È disponibile subito il podcast di oggi de Il Disinformatico della Radiotelevisione Svizzera, scritto, montato e condotto dal sottoscritto: lo trovate qui sul sito della RSI (si apre in una finestra/scheda separata) e lo potete scaricare qui.
Le puntate del Disinformatico sono ascoltabili anche tramite iTunes, Google Podcasts, Spotify e feed RSS.
Buon ascolto, e se vi interessano il testo di accompagnamento e i link alle fonti di questa puntata, sono qui sotto.
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[CLIP: Topolino che fischietta, da Steamboat Willie]
Non vi preoccupate: sì, questa è la sigla con la quale da anni iniziano i prodotti audiovisivi della Disney, ma questo podcast non è stato comprato dalla casa madre di Topolino. Quella sigla c’entra per un altro motivo: è appena scaduto il suo copyright, dopo ben 95 anni, e quindi oggi è liberamente utilizzabile. Disney non ne ha più l’esclusiva. Ma quella sigla ha una storia molto particolare, che pochi ricordano e che permette di scoprire una chicca di tecnologia di un secolo fa.
Intanto la tecnologia di oggi annuncia l’intelligenza artificiale installata sui nuovi smartphone, ma non è tutto oro quello che luccica, e salta fuori che la cosiddetta modalità di navigazione in incognito di Google Chrome non è affatto in incognito.
Benvenuti alla puntata del 19 gennaio 2024 del Disinformatico, il podcast della Radiotelevisione Svizzera dedicato alle notizie e alle storie strane dell’informatica. Io sono Paolo Attivissimo.
[SIGLA di apertura]
Ricordiamo Topolino e Steamboat Willie per il motivo sbagliato
[CLIP: Topolino che fischietta, da Steamboat Willie]
Il primo gennaio scorso è scaduto il copyright su Steamboat Willie, il cartone animato della Disney del 1928 che rese celebre Mickey Mouse, o Topolino per usare il suo nome italiano. Se ne è parlato molto (RSI; RSI) perché proprio la Disney, negli scorsi decenni, ha fatto a lungo pressioni per estendere la durata dei diritti d’autore per proprio tornaconto, riuscendo a far cambiare più volte le leggi statunitensi e portando il copyright su certe opere fino a 95 anni dalla loro pubblicazione.
Il fatto che non ci siano state ulteriori estensioni segna una svolta storica nel settore: dal primo gennaio 2024 chiunque può usare liberamente l’immagine di Topolino, anche se va precisato che è liberamente usabile solo quel Topolino mostrato in Steamboat Willie, che ha delle caratteristiche ben differenti da quelle del Topolino moderno, e ci sono anche altre restrizioni.
Ma Steamboat Willie in realtà è un cartone animato importante per un altro motivo, che oggi è quasi dimenticato: fu il primo cortometraggio animato di successo distribuito con il cosiddetto sonoro sincronizzato. Cent’anni fa i film erano muti. Non si sentivano le voci degli attori, non c’erano effetti sonori e la colonna sonora musicale veniva eseguita dal vivo da un’orchestra o da un pianista o un organista. Erano stati fatti vari esperimenti per accoppiare il suono alle immagini, per esempio facendo partire un disco contenente l’audio nel momento in cui iniziava il film, ma si trattava di una sincronizzazione rudimentale che veniva persa facilmente, con risultati comici e imbarazzanti.
Walt Disney, però, era rimasto affascinato dal successo del film Il cantante di jazz, uscito l’anno precedente con una colonna sonora sincronizzata tramite disco, e decise di sonorizzare i propri cartoni animati, usando tuttavia una tecnica molto differente: l’audio veniva registrato sulla pellicola, insieme alle immagini, sotto forma di variazioni di trasparenza di una banda laterale della pellicola stessa, usando un ingegnosissimo sistema elettromeccanico molto steampunk, e quindi non si perdeva mai la sincronizzazione precisa.
Un’altra innovazione di Steamboat Willie fu l’uso di una cosiddetta click track: segni ottici sulla pellicola di lavorazione che davano ai musicisti il tempo esatto. Una sorta di metronomo visivo. Questo permise a Disney di far iniziare e terminare la musica proprio nell’istante desiderato, mentre nei film precedenti l’orchestra spesso finiva comicamente fuori tempo, non solo quando suonava dal vivo ma anche quando veniva preregistrata.
La reazione del pubblico e della critica alle novità tecniche di Steamboat Willie fu entusiasta e contribuì non poco alla fine dell’epoca del cinema muto. La storia che raccontava non era un granché, e i suoi personaggi non avevano molto spessore, ma il progresso tecnico che mostrava era evidente, coinvolgente e innegabile anche per i non esperti, come lo sarà qualche decennio più tardi il passaggio dal bianco e nero al colore, quello al formato 16:9 o IMAX, o quello al 3D. In altre parole, Steamboat Willie è l’Avatar di cento anni fa.
Fonte aggiuntiva: The trick that made Mickey Mouse famous (Phil Edwards, YouTube)
Intelligenza artificiale negli smartphone
Samsung ha appena presentato gli smartphone con intelligenza artificiale integrata o on-device. Probabilmente a questo punto siete un po’ stufi di sentire l’ennesimo annuncio di un prodotto al quale viene aggiunta l’intelligenza artificiale e in effetti molto spesso si tratta di un’aggiunta fatta più che altro per cavalcare la popolarità della IA e spacciare per nuovo qualcosa che tutto sommato non lo è.
Ma in questo caso la novità è importante, anche se a prima vista si tratta di qualcosa che abbiamo già sui nostri smartphone attuali. Per esempio, con i nuovi smartphone con IA integrata si può inquadrare un oggetto, indicarlo disegnandogli intorno un cerchio sullo schermo, e farsi dare informazioni utili su quell’oggetto: una cosa che si può già fare, grosso modo, con app come Google Lens. Si possono elaborare le immagini, per esempio togliendo i riflessi da una foto fatta attraverso una vetrina o un finestrino oppure cambiando lo sfondo di una fotografia, ma anche questo già si fa con i filtri e le app offerte da molti social network. Si può chiedere la trascrizione e la traduzione istantanea di una conversazione, come fanno già le app di trascrizione e traduzione, appunto. E sugli smartphone con IA integrata si può chiedere il riassunto di un testo o la composizione di una mail o di un post per i social network, come si fa già con ChatGPT e simili.
Ma allora dove sta la novità? Sta su due livelli: il primo è l’integrazione di questi servizi direttamente nelle app, per cui per esempio per tradurre non serve aprire l’app apposita e separata, ma si può usare questo nuovo servizio di traduzione restando nell’app che si sta usando. Possiamo usare il servizio di traduzione istantanea durante una telefonata, conversando con una persona che non parla la nostra lingua. Questo rende molto più veloci e fluide le attività da svolgere con lo smartphone. Si può essere più produttivi ed efficienti, per lavoro o per svago.
Il secondo livello, però, è quello più importante: con gli smartphone con intelligenza artificiale integrata, l’elaborazione viene svolta in tutto o in parte sul telefono invece che sui server remoti di qualche grande azienda. Questo vuol dire che i servizi di IA di questi nuovi telefoni funzionano, in alcuni casi, anche senza accesso a Internet.
Per esempio, il servizio di traduzione in tempo reale funziona anche a bordo degli aerei, in galleria o in qualunque altro posto in cui non c’è campo e non c’è il Wi-Fi. L’elaborazione locale, inoltre, elimina i tempi morti dovuti alla necessità di inviare i dati a un server remoto, farglieli elaborare e poi aspettare che vengano ricevuti i risultati. Ma soprattutto questa elaborazione locale significa che i nostri messaggi, le nostre conversazioni, le nostre foto vengono spesso trattate sul nostro dispositivo, senza finire nelle mani di qualche grande azienda che poi può analizzarle e rivenderle.
La IA integrata nei telefoni, insomma, è potenzialmente un enorme vantaggio in termini di privacy. Dico “potenzialmente” perché sfogliando le note scritte in piccolo delle pagine informative di Samsung emerge che almeno per ora molti dei servizi di intelligenza artificiale incorporati nel telefonini richiedono una connessione attiva a Internet e un account Samsung, diversamente da quanto riportato da alcuni articoli di recensione un po’ troppo entusiasti. Bisogna insomma leggere attentamente le avvertenze per capire realmente come stanno le cose caso per caso. E leggendo quelle avvertenze ci si accorge anche che ricorre anche un’altra frase tipica dell’intelligenza artificiale: “l’accuratezza dei risultati non è garantita”. Per cui, insomma, non è il caso di fidarsi troppo delle traduzioni o dei riassunti fatti con questi strumenti.
Chrome, la modalità in incognito non è in incognito
La navigazione privata o modalità di navigazione in incognito delle app per sfogliare il Web è molto usata quando si vuole visitare un sito senza lasciare tracce di averlo fatto, per qualsiasi ragione, ma nel caso di Google Chrome c’è ben poco di incognito nella modalità in incognito.
Google e vari siti gestiti da altre aziende, infatti, raccolgono dati personali anche durante la navigazione in incognito. Lo sappiamo grazie a un’azione legale avviata nel 2020 in California contro Google per violazione della privacy, che ha fatto emergere questa situazione.
Gli utenti esperti sanno già che le modalità private o in incognito dei browser impediscono che alcuni dati vengano conservati sul loro dispositivo, ma non bloccano il tracciamento da parte di siti Web o di fornitori di accesso a Internet. Ma i non esperti non lo sanno, e attualmente quando avviano Chrome in modalità incognito vedono le parole molto categoriche “Ora puoi navigare in privato”, presumono giustamente di navigare in privato e non vengono avvisati che Google raccoglie dati su di loro anche in questa modalità. L’avviso parla solo del fatto che l’attività potrebbe essere comunque visibile “ai siti web visitati, al tuo datore di lavoro o alla tua scuola” oppure “al tuo provider di servizi Internet”, ma non dice nulla sul ruolo di Google.
Le future versioni di Chrome parleranno invece di “navigare in modo più privato”, dichiareranno che i siti web visitati in modalità incognito raccolgono comunque dati, e specificheranno che lo fa anche Google.
Ma allora, la modalità in incognito a cosa serve esattamente? Serve a non lasciare tracce sul dispositivo che si sta usando. Per esempio, se usa il computer o lo smartphone di un amico o di un collega per controllare la propria posta oppure i propri account social, la modalità incognito impedirà che il vostro nome utente e soprattutto le vostre password vengano conservate sul dispositivo del vostro amico o collega. Tutto qui. Se avete usato la modalità incognito per anni pensando di essere invisibili, rassegnatevi: Google e i siti che avete visitato sanno benissimo che cosa avete fatto. Se volete essere realmente invisibili online, servono app apposite e servono comportamenti piuttosto impegnativi. Ma questa è un’altra storia.
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