurito le tacche, ma in realtà ELSA ha ancora una “riserva” di circa il 10% della batteria, ossia circa 10 km. Si chiama “modalità tartaruga”: accelerazione ridotta, servizi di bordo al minimo, insomma tutto il sacrificabile pur di consentire arrivare a un punto di ricarica. L’ho raggiunta una sola volta in quasi due anni e oltre 12.000 km di uso di ELSA, e vorrei proprio evitare di rifarlo.

Va be’, dai, siamo fuori pericolo: alla colonnina ci siamo arrivati. Cosa mai potrebbe andare storto?

ELSA alla colonnina Enel X. Sì, ho notato il cartello “riservato ricarica ENEL”.

La colonnina reca un cartello “riservato ricarica ENEL”, eppure è pubblica: è indicata chiaramente come tale nell’app di Enel X, con tanto di avviso “Nelle ore di chiusura del centro [ACI] rivolgersi alla guardiania per accedere al punto di ricarica”. Inoltre nessuna auto ENEL nei paraggi sta usando la colonnina o sta dando segni di volerla usare. A noi serve solo per una mezz’oretta.

Per cui collego ELSA al connettore CHAdeMO della colonnina e uso la mia tessera Enel X prepagata per avviare la carica. Colonnina Enel, tessera Enel, non ci saranno mica problemi, giusto?

Appoggio la tessera, seleziono la presa CHAdeMO (a fatica, perché la splendida idea di fare uno schermo touch lasciato alle intemperie funziona benissimo). La colonnina mi dice “Autorizzazione utente in corso...”. Dai, dai che ce la facciamo: venti minuti di carica e poi via verso casa.

Non voglio complicarmi la vita con app varie: vado direttamente con la tessera ufficiale Enel X.

Ce la stiamo facendo...

... ce la stavamo facendo.

“Manca comunicazione con il centro”. La carica non parte.

E adesso che si fa?

Un momento. Ormai ho imparato a non fidarmi degli enigmatici messaggi delle colonnine. Infatti sfodero la tessera della concorrente Nextcharge, che ha il roaming con Enel X, e la carica parte.

L’avviso “manca comunicazione con il centro” è una panzana fuorviante: fa sembrare che la colonnina non sia in grado di comunicare, e quindi non sia in grado di funzionare con qualunque tessera. Non è vero.

Ancora una volta, Nextcharge batte Enel X sulle colonnine di Enel X.

Qualcuno mi spieghi perché una tessera della concorrenza funziona meglio della tessera originale. Che non funziona affatto. Aggiornamento: lo spiegone è a fine articolo.

Il tempo di un paio di mail, di due chiacchiere con la Dama e di un’intervista telefonica e la carica rapida è già finita: in 25 minuti ho caricato 7,425 kWh, che mi sono costati 3,52 euro. Non è un “pieno”, perché la carica rapida non lo consente, ma è sufficiente per tornare al Maniero.



Il malfunzionamento della colonnina Ev-Now ci è costato caro in termini di tempo (circa un’ora, escludendo il tempo di ricarica che avremmo speso comunque), ma abbiamo imparato lezioni preziose: è inutile fare affidamento sulla colonnina Ev-Now e quindi la depenniamo dalla lista delle colonnine usabili, ed Enel X ha delle colonnine bugiarde che però si possono beffare usando una tessera della concorrenza.

Arriviamo al Maniero con tre chilometri di autonomia residua secondo l’indovinometro, ma niente “modalità tartaruga”. Avremmo potuto fermarci alle colonnine rapide lungo il percorso in Svizzera (a Coldrerio o a Melide), ma la Dama del Maniero si fida di ELSA e ha proposto di rischiare. Ho accettato di buon grado.

Abbiamo percorso in tutto 162 km, che con la nostra auto a pistoni ci sarebbero costati 18 CHF (circa 16€); con ELSA abbiamo speso circa 5,6 euro di energia.

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Morale della storia: se la rete di ricarica è in queste condizioni e impone queste assurde complicazioni, l’auto elettrica non potrà mai decollare e diventare un prodotto usabile dall’automobilista medio. Ci vogliono passione e gusto per l’avventura, oltre che una certa dose di masochismo, per sopportare certi difetti a metà fra l’assurdo e il ridicolo. Avventure come quella di oggi fanno passare la voglia di elettrico persino a me. Almeno per un po', ossia fino a stasera, quando ho in programma un altro giretto.

Purtroppo qualunque auto elettrica, di qualunque marca tranne una, subisce i disagi di un’infrastruttura di ricarica insufficiente e inaffidabile. Puoi avere una Jaguar, una Mercedes o una Hyundai, ma se dipendi dalle colonnine di vari fornitori esterni sei comunque alla mercé delle loro inadeguatezze, incomunicabilità e idiosincrasie. L’unica marca che fa eccezione è Tesla, perché ha avuto la lungimiranza di realizzare una propria rete di ricarica diffusa e molto veloce. La certezza di poter ricaricare è un argomento di vendita decisivo. Se state pensando di acquistare un’auto elettrica, tenetelo ben presente.

Per come è messa la rete di ricarica italiana in questo momento, consiglierei non tanto un’elettrica pura (salvo casi particolari), ma un’ibrida plug-in con una cinquantina di chilometri di autonomia elettrica, così la si può usare in elettrico per tutti gli spostamenti brevi (specialmente in città) ma si ha libertà di viaggiare grazie al motore a pistoni. Magari fra qualche anno sarà diverso, ma per ora le cose stanno così.


2019/10/31 21:15


L’assistenza clienti Enel X è stata molto premurosa e mi ha chiamato ripetutamente per chiarire il mistero della colonnina “bugiarda”. È emerso che c’era un problema alla colonnina, successivamente risolto, ma è anche emerso che c’era una mancanza mia: la tessera prepagata di Enel X va infatti obbligatoriamente abbinata all’account sull’app Enel X (JuicePass), altrimenti non funziona.

Sulla tessera in effetti c’è scritto “Per associare la card al profilo su App, scansiona il codice o inseriscilo manualmente”. Ma io l’ho interpretata come un’opzione, non come un obbligo. Pensavo che una tessera potesse essere utilizzata a prescindere dall’utilizzo dell’app.

L’assistenza clienti mi ha anche guidato nella procedura di abbinamento, che è un po’ nascosta: nell’app Enel X bisogna infatti toccare l’icona PR, poi scegliere Gestisci profili, ignorare il grosso “+” e toccare invece l’icona della matita stilizzata nel profilo, e poi scegliere Collega carta.

Fatto questo, si deve digitare il numero della tessera oppure scansionarne il codice QR, e la tessera si abilita e si abbina all’account.


Errore mio, insomma, ma resta il problema che la colonnina mi ha tratto in inganno: non ha detto “tessera non abilitata”, ma ha segnalato una mancanza di comunicazione col centro, facendo sembrare che si trattasse di un guasto della colonnina. Sbagliando s’impara.

Il giorno successivo, infatti, sono andato a Varese e ho caricato a una colonnina Enel X semplicemente appoggiando la tessera, quindi senza ricorrere all’app: tutto ha funzionato perfettamente.


Ma questa è un’altra storia, da raccontare a parte.

2019/10/27

Cerco un database di testo freeform multipiattaforma oppure online. Idee?

Ultimo aggiornamento: 2019/11/10 18:50.

Come probabilmente sapete, vivo e lavoro a cavallo fra vari sistemi operativi e cerco di legarmi il meno possibile a uno solo. Per il mio lavoro di traduzione tecnica ho un enorme glossario, accumulato nel corso di trent’anni, che uso e aggiorno costantemente.

Il glossario è strutturato in voci costruite in questo modo:

  • Lemma
  • Descrizione del contesto (CTXT)
  • Fonte (FDIN)
  • Data di aggiornamento della voce (LUPD)
  • Lingua (LNGG)
  • Traducenti (uno o più) (TR01)
  • Note/fonte del traducente (una o più) (FN01)

Gli ultimi due campi, in particolare, possono avere lunghezza indefinita. Ecco un esempio, con una nota/fonte piuttosto lunga:

LEMMA: deviatoio
CTXT: ferrovie
FDIN: MD2383
LUPD: 199612
LNGG: ITA
TR01: ?switch
FN01: IATE: BE= BTL TY= SNV81 NI= 0001108 DATE = 950718 CF= 4 CM BAA TR4 IT VE deviatoio; scambio
DF insieme di elementi dell'infrastruttura di collegamento di vie di corsa, di un punto di diramazione o di un punto di raccordo. Rende possibile il passaggio da una via di corsa a un'altra.Nel sistema ferroviario lo scambio e talvolta chiamato deviatoio.Ha come componenti fondamentali:aghi, rotaie contrago, cuore, rotaie di risvolto, controrotaie e l'apparato di azionamento
RF Diz.trasporto pubblico locale, 1984
EN VE switch; points; turnout
DF 1.a device that moves rails laterally to permit the movement of a vehicle or train from one track to another 2.the mechanism that is mounted either on a vehicle or guideway or both, and causes the vehicle to be transferred from one path to another
RF Dict.Public Transport, Alba 1981 BE= BTL TY= UIC75 NI= 0001925 DATE = 920922 CF= 4 CM TR4 IT VE scambio; deviatoio; telaio degli aghi
RF Less.Generale dei Termini Ferroviari, UIC, 4a ed., Parigi 1988, pubbl.in Swizzera da GASSER AG, Chur NT in un deviatoio
EN VE points; points switch; turnout
RF General Dict.of Railway Terms, UIC, 4th ed., Paris 1988, pub.in Switzerland by GASSER AG, Chur NT points or switch BE= BTB TY= TDC77 NI= 0085524 DATE = 930809 CF= 4 CM CEN 00B TR SI IT VE 1)scambi; 2)deviatoio
RF 1)Tariffa Doganale; Notex CCD; 85.16; 2)BTL
EN VE 1)points; 2)tongue; switch; railway switchgear
RF 1)Customs Tariff; Notex CCD; 85.16; 2)BTL NT railways BE= BTB TY= TDC77 NI= 0073160 DATE = 910527 CF= 4 CM CEN SIJ TR4 IT VE scambio; deviatoio
RF TARIFFA DOGANALE; NOTEX CCD; 73.16; diz.Marolli, Garzanti, 1976 NT dispositivo destinato a essere situato agli incroci o ai bivi delle strade ferrate
EN VE crossing piece
RF CUSTOMS TARIFF; NOTEX CCD; 73.16 NT used at junctions or intersections of the permanent way.

Finora ho gestito questo glossario in varie maniere: database DB2 sotto DOS, poi documento Word, poi documento di testo LibreOffice, poi con un software per database di testo freeform sotto MacOS (iData) e oggi con Sigil (sì, l’editor di e-book).

Come mai Sigil?

  • È multipiattaforma, per cui apro il glossario sotto Mac, Linux e (se proprio devo) anche Windows;
  • non schiatta quando gli apro un file contenente circa due milioni e mezzo di caratteri;
  • mi consente di avere voci di qualunque struttura o lunghezza (sono semplicemente dei paragrafi di testo);
  • non usa Java, che vorrei proprio evitare;
  • ciliegina sulla torta, è gratuito.

Sigil mi funziona, ma ha alcune limitazioni: non posso fare il sort delle voci, non posso fare ricerca soltanto nei lemmi, ed è un po' lento. Mi chiedo se ci sia qualcosa di meglio, ma non ho trovato nulla, per cui chiedo a voi. Mi va bene sia una soluzione multipiattaforma (almeno Linux e MacOS) o una soluzione online, anche a pagamento.

Se volete farvi un’idea di cosa intendo, guardate iData: era perfetto, ma non è multipiattaforma, e oltretutto il suo sviluppatore non lo supporta più.

Avete idee?

Aggiornamento (2019/10/27 20:50): Grazie per tutte le idee! Finora quella più promettente sembra essere Obvibase, che sto testando adesso. I suoi campi sembrano accettare testi anche molto lunghi, consente la ricerca per singoli campi e permette anche la condivisione del database con colleghi (gratis se in sola lettura). Esporta e importa in CSV. Non permette di andare a capo all’interno di un campo o di formattare il testo con grassetti o corsivi, ma potrei accontentarmi. L’unico limite che ho notato finora è forse il numero di record: “How large can a database be? Typically, you should see snappy performance as long as there are less than 10,000 records in your database”, e io ne ho quasi 32.000.

Aggiornamento (2019/11/10 18:50): La prova di Obvibase si è scontrata con alcuni problemi di lentezza, di dimensione gestibile dei campi e soprattutto con l’impossibilità (per quel che ho capito) di crearmi un form efficiente e compatto per la visualizzazione o l’editing. Così ho ripiegato su LibreOffice Base, che è multipiattaforma e mi permette di creare questo form. Soprattutto, mi permette di importare il mio attuale glossario in maniera spiccia, mettendo il testo intero di ogni voce in un campo di testo molto capiente (2500 caratteri) e successivamente estraendo dalla voce le singole parti per inserirle nei campi corrispondenti; così posso già cominciare a usarlo, anche se non posso ancora cercare solo nei lemmi o solo nei traducenti. Richiede Java (JDK e JRE), che avrei voluto evitare, ma per ora sembra funzionare.




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Auto elettriche solari: 27 km/giorno di autonomia autocostruita?

A luglio scorso ho proposto ai lettori un quesito-divertissement: è fattibile un’auto elettrica che si carichi almeno in parte con pannelli solari montati a bordo? Ne è nata una discussione bellissima e ricca di spunti, alla quale aggiungo questo piccolo aggiornamento.

Uno dei progetti artigianali che ho citato in quell’articolo ha pubblicato un video nel quale mostra di produrre circa 17 miglia (27 km) con 12 ore di esposizione al sole. Non tantissimi, ma nel suo caso (una vecchissima Nissan LEAF d’occasione) fanno la differenza fra restare a piedi e invece tornare a casa, e sono comunque chilometri caricati gratuitamente (a parte la spesa iniziale dell’impianto) e a inquinamento zero.

Il suo sistema usa pannelli fotovoltaici sul tetto e sul cofano, che caricano delle batterie supplementari di accumulo, che a loro volta caricano la batteria di trazione della LEAF: la soluzione sulla quale convergevano i vostri commenti.

Sono sinceramente sorpreso che nonostante le inefficienze e l’artigianalità assoluta di questo esperimento (il blocco di ghiaccio come refrigerante è micidiale) si riescano a ottenere 27 km di autonomia (non so a quale velocità).



Mi sorprende anche che riesca a ottenere quell’autonomia da una superficie fotovoltaica così modesta, e mi piacerebbe molto capire quanto può essere costata questa apparecchiatura (al netto del nastro adesivo e dei secchi di ghiaccio).

Se avete idee in proposito, i commenti sono a vostra disposizione.


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2019/10/26

Su Venere in batiscafo e in pallone

Venere come appare in luce naturale attenuata.
Credit: Planetary.org / NASA /
JHUAPL / CIW / Gordan Ugarkovic.
Ultimo aggiornamento: 2019/10/26.

Venere è un inferno. Grande all’incirca come la Terra, la sua superficie è tormentata da temperature che fonderebbero il piombo, pressioni 90 volte superiori a quelle terrestri e nuvole di acido solforico sospese in un’atmosfera di anidride carbonica e azoto mossa da venti che arrivano a 300 chilometri l’ora. Sotto la coltre abbagliante di nubi che ricopre perennemente il pianeta arriva poca luce a illuminare le alte montagne vulcaniche e gli enormi altipiani.

Fino agli anni Sessanta del secolo scorso si riteneva che Venere fosse un mondo paludoso e accogliente, ma le prime esplorazioni spaziali rivelarono appunto un quadro ben diverso. La sonda statunitense Mariner 2 fu la prima a passare vicino al pianeta nel 1962, misurandone le condizioni e comunicando un verdetto inatteso: Venere era la sorella impazzita della Terra, devastata da un effetto serra inarrestabile.

I russi decisero di andare a visitare il fondo di quell’inferno.


Il programma Venera


Fra il 1961 e il 1984, l’Unione Sovietica spedì verso Venere almeno diciotto sonde senza equipaggio. Tredici riuscirono a trasmettere informazioni mentre penetravano nella densa atmosfera venusiana e dieci arrivarono addirittura al suolo e trasmisero da lì dati scientifici e persino immagini: le prime in assoluto scattate dalla superficie di un altro pianeta. Era il 22 ottobre 1975 e la sonda, costruita massicciamente come un batiscafo, era la Venera 9.

Atterrare su Venere richiedeva una progettazione completamente differente da quella tradizionale dei veicoli spaziali, solitamente concepiti per essere il più possibile leggeri ed esili. Venera 9, ancor più delle sonde che l’avevano preceduta, era un carro armato spaziale. Lasciò perdere i propri paracadute già a 50 chilometri di quota, perché tanto si sarebbero sciolti per il calore, e precipitò, come previsto, fino a incontrare gli strati densi dell’atmosfera venusiana.

Grazie alle sonde che l’avevano preceduta, si sapeva che al suolo quegli strati erano a pressioni sicuramente superiori a 25 atmosfere. Lo si sapeva in un modo molto brutale: Venera 4, 5 e 6, concepite per sopportare appunto 25 atmosfere, erano state stritolate come lattine ben prima di arrivare a terra.

La prima a sopravvivere alla discesa era stata Venera 7, che aveva avuto successo nel trasmettere dati scientifici dal suolo venusiano a dicembre del 1970. Aveva resistito a calore, pressione e corrosione per 23 minuti, annunciando temperature di oltre 450 °C.

Venera 9 era talmente robusta che sfruttò quella densità atmosferica spaventosa per frenare aerodinamicamente, grazie a una sorta di ala circolare rigida che la fece planare per ben 55 minuti. Frenare si fa per dire, perché arrivò al suolo cadendo a 25 chilometri l’ora. Nessun problema: sotto la sonda c’era un robusto respingente collassabile, che attutì l’urto dei 660 chilogrammi di massa.


Batiscafo venusiano


Come i batiscafi usati per esplorare le profondità degli oceani, Venera 9 aveva uno scafo sferico resistente alla pressione, con un diametro di circa 80 centimetri, interamente in titanio, rivestito da dodici centimetri di materiale isolante a nido d’ape, a sua volta coperto da un guscio esterno in titanio.

Il calore proveniente dall’esterno veniva assorbito da un accumulatore termico a nitrato di litio triidrato e da uno scambiatore di calore, che proteggevano i numerosi strumenti scientifici e gli apparati di trasmissione situati all’interno dello scafo. Le due telecamere di bordo si affacciavano alla superficie attraverso finestrini di quarzo spessi un centimetro.

Nulla di questi veicoli spaziali era fragile o delicato, insomma; tutto era pensato per la massima robustezza e semplicità. Il sistema di rilascio delle antenne era composto da un blocchetto di zucchero, che si sarebbe sciolto per il calore o in caso di atterraggio in eventuali specchi d’acqua (inizialmente non si sapeva che la temperatura su Venere era così alta).

Venera 9 era persino radioattiva: aveva infatti un densitometro a raggi gamma, basato su un contenitore di un isotopo radioattivo che veniva depositato sulla superficie nella maniera più semplice possibile, ossia usando un braccio che si apriva per caduta. I tappi protettivi delle telecamere venivano fatti saltare con cariche esplosive. Ma nonostante queste soluzioni di forza bruta, uno dei tappi non si staccò.

Le dimensioni della sonda Venera 9 rispetto a uno dei tecnici.

Il modulo di atterraggio della sonda Venera 9. L’elemento circolare piatto è un aerofreno. I due tubi sono condotti per il convogliamento di gas dello scambiatore di calore. La spirale in alto è l’antenna per le comunicazioni radio.


Cartoline dall’inferno


Venera 9 riuscì comunque a trasmettere, oltre a una notevole quantità di misurazioni delle condizioni ambientali, due immagini panoramiche in bianco e nero del suolo venusiano, mostrando agli scienziati russi e poi al mondo una distesa ostile di rocce basaltiche, cotte e smussate dall’ambiente feroce nel quale giacevano.

Una sonda gemella, Venera 10, atterrò tre giorni più tardi, il 25 ottobre 1975, a circa 2200 chilometri di distanza. Anche qui uno dei tappi delle telecamere non si staccò, ma l’altro funzionò come previsto e permise di acquisire e trasmettere immagini del suolo alla parte della sonda che era rimasta in orbita e che ritrasmise i dati verso la Terra. Le lampade che erano state installate a bordo di entrambe le sonde, nel timore che sotto le nubi non ci fosse luce sufficiente, non furono necessarie.

Immagini della superficie di Venere inviate da Venera 9 (sopra) e da Venera 10 (sotto) nel 1976. Credit: Accademia Sovietica delle Scienze.


I tappi delle telecamere furono un vero tormento di queste missioni: per Venera 11 e 12 non se ne staccò nessuno. Andò bene con Venera 13, che trasmise le prime immagini a colori della superficie del pianeta e analizzò un campione di polvere, resistendo poco più di due ore, ma Venera 14 fornì la beffa peggiore: i tappi si staccarono correttamente, ma uno di essi finì esattamente sotto il braccio dello strumento di analisi della compressibilità del suolo, per cui la sonda trasmise verso la Terra informazioni dettagliatissime sulla compressibilità del tappo.

Due tecnici veterani del programma spaziale sovietico, V.I. Yegorov e N.I. Antoshin, accanto al modulo di atterraggio di Venera 13.

Replica della sonda Venera 13 presso il Padiglione del Cosmo della Mostra sui Successi dell’Economia Nazionale a Mosca. In primo piano il veicolo di atterraggio, che era alloggiato all’interno della sfera in cima alla sonda vera e propria in secondo piano. Fonte: NASA.

Immagine panoramica a colori della superficie di Venere, scattata dalla sonda Venera 13 nel 1982. Si vede parte della base della sonda; l’oggetto al centro è un tappo di una delle fotocamere di bordo. Fonte: NASA.

Elaborazione digitale di immagini di Venera 10, ralizzata da Donald Mitchell.

Elaborazione digitale di immagini Venera, realizzata da Donald Mitchell.

Da allora altre sonde russe, americane, europee e giapponesi hanno sorvolato il pianeta, ma nessun’altra è più scesa fino alla superficie. Le missioni Venera costituiscono così un altro primato del programma spaziale russo.


Ritorno a Venere


Viste le difficoltà tecniche e le condizioni ambientali proibitive, le possibilità di visitare Venere sembrano molto scarse e quelle di trovarvi vita paiono nulle. Ma c’è una zona del pianeta che potrebbe ospitare la vita e si presterebbe a una missione meno brutale e fugace delle Venera: è l’alta atmosfera.

La NASA sta preparando, per ora a livello concettuale, una missione con equipaggio denominata HAVOC, dalle iniziali di High Altitude Venus Operational Concept. L‘idea di fondo, fattibile con le attuali tecnologie, è insediarsi a circa 55 chilometri di quota usando dei grandi aerostati.

A questa quota, infatti, l’atmosfera venusiana è la più simile a quella terrestre in tutto il Sistema Solare: la pressione è circa la metà di quella al livello del mare sul nostro pianeta, la temperatura oscilla fra 20 e 30 °C, gli strati più alti offrono protezione sufficiente contro le radiazioni provenienti dallo spazio e c’è moltissima luce solare per generare energia con sistemi fotovoltaici. La gravità è il 90% di quella terrestre.

Gli aerostati sarebbero pieni di ossigeno e azoto, che sono più leggeri degli elementi che compongono l’atmosfera venusiana e quindi consentono di galleggiare, offrendo nel contempo una grande riserva di aria respirabile per gli equipaggi.

Illustrazione di HAVOC, uno studio NASA per un’esplorazione dell’atmosfera venusiana tramite aerostati dotabili di equipaggi. Fonte: NASA.


In queste condizioni, gli astronauti-aeronauti potrebbero uscire all’aperto indossando una semplice tuta resistente agli agenti chimici, non pressurizzata, e un respiratore, passeggiando su una balconata fra le nuvole di Venere.

Considerato che in questo momento i programmi spaziali non prevedono neppure di riportare equipaggi sulla Luna, che rispetto a Venere è dietro l’angolo, progetti come questo possono parere fantascientifici. Ma Venere è meno lontana di Marte e questo riduce l’esposizione alle radiazioni cosmiche durante il tragitto, e la NASA guarda avanti e a volte i piani fantasiosi si concretizzano. Del resto, chi avrebbe mai pensato che un imprenditore privato, Elon Musk, sarebbe riuscito a lanciare verso l’orbita di Marte la propria automobile?


Vita su Venere, vita sulla Terra


Nell‘alta atmosfera venusiana ci sono condizioni adeguate per la vita: alcuni organismi terrestri, gli estremofili, vi si troverebbero a proprio agio. L’ambiente offre ingredienti chimici a volontà e grandi quantità di energia proveniente dal Sole: tutto quel che serve per ospitare forme viventi. La nostra esplorazione di Venere è troppo limitata per escludere questa possibilità, e con il passare del tempo sta diventando chiaro che, perlomeno sulla Terra, la vita si adatta a qualunque ambiente. Sul nostro pianeta esistono forme di vita primitive (batteri) che vivono nelle nuvole. Vale la pena di chiedersi se lo stesso avviene nelle nubi bianchissime che avvolgono il pianeta gemello.

Cosa molto più importante, studiare Venere ci permette di vedere concretamente quali sono gli effetti di un riscaldamento globale incontrollato e quindi di migliorare i nostri modelli del clima terrestre, con tutto quel che ne consegue per il bene della salute del nostro mondo. Anche se non ci si aspetta che la Terra sia soggetta a uno scenario così estremo come quello di Venere, è fondamentale capire quali cambiamenti avvengono in un clima planetario quando si verificano certe condizioni fisiche.

Nonostante Venere sia il pianeta più vicino al nostro, ha delle differenze immense: capire come due pianeti così simili possano avere due evoluzioni così diverse ci può aiutare a capire l’evoluzione del sistema solare e a gestire meglio la nostra astronave Terra.


Fonti: Mental Landscape, National Geographic, Cosmos Magazine, NASA, NASA, Space.com, Universal Science, Space.com, NASA.


Questo mio articolo è stato pubblicato per la prima volta su carta sulla rivista Spazio Magazine dell'Associazione ADAA, è stato aggiornato rispetto alla versione iniziale e vi arriva gratuitamente e senza pubblicità grazie alle donazioni dei lettori di questo blog. Se vi è piaciuto, potete incoraggiarmi a scrivere ancora facendo una donazione anche voi, tramite Paypal (paypal.me/disinformatico), Bitcoin (3AN7DscEZN1x6CLR57e1fSA1LC3yQ387Pv) o altri metodi.

Avventurette in auto elettrica: lo stesso viaggetto notturno, fatto a un anno di distanza



Due viaggetti identici, che ho fatto per lavoro a distanza di quasi un anno uno dall’altro con la mia piccola city car elettrica, hanno prodotto risultati assai differenti. C’è molto da imparare per passare dall’auto tradizionale a quella elettrica, ma una volta imparate le cose da sapere i benefici si vedono: si risparmia moltissimo tempo e altrettanto denaro.

Ho raccontato tutti i dettagli, con foto e conticini vari e soprattutto con le lezioni imparate, su Fuori di Tesla.

2019/10/25

Puntata del Disinformatico RSI del 2019/10/25

È disponibile la puntata di oggi del Disinformatico della Radiotelevisione Svizzera, condotta da me insieme a Francesca Margiotta.

Podcast solo audio: link diretto alla puntata.

Argomenti trattati: link diretto.

Podcast audio precedenti: archivio sul sito RSI, archivio su iTunes e archivio su TuneIn, archivio su Spotify.

App RSI (iOS/Android): qui.

Video: lo trovate qui sotto.

Archivio dei video precedenti: La radio da guardare sul sito della RSI.

Buona visione e buon ascolto!


Il rosario “smart” non era molto smart

Naked Security segnala un caso davvero insolito di vulnerabilità informatica con rischi di privacy: un rosario “smart”.

Su Vatican News è stato presentato un rosario che si attiva quando l’utente sfiora la sua croce sensibile al tocco. Costa 110 dollari e si sincronizza con un’app, denominata Click to Pray (da non confondere con Plug and Play), che traccia le tappe dell’utente nella serie di preghiere e tiene conto anche dei passi fatti nel mondo fisico.

Purtroppo è emerso che l’app aveva una falla di autenticazione piuttosto grave: l’accesso tramite PIN di quattro cifre è facile da scardinare in vari modi, compreso il fatto che non c’è limite al numero di tentativi effettuabili tramite la API, per cui è semplicissimo tentare tutti i PIN con uno script fino a trovare quello giusto.

Entrando nell’account era possibile acquisire avatar, numeri di telefono, date di nascita e altri dati personali. Il ricercatore di sicurezza Baptiste Robert ha segnalato la cosa con discrezione ai responsabili, che hanno corretto la falla e ringraziato per la segnalazione.

Sì, si può nascondere un virus in un file audio, ma niente panico

La notizia (rilanciata per esempio da ANSA) che i virus “si possono nascondere anche nei file audio” ha comprensibilmente spaventato parecchi utenti. Ma non è il caso di farsi prendere dal panico.

L’annuncio arriva dai ricercatori di sicurezza di Cylance, che hanno scoperto che alcuni criminali informatici stanno diffondendo i propri malware inserendoli in maniera nascosta all’interno di normali file audio WAV.

Gli antivirus spesso non controllano questi file, perché sono considerati sicuri. Eppure non c’è da preoccuparsi comunque, perché in realtà non è possibile infettarsi semplicemente scaricando e ascoltando un file audio WAV: una precisazione che manca in molte versioni della notizia.

Cylance, infatti, spiega che per infettarsi l’utente dovrebbe prima scaricare un programma ostile ed eseguirlo. Il programma leggerebbe poi il file audio nel quale sta nascosto il malware (grazie alla steganografia) e lo estrarrebbe, eseguendolo. L’infezione avrebbe effetto solo in questo caso.

Morale della storia: se non scaricate e installate programmi che arrivano da chissà dove, potete aprire tranquillamente i file audio.



Il motore di ricerca “da hacker”

Ultimo aggiornamento: 2019/10/25 10:25. 

Volete stupire i vostri amici facendo comparire sul vostro schermo dei risultati di ricerca in “stile hacker”, ossia come caratteri verdi su sfondo nero, e al tempo stesso tutelare la vostra privacy?

Si può fare con questo trucchetto offerto dal motore di ricerca DuckDuckGo, che usa i risultati di Wikipedia e di vari motori di ricerca, fra cui Bing, Yahoo e Yandex, ma ne blocca la raccolta di dati personali degli utenti. Basta andare a https://duckduckgo.com/tty e digitare l’argomento della ricerca.

DuckDuckGo è comunque utilizzabile anche in maniera normale.

Chicca: fra i comandi della “versione hacker” c’è anche qrcode, che genera automaticamente un codice QR corrispondente a qualunque cosa scriviate dopo la parola qrcode.


Grazie a decio per la segnalazione.

Come rubare password con Alexa o Google Home

Caso mai servissero altri promemoria che installarsi in casa o in ufficio un microfono aperto e connesso a Internet non è una buona idea in termini di sicurezza e privacy, gli esperti di Security Research Labs hanno creato una dimostrazione di come gli assistenti vocali Alexa di Amazon o Google Home possono essere manipolati per rubare password o altri dati personali ai loro utenti oppure per ascoltare le loro conversazioni.

Su questi dispositivi è possibile installare delle specie di app, chiamate skill per Alexa e Action per Google Home, che ne estendono le capacità.

In due video dimostrativi, gli esperti mostrano come è possibile ingannare gli utenti:




La vittima invoca, con un comando vocale, un’app di oroscopi (creata dai ricercatori). L’app risponde dicendo che il servizio non è disponibile nel paese dell’utente, e così l’utente pensa che l’app sia terminata. Ma in realtà l’app è ancora attiva, e nelle sue istruzioni c’è un silenzio di un minuto, inserito grazie a un difetto di programmazione: la sequenza di caratteri U+D801 - punto - spazio, che non è pronunciabile, viene “pronunciata” come silenzio.

Dopo il minuto di silenzio, che fa pensare all’utente ancora più chiaramente che l’app (skill/action) precedente sia finita, l’assistente vocale annuncia che è disponibile un aggiornamento del dispositivo e chiede di pronunciare la password dell’account per autorizzarne l’installazione.

Né Google né Alexa chiederebbero mai la password in questo modo, ma inevitabilmente ci sono tanti utenti che non lo sanno e quindi pensano che la richiesta sia assolutamente legittima.

Se l’utente cade nella trappola e dice la propria password, questa viene registrata dall’app ostile. I gestori dell’app possono a questo punto usare questa password per prendere il controllo dell’account Amazon o Google, con tutte le conseguenze del caso.

Twitter: quell'utente è vero o è un bot? Lo scopre Twitonomy

Sapere se un account social è gestito da una persona reale o è invece un bot (un profilo social che pubblica cose sotto il comando di un programma automatico) è importante, sia per i giornalisti sia per gli utenti comuni. Gli account automatici sono infatti usatissimi per le campagne di disinformazione e per le molestie oltre che per far semplicemente perdere tempo agli utenti con domande insistenti o commenti provocatori.

Fra i vari social network, Twitter è particolarmente frequentato da bot, per esempio per motivi politici.

Si possono riconoscere i bot di Twitter manualmente usando indicatori come questi:

  • un alto numero medio di tweet e retweet giornalieri (oltre 70, per esempio)
  • pubblica tweet sempre agli stessi orari o negli stessi giorni della settimana
  • pubblica tweet costantemente, senza mai fare pause (un utente reale dormirebbe, ogni tanto)
  • un’immagine generica nel profilo, oppure nessuna immagine o un’immagine trovabile su Internet
  • tanti numeri nel nome utente
  • retweet di altri account sospetti
Ma questo tipo di analisi si può anche realizzare in modo rapido e automatizzato: gli esperti di First Draft consigliano Twitonomy, che è gratuito (anche se è disponibile una versione a pagamento che offre alcuni servizi in più). Non è infallibile, ma è molto efficiente nell’evidenziare probabili segnali di attività automatiche o pilotate.

Twitonomy chiede accesso in scrittura all’account Twitter dell’utente, e questo può impensierire: ma il problema si risolve facilmente creando un account Twitter apposito.

Se avete un account Twitter con tanti numeri nel nome e nessuna immagine semplicemente perché siete pigri e l’avete aperto di corsa, insomma, ora capite perché la gente vi risponde poco o male o vi accusa di essere dei bot.

2019/10/23

Voto elettronico svizzero, analisi impietosa delle falle che hanno portato alla sua sospensione

Pochi giorni fa Sarah Jamie Lewis di Open Privacy è stata a Zurigo per una presentazione sulle falle scoperte da lei e altri ricercatori (Vanessa Teague e Olivier Pereira) nel sistema di e-voting svizzero proposto da Swisspost e Scytl, di cui ho parlato in altri articoli. Questo è il video della sua conferenza: le slide sono disponibili qui. La conferenza vera e propria inizia a 6:25.



La conferenza è piuttosto tecnica, ma in estrema sintesi, l’analisi dimostra che sarebbe stato possibile alterare i risultati di voto senza lasciare tracce e soprattutto producendo una verifica (illusoria) che avrebbe fatto credere a tutti che non c’era stata alcuna alterazione e che anzi il risultato era garantito dalla matematica.

Come dice Sarah Jamie Lewis, “se dei ricercatori che lavorano quando sono a corto di sonno possono scardinare il tuo sistema, allora possono farlo anche i veri malintenzionati”.


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2019/10/22

Caffè spaziali: Samantha Cristoforetti e le citazioni di “Star Trek: Voyager”

L’account Twitter ufficiale di Star Trek ha citato di recente una chicca da Trekker: mentre Samantha Cristoforetti era a bordo della Stazione Spaziale Internazionale, nel 2015, fece due citazioni di Star Trek: Voyager, indossando oltretutto la divisa della serie. @Rainmaker1973 ha ripescato anche le clip video con le fonti di quelle citazioni.

La prima è questa: "There's coffee in that nebula"... ehm, I mean... in that #Dragon, perché alle sue spalle c’era una capsula Dragon che trasportava una macchinetta per caffé progettata appositamente per superare le severe norme di sicurezza della Stazione:



La frase originale era una battuta del capitano Janeway di ST: Voyager, tratta dall’episodio The Cloud:




La seconda è questa: "Coffee: the finest organic suspension ever devised."



La citazione letterale è tratta dall’episodio Hunters:



Ogni tanto bisogna ricordare quanto è bello essere geek.


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2019/10/19

Puntata del Disinformatico RSI del 2019/10/18

Dopo una pausa di due settimane, sono ritornato a fare il mio consueto programma radiofonico. È disponibile la puntata di ieri del Disinformatico della Radiotelevisione Svizzera, condotta da me insieme a Christian.

Podcast solo audio: link diretto alla puntata.

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App RSI (iOS/Android): qui.

Video: lo trovate qui sotto. Se l’embedding non funziona, provate questo link.

Archivio dei video precedenti: La radio da guardare sul sito della RSI.

Buona visione e buon ascolto!


Perché le stazioni spaziali ruotano solo nella fantascienza?

Eleganti nella loro simmetria e forma circolare, volteggiano nel cosmo in tante illustrazioni classiche di progetti spaziali e film di fantascienza, accompagnate magari dalle note del Danubio blu: sono le stazioni spaziali e le astronavi che ruotano su se stesse, usando l’effetto centrifugo per simulare la gravità nello spazio.

Erano un’idea prediletta di grandi nomi della ricerca spaziale come Konstantin Tsiolkovsky e Wernher Von Braun, furono proposte seriamente negli anni Settanta dalla NASA, e hanno costellato decenni di iconografia fantascientifica, da 2001 Odissea nello spazio a Elysium a The Martian a Interstellar. Ma non sono mai diventate realtà, nonostante un pedigree tecnico così autorevole, e probabilmente non lo diventeranno mai. Perché?


Un po’ di storia


Il russo Konstantin Tsiolkovsky, scienziato e pioniere della teoria dei voli spaziali, concepì l’idea di usare la rotazione per creare gravità artificiale nello spazio già nel 1903, quasi sei decenni prima del primo volo spaziale umano. La forma a ruota fu proposta nel 1929 dallo sloveno Herman Noordung (Herman Potočnik) nel suo studio Das Problem der Befahrung des Weltraums (Il problema del volo spaziale).

Il tedesco Wernher Von Braun, progettista chiave dei programmi spaziali statunitensi, immaginò negli anni Cinquanta una stazione a forma di ruota avente un diametro di 76 metri, che avrebbe ruotato su se stessa tre volte al minuto producendo sul proprio bordo, costituito da un tubo semirigido gonfiabile abitato su tre livelli, una gravità simulata equivalente a un terzo di quella terrestre. Questa stazione sarebbe stata l’avamposto dal quale sarebbero partite le missioni verso la Luna e i pianeti.

Le illustrazioni di questa ruota spaziale nella popolarissima rivista statunitense Colliers Magazine, realizzate da grandi artisti come Chesley Bonestell e accompagnate da articoli che ne divulgavano le caratteristiche tecniche con invidiabile ottimismo, cementarono quest’idea nell’immaginario collettivo.

La stazione rotante circolare proposta da Von Braun nel 1952 e illustrata da Chesley Bonestell. Foto NASA MSFC-75-SA-4105-2C.

Nei piani di Von Braun, la stazione spaziale sarebbe stata dotata di un grande collettore solare (la struttura semicircolare appoggiata sopra l’anello abitativo) e sarebbe stata alimentata, secondo i disinvolti standard dell’epoca, da un reattore nucleare situato nella porzione centrale.

L’idea della stazione a forma di ruota fu poi trasposta sul grande schermo in modo memorabile dal regista Stanley Kubrick in 2001 Odissea nello spazio (1968), film nel quale anche l’astronave interplanetaria Discovery è dotata di una sezione rotante per creare a bordo una zona dotata di gravità apparente.

La stazione spaziale rotante di 2001 Odissea nello spazio (1968).


La sezione rotante dell’astronave Discovery di 2001 Odissea nello spazio (1968).

Studi della NASA svolti negli anni Settanta svilupparono in dettaglio l’idea del toroide di Stanford, ossia di una gigantesca struttura toroidale, con un diametro di 1,8 chilometri, messa in rotazione alla velocità di un giro al minuto per produrre nella zona periferica un effetto equivalente alla gravità terrestre e capace di ospitare alcune migliaia di persone.

Il toroide di Stanford (1975), al di sotto del quale è posizionato un colossale specchio per illuminare l’interno. Fonte: Wikipedia.


La corsa alla Luna, tuttavia, fece mettere da parte queste tappe intermedie in favore di veicoli capaci di raggiungere le proprie destinazioni direttamente, senza passare da una stazione. I budget sempre più scarsi erogati dai governi alle agenzie spaziali negli anni successivi agli sbarchi umani sulla Luna stroncarono queste ambiziose strutture rotanti. Al loro posto furono realizzate stazioni spaziali non rotanti, come le Salyut e Mir sovietiche, lo Skylab statunitense, la Tiangong cinese e la Stazione Spaziale Internazionale.

La stazione Skylab statunitense.


La stazione spaziale sovietica Salyut 7.

La stazione spaziale sovietica Mir.

Illustrazione di una stazione spaziale cinese della serie Tiangong e di un veicolo spaziale Shenzhou.

La Stazione Spaziale Internazionale nel 2009.


Mal di spazio


La condizione di assenza di peso o di caduta libera continua che si verifica in un veicolo spaziale orbitante attuale lo rende ideale per qualunque esperimento in microgravità, come avviene oggi sulla Stazione Spaziale Internazionale, ma comporta numerosi svantaggi che renderebbero molto desiderabile una forma di gravità artificiale.

L’assenza di peso prolungata è infatti deleteria per l’organismo umano, perché altera la distribuzione dei fluidi corporei, atrofizza i muscoli, indebolisce le ossa, deforma il bulbo oculare riducendo la vista a volte in maniera permanente, deprime il sistema immunitario e causa nausea e perdita dell’equilibrio al momento del ritorno in gravità. Arrivare su Marte dopo qualche mese di viaggio e non riuscire a stare in piedi, non vederci bene o vomitare dentro la tuta spaziale sarebbe imbarazzante.

Lo stato di caduta libera è anche una complicazione drammatica in caso di ferite aperte o interventi chirurgici: il sangue rilasciato si disperde infatti in tutte le direzioni come una fontana, occultando il campo operatorio invece di defluire e imbrattando qualunque superficie circostante.

Questa assenza di peso è inoltre fonte di disagi in moltissime attività quotidiane, come l’uso dei servizi igienici (liquidi e solidi devono essere aspirati, non sempre con risultati efficaci) e l’igiene personale (un bagno o una doccia sono praticamente impossibili), e complica la progettazione e costruzione di propulsori (il propellente fluttua invece di assestarsi sul fondo del serbatoio, creando irregolarità di alimentazione e sciabordii interni destabilizzanti) e degli impianti di ventilazione: l’aria scaldata dal calore corporeo rimane tutt’intorno alla persona invece di allontanarsi per convezione e lo stesso vale per l’anidride carbonica esalata, obbligando l’uso di sistemi di circolazione forzata.

Una stazione spaziale o un veicolo interplanetario che avesse una sezione rotante abitabile, per esempio un anello o dei moduli separati, risolverebbe tutti questi problemi. Eppure la Stazione Spaziale Internazionale non ruota e nessuno dei veicoli spaziali progettati per futuri viaggi interplanetari integra sezioni rotanti. Non è questione di costi: è un problema di fisica di base.


Forze inattese


L’ostacolo principale all’uso di stazioni e veicoli spaziali rotanti è il nostro senso dell’equilibrio. L’orecchio interno è estremamente abile nel percepire il movimento e la gravità, e muoversi all’interno di un corpo rotante significa subire l’effetto Coriolis, che devia ogni oggetto che vari la propria distanza dal centro di rotazione. Un astronauta che si alzasse in piedi o si abbassasse all’interno di una centrifuga spaziale verrebbe colpito da attacchi di nausea, perché i fluidi dell’orecchio interno verrebbero deviati da questo effetto rispetto alla “verticale” locale, mandando al cervello segnali contraddittori continui.

Lo stesso avverrebbe per ogni rotazione del capo, e inoltre un astronauta che camminasse in direzione opposta al senso di rotazione annullerebbe l’effetto centrifugo e si troverebbe improvvisamente a fluttuare. Sarebbe una situazione decisamente disorientante.

Questi fenomeni diminuiscono man mano che aumenta la dimensione della struttura rotante, ma per farli diventare trascurabili sarebbero necessari diametri enormi, dai cento metri in su, con vertiginosi aumenti dei costi e difficoltà tecniche altrettanto critiche.


Ruote sbilanciate


Una struttura rotante, inoltre, si troverebbe soggetta a squilibri e sollecitazioni derivanti dalla distribuzione non uniforme delle masse e al loro spostamento al suo interno: è il motivo per cui è necessario effettuare il bilanciamento delle ruote delle automobili. Gli oggetti a bordo dovrebbero essere disposti in modo perfettamente bilanciato e un astronauta che si spostasse da una parte all’altra della stazione o astronave rotante produrrebbe delle forze che tenderebbero ad alterare l’asse di rotazione. Lo stesso varrebbe per qualunque trasferimento di masse o fluidi da una parte all’altra della struttura: un dettaglio cruciale, spesso dimenticato con disinvoltura dai film di fantascienza.

Ancora una volta, per evitare che queste forze facessero oscillare il veicolo o la stazione in maniera incontrollata e irregolare sarebbe necessario avere diametri e masse enormi o complessi sistemi di compensazione della distribuzione delle masse, con costi e difficoltà realizzative attualmente insostenibili.


In Interstellar, il veicolo spaziale Endurance mantiene magicamente una rotazione stabile nonostante sia stata fortemente sbilanciata dalla colossale stupidità di Matt Damon.


Finestrini, giunti ed attracchi da incubo


Avere una stazione o un veicolo spaziale interamente rotante significherebbe che un astronauta che guardasse fuori da un finestrino vedrebbe tutto il cielo girargli intorno costantemente: un effetto sicuramente disorientante e sgradevole, che oltretutto renderebbe impraticabile qualunque attività di navigazione basata sulla posizione delle stelle. Amedeo Balbi presenta questo grafico del rapporto fra raggio della stazione e velocità di rotazione in questo suo video a 9:45. Una stazione con un diametro di due chilometri dovrebbe fare un giro al minuto, correndo come la lancetta dei secondi sul quadrante di un orologio.



La rotazione renderebbe inoltre complicatissimo qualunque attracco di un veicolo di rifornimento o di trasferimento di astronauti: sarebbe necessario fermare la rotazione per ogni distacco o attracco, causando sollecitazioni alla struttura e producendo scompiglio a bordo (qualunque oggetto non vincolato continuerebbe a ruotare e “cadrebbe” lateralmente).

La soluzione mostrata con kubrickiana eleganza in 2001 Odissea nello spazio, ossia far ruotare il veicolo che deve attraccare alla stessa velocità alla quale ruota la stazione spaziale, richiederebbe un allineamento assiale perfetto e un’altrettanto perfetta corrispondenza delle velocità di rotazione. Ma un attracco orbitale è già ora una manovra cruciale e complicatissima senza introdurre tutte queste difficoltà aggiuntive.

Si potrebbe concepire una stazione oppure un veicolo spaziale avente soltanto alcune porzioni che ruotano: questo risolverebbe i problemi di attracco (i veicoli in visita attraccherebbero alla parte non rotante) e di disorientamento e navigazione stellare (i finestrini e gli strumenti di puntamento delle stelle sarebbero situati solo nella parte non rotante).

Tuttavia questo introdurrebbe un altro problema tecnico: sarebbe infatti necessario costruire un giunto rotante perfettamente ermetico fra la parte rotante e quella fissa. Da questo giunto dovrebbero passare inoltre tutti i cavi di alimentazione e le condotte di trasporto dei fluidi. Qualunque malfunzionamento di questo giunto comprometterebbe l’intera stazione o astronave. Ancora una volta, la complessità realizzativa sarebbe così elevata da rendere rischioso e poco praticabile questo approccio.


Soluzioni alternative


L’idea delle stazioni o astronavi rotanti sembra insomma destinata a restare sulla carta o sullo schermo. Ma esistono altri metodi per ottenere lo stesso risultato di gravità artificiale senza tutti gli effetti negativi descritti fin qui.

Uno è già stato sperimentato, sia pure in maniera modesta: nel 1966 la missione statunitense Gemini 11 unì con un cavo di 30 metri la capsula con gli astronauti al vettore Agena senza equipaggio, e l’insieme fu messo in lenta rotazione, a 0,15 giri al minuto, come delle bolas.

Il vettore Agena collegato con un cavo alla capsula Gemini 11 nel 1966 durante un esperimento di gravità artificiale. Fonte: JSC Digital Image Collection.


Questo produsse a bordo della capsula 0,0005 g: pochissimo, ma comunque sufficiente a dimostrare la fattibilità di un veicolo nel quale la parte abitata ruota all’estremità di un cavo intorno a una massa centrale. Una struttura del genere minimizza i problemi di equilibratura e riduce enormemente le masse in gioco, rendendola più fattibile con i vettori di lancio attuali e consentendo un arresto della rotazione per gli attracchi.

Un’altra soluzione, ancora più elegante, è sottoporre il veicolo a una propulsione continua: finché il motore è acceso, tutto a bordo sarà soggetto a un’accelerazione lungo l’asse di spinta. Non ci sarebbe nessun effetto Coriolis e si interromperebbe la gravità artificiale semplicemente spegnendo il propulsore. I motori chimici tradizionali non sono in grado di funzionare continuamente, ma i propulsori ionici (già in uso su sonde come Dawn o BepiColombo) possono farlo, anche se attualmente erogano spinte modestissime e quindi produrrebbero gravità artificiali molto lievi.

La terza alternativa è utilizzare la gravità naturale: la massa di un asteroide come Cerere o Vesta, per esempio, genera spontaneamente circa un cinquantesimo della gravità terrestre. Ma la propulsione necessaria per variare la traiettoria di un oggetto così massiccio è, almeno per ora, irrealizzabile.

Con somma gioia di Mel Brooks e di tutti i suoi fan, insomma, forse un giorno ci troveremo ad andare verso Marte a bordo di bolas spaziali.


Questo mio articolo è stato pubblicato per la prima volta su carta sulla rivista Spazio Magazine dell'Associazione ADAA, è stato aggiornato rispetto alla versione iniziale e vi arriva gratuitamente e senza pubblicità grazie alle donazioni dei lettori di questo blog. Se vi è piaciuto, potete incoraggiarmi a scrivere ancora facendo una donazione anche voi, tramite Paypal (paypal.me/disinformatico), Bitcoin (3AN7DscEZN1x6CLR57e1fSA1LC3yQ387Pv) o altri metodi.