A proposito dell’articolo de La Stampa del 12 luglio scorso pieno di falsità sulle missioni lunari a firma di Luigi Grassia (ne ho scritto qui), poco fa ho inviato questa mail al direttore (andrea.malaguti@lastampa.it) e a lettere@lastampa.it.
Oggetto: Richiesta di rettifica vostro articolo a firma Luigi Grassia
Buongiorno,
sono un giornalista specializzato in storia delle missioni spaziali. Le segnalo che l'articolo a firma Luigi Grassia intitolato “Polemica: sulla Luna siamo andati o no? Il film “Fly me to the Moon” rilancia i dubbi” contiene numerosi gravi errori fattuali e varie affermazioni offensive nei confronti di chi lavora nell’industria aerospaziale odierna, di cui l’Italia è protagonista.
Grassia dice che “alcune delle foto che la Nasa ha diffuso al tempo delle missioni Apollo sono state riconosciute come false dalla stessa Nasa, che ha dovuto ritirarle”. Non è vero.
Grassia afferma anche che “la Nasa diffuse a suo tempo, fra migliaia di altre, una doppia versione di una foto dell’Apollo 15 sulla Luna.” Anche questo non è vero.
Possiedo i cataloghi originali NASA delle foto di quella missione. Non c'è nessuna “doppia versione”.
Per cui le insinuazioni di Grassia sulla NASA e sulle sue presunte “ammissioni sporadiche di falso” sono un parto della fantasia o dell’incompetenza di qualcuno a cui Grassia ha prestato troppa fiducia.
Oltretutto tutte queste asserzioni di Grassia vengono fatte senza dare un riferimento documentale. Quando sarebbero state fatte queste “ammissioni”? Da chi? Ogni foto della NASA ha un numero di serie che la identifica: perché non indicare quale sarebbe il numero della foto “doppia”?
Trovo davvero spiacevole che si dia spazio, a cinquantacinque anni dall’impresa lunare, a tesi strampalate già smentite abbondantemente da tutti gli storici e dagli addetti ai lavori.
Trovo deprimente che dalle pagine de La Stampa si getti fango sulla comunità aerospaziale di oggi, asserendo che “purtroppo la tecnologia con cui mezzo secolo fa siamo andati sulla Luna è andata perduta e non si riesce a replicarla”. È falso.
La tecnologia spaziale degli anni sessanta non è “andata perduta”, ma è diligentemente archiviata e viene tuttora consultata da chi costruisce veicoli spaziali in tutto il mondo. Ed è falso che “non si riesce a replicarla”, che vuol dire dare degli incapaci agli ingegneri aerospaziali di oggi. Si riesce eccome, ma si vogliono evitare i rischi pazzeschi che furono accettati mezzo secolo fa, e ci sono molti meno soldi, per cui si procede con grande prudenza.
Proprio a Torino, presso Thales Alenia, si progettano e costruiscono i moduli della stazione orbitale lunare per il ritorno di equipaggi sulla Luna.
Che dalle pagine di un quotidiano torinese si offenda chi studia per anni e lavora sodo per ottenere un risultato che pone Torino e l’Italia all'avanguardia nel mondo è davvero sconfortante.
Chiedo che l’articolo venga rettificato, come previsto dalla deontologia dell'Ordine dei Giornalisti e dalla dignità di una testata storica.
Se le servono fonti tecniche e documentali, sono a sua disposizione. Sono stato consulente dell’Apollo Lunar Surface Journal della NASA, di SuperQuark per la puntata dedicata al primo allunaggio, ho scritto un libro dedicato allo sbufalamento delle tesi di complotto (“Luna? Sì, ci siamo andati!”), sono traduttore personale degli astronauti Apollo e sono stato alla NASA due volte a prendere un campione di roccia lunare da portare in Italia per mostre ed eventi pubblici. In altre parole, conosco abbastanza bene la materia sulla quale Grassia pubblica con preoccupante disinvoltura falsità offensive.
Cordiali saluti
Paolo Attivissimo
Giornalista
Lugano, Svizzera
Nessun commento:
Posta un commento