Antibufala: quelle maliziose gonne “trasparenti” giapponesi
“Prima o poi arrivano anche da noi.............” inizia l'appello che circola in Rete da metà febbraio. “Non sono gonne trasparenti. Sono stampe sulle gonne che fanno sembrare che si vedano le mutande: attualmente molto di moda in Giappone. Non mi sembra ci siano anche per l'uomo, dovremo attendere un po'.”
L'appello è accompagnato da una serie di foto che sembrano mostrare gonne sulle quali sono stampate immagini di gambe e posteriori mutandati che danno l'illusione di essere quelli della persona che indossa la gonna.
Altro che nuova moda giapponese! Le immagini sono dei fotomontaggi digitali. Lo si nota da un particolare rivelatore in una delle immagini, quella della donna con la borsetta marrone: il bordo della mutandina, sul gluteo sinistro, si vede attraverso la maniglia della borsetta. Basta ingrandire l'immagine per notarlo.
Inoltre, come segnalato dal famoso sito antibufala Snopes.com presso http://www.snopes.com/photos/skirts.asp, in tutte le foto le immagini delle mutande e delle gambe sono sempre perfettamente allineate con la posizione del sedere e delle gambe delle “modelle”, cosa impossibile da ottenere nella realtà. Il fotomontaggio è ottenuto abbastanza semplicemente, scattando due foto alla “modella” nella medesima posizione: una con la gonna e una senza. Poi con il fotoritocco digitale si fondono le due immagini.
Il fatto che sia una bufala è confermato ulteriormente da altre fonti come ad esempio il sito Web di moda Japanese Streets (http://www.japanesestreets.com/jsnews), che il 22 febbraio 2003 ha pubblicato un articolo, “Fashion Hoax Fools People Worldwide”, che riporta il testo inglese di questa bufala, grosso modo corrispondente a quello italiano: “What you see below are not see-thru skirts. They are actually prints on the skirts to make it look as if the panties are visible and the current rage in Japan.”
Japanese Streets riferisce che “in molti hanno scritto a Kjeld Duits, giornalista e fotografo di moda operante in Giappone” nonché gestore del sito stesso “chiedendo aiuto per trovare chi produce questi indumenti”, ma Duits chiarisce che la gente “non si rende conto che questo tipo di fotomontaggi è molto popolare nelle riviste porno giapponesi più economiche”. Duits, in una intervista per il Toronto Star (http://www.thestar.com/NASApp/cs/ContentServer?pagename=thestar/Layout/Article_Type1&c=Article&cid=1035778292167&call_pageid=973280119494&col=969048867776) racconta che queste riviste spesso affermano di aver scattato queste immagini usando “un obiettivo speciale che consente loro di fotografare attraverso i vestiti”. Se a qualcuno questo ricorda certi “occhiali a raggi X” pubblicizzati da certi fumetti in epoche ormai passate e più ingenue, è in buona compagnia.
Chi ci è cascato? A parte i tanti utenti della Rete che hanno propagato questa bufala, lo stesso articolo del Toronto Star riferisce che ha abboccato anche il giornale Sunday Mail del Queensland, in Australia, con un articolo intitolato "A Cheeky Skirt" che sostiene (senza prendersi la briga di verificare) che questi indumenti “stanno impazzando a Tokyo”. A riprova che le penne rubate all'agricoltura non sono un'esclusiva italiana.
Attenzione, però: in in certo senso, la bufala potrebbe diventare realtà: infatti Duits riferisce che un importatore israeliano, al quale ha spiegato che quelle gonne non esistevano, avrebbe deciso di fabbricarle. In tal caso, però, le leggi dell'ottica obbligheranno a risultati molto meno realistici di quelli mostrati nei fotomontaggi di questo appello.
Un altro modo in cui le immagini riprese attraverso i vestiti potrebbero diventare realtà è la tecnologia del terahertz imaging, descritta ad esempio presso Space.com (http://www.space.com/businesstechnology/technology/t-ray_camera_020613.html), che racconta delle prove pratiche condotte dall'agenzia spaziale europea: l'articolo mostra una foto di una mano ripresa attraverso un ostacolo opaco di un centimetro e mezzo di spesso (un blocco note) e un'immagine di una persona vestita, “denudata” da questa tecnologia.
Non eccitatevi: le immagini vanno bene per rivelare un'arma nascosta, ma per il resto non sono paragonabili ai fotomontaggi giapponesi, che sono e restano bufale.
Scansioni e recensioni
Grazie ai lettori che mi hanno mandato la citazione del Servizio Antibufala della rivista Max. Nel numero del mese prossimo dovrebbe esserci una mia intervista, per cui avete finalmente un motivo serio (donnine a parte, insomma) per acquistarla.
Un lettore mi ha segnalato che il Servizio Antibufala è stato citato dal Venerdì di Repubblica di oggi 7/3/2003. Siccome non abito in Italia, se qualcuno fosse così gentile da appagare la mia smisurata vanità e scansionarmene una copia, gliene sarei grato.
Quel benedetto “Manuale di autodifesa telefonica”
Molti ma molti anni fa scrissi un testo, il “Manuale di autodifesa telefonica” (una guida ai trucchi della telefonia italiana dell'epoca), e lo distribuii in Rete, o per meglio dire su Fidonet. Misteriosamente, nei miei archivi non ne ho più traccia, salvo una bozza assai incompleta. Qualcuno ne ha una copia?
Antibufala: perché si fa una guerra, rispondono professore e studente
Sono stato contattato direttamente dal professor Rodolfo Soncini-Sessa, del Politecnico di Milano (citato qui con il suo permesso), che tiene il corso da cui sarebbero state tratte le informazioni citate nell'appello “Perché si fa una guerra”, già descritto nella newsletter scorsa, che mi ha chiarito la sua estraneità all'appello. Come già accennato, l'appello è invece una libera interpretazione, da parte di uno studente, di una risposta fornita dal professore al termine di una lezione.
Mi ha scritto anche lo studente autore della presentazione PowerPoint che accompagna l'appello, chiedendo di pubblicare una rettifica. Il testo integrale della rettifica e un massiccio aggiornamento dell'indagine antibufala sono disponibili presso
http://www.attivissimo.net/antibufala/perche_si_fa_guerra.htm
I punti salienti della rettifica sono questi. “Ho appreso che la presentazione da me creata contiene parecchi errori, anche gravi, che stanno causando un danno di immagine al Politecnico di Milano, ad un suo docente ed ai soggetti che ho erroneamente menzionato nel file, a cui vanno le mie scuse” spiega lo studente, che ha richiesto l'anonimato. “questo file non è in alcun modo uno studio del Politecnico [..] la presentazione, che avevo creato per un ristretto gruppo di amici, non voleva in alcun modo essere un atto diffamatorio nei confronti dei soggetti relativamente ai quali ho detto cose non vere.”
Lo studente prosegue chiarendo alcuni degli errori più vistosi: “nessuna delle compagnie petrolifere è di proprietà statale americana [...] in particolare non lo sono la Tamoil, la Shell e la Esso, da me esplicitamente menzionate [...] in Venezuela non operano compagnie petrolifere straniere da quando, 26 anni fa, la gestione dell'estrazione del greggio è stata nazionalizzata [...] L'organizzazione umanitaria Emergency, di cui invitavo a sottoscrivere l'appello contro la guerra, non ha avuto alcun ruolo nella vicenda della creazione e della diffusione del file.”
Insomma, sul fatto che i dati siano palesemente errati non ci piove. Resta il dubbio che possa essere vero il ragionamento di fondo dell'appello, ossia che la Guerra del Golfo sarebbe stata pagata da “noi”, dove non è chiaro se “noi” significa “noi consumatori europei” o “noi consumatori (compresi quelli americani)”.
Un sito Web, Tempi.it, ha analizzato questo appello in un documentato articolo di Rodolfo Casadei (http://www.tempi.it/archivio/articolo.php3?art=4893), che osserva in proposito che “viene da chiedersi perché sauditi e yankees abbiano voluto liberare il Kuwait, se col petrolio a 42 dollari ci guadagnavano tanto” e che “all’impennata del prezzo del greggio nel ’91 seguirono tre anni di depressione economica: se il fisco americano ci aveva guadagnato qualcosa nei 6 mesi di prezzi alle stelle, ci ha sicuramente rimesso di più negli anni seguenti per la flessione del Pil.”
Difficile, dunque, sostenere anche il ragionamento proposto dall'appello. Visto però che ci sono quelli che vogliono solo sentire ciò che soddisfa i loro preconcetti, anche se è falso, per questa indagine mi sono beccato del “servo dei servi” e compagnia bella. Non preoccupatevi, non mi scaldo per gli insulti degli incapaci. Incapaci di leggere la premessa che avevo scritto nella pagina Web proprio per scoraggiare questo tipo di reazione, e che mi permetto di ripetere qui: “Questa non è un'indagine pro o contro l'intervento militare in Iraq. Intende semplicemente valutare quanto sia corretta una serie di affermazioni che circola in Rete con l'apparenza di provenire da fonti autorevoli. L'esattezza o meno di queste affermazioni non ha nulla a che vedere con le mie e vostre opinioni sugli aspetti militari descritti nell'appello. La disinformazione è un danno sempre e comunque.”
Ma si vede che a certa gente la verità e la correttezza dei dati non interessano. Pronta ad accusare governi e politici di manipolare ad arte le notizie e di diffondere dati falsi, non esita però ad abbassarsi ad usare le stesse squallide tattiche, purché servano ai propri interessi. Che pena. Spero che la pace sia difesa più concretamente da gente con un briciolo di onestà intellettuale in più.
Il più grande database del mondo
Immaginate un archivio di dati che cresce al ritmo di un terabyte al giorno. Per chi non ha dimestichezza coi prefissi, “tera” sta per mille miliardi. Significa che quell'archivio riempirebbe un disco rigido da cento giga ogni due ore, o se preferite un CD al minuto. Chi genera queste quantità impressionanti di dati è lo SLAC (http://www.slac.stanford.edu) di Stanford, dove i fisici delle particelle studiano i componenti fondamentali della materia. Secondo Harvey Newman, professore di fisica al Caltech, gli ultimi esperimenti ad alta energia già devono gestire dati dell'ordine dei petabyte (un milione di miliardi di byte) e si prevede che nei prossimi dieci anni questa cifra aumenti di altre mille volte.
Tutto questo fa sembrare veramente misero il vostro nuovissimo PC? C'è di peggio: anche la vostra connessione a Internet fa schifo, qualunque essa sia, in confronto a quella offerta dai nuovi record di trasmissione offerti dall'Internet prossima ventura, denominata Internet2 (http://www.internet2.edu). Il nuovo record di velocità, raggiunto il 6 marzo 2003 con la partecipazione appunto dello SLAC, è di 923 megabit al secondo, pari a quattro ore di film in DVD in meno di un minuto, fra Sunnyvale (USA) ed Amsterdam.
Quattro ore di DVD in meno di un minuto? Aspettate che lo sappiano quelli dell'antipirateria...
Web: cellulare batte PC due a uno
Che cosa succederà al Web quando lo strumento di accesso principale non sarà più il PC, ma il cellulare? Cifre alla mano, ormai manca poco. Meglio prepararsi per tempo. L'abbinamento del Sony P800 con il browser Opera promette rivoluzioni in Rete. Ho scritto un articoletto in proposito per Apogeonline, lo trovate qui:
http://www.apogeonline.com/webzine/2003/03/04/01/200303040101
Ciao da Paolo.
Questo articolo è una ripubblicazione della newsletter Internet per tutti che gestivo via mail all’epoca. L’orario di questa ripubblicazione non corrisponde necessariamente a quello di invio della newsletter originale. Molti link saranno probabilmente obsoleti.
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