Cerca nel blog

2019/11/02

Come ci si salva da un razzo in fiamme?

I decenni passano e le tecnologie si evolvono, ma alla fine ogni astronauta che parte per un volo spaziale si trova sempre nella stessa situazione: sigillato dentro una piccola cabina che sta appollaiata sopra alcune centinaia di tonnellate di propellente altamente infiammabile. Propellente che bisogna oltretutto accendere per poter partire. Il lancio di un vettore spaziale è in sostanza una gigantesca esplosione controllata.

Ma cosa succede se diventa un’esplosione incontrollata?


Puntali salvavita


Nella maggior parte dei vettori spaziali per equipaggi è presente un Launch Escape System o LES, che tradotto letteralmente significa “sistema di fuga dal lancio”. Di solito è costituito da uno o più motori a razzo ad altissima accelerazione, capaci di sollevare l’abitacolo intero, catapultarlo rapidamente a distanza di sicurezza dal razzo vettore e portarlo a una quota sufficiente a consentire l’apertura di uno o più paracadute per ottenere un atterraggio morbido sulla terraferma. Quei puntali sottili in cima alla maggior parte dei razzi che trasportano equipaggi sono dei LES.

La sommità di un vettore Soyuz mostra il sistema di evacuazione d’emergenza SAS (il puntale con i quattro ugelli rossi); il veicolo spaziale è all’interno della carenatura. Credit: Carla Cioffi, Wikimedia Commons, 2011.


Ovviamente si spera sempre di non doverli usare, ma a volte succede. Nel 1983, il vettore Soyuz-U della missione sovietica Soyuz T-10-1 s’incendiò poco prima del lancio e il suo LES (o SAS, dalle iniziali di Sistema Avariynogo Spaseniya) fu attivato dai controllori della missione solo due secondi prima che il razzo esplodesse.

I due cosmonauti a bordo, Vladimir Titov e Gennady Strekalov, si salvarono, sopportando un’accelerazione di ben 17 g per circa cinque secondi e ricadendo a circa quattro chilometri di distanza, mentre i resti del vettore bruciavano sulla rampa di lancio.

Militari russi osservano l'unico uso di un sistema di evacuazione d’emergenza da parte di un equipaggio: Titov e Strekalov, Soyuz T-10-1, 1983.


Anche gli americani, all’inizio del proprio programma spaziale con equipaggi, adottarono un LES a forma di puntale per le missioni Mercury e Apollo. Furono più fortunati dei russi, perché non ebbero mai la necessità di attivarli.

Il puntale con il sistema di evacuazione d’emergenza di Apollo 11. Foto NASA AP11-69-HC-718.


I veicoli statunitensi della serie Gemini, invece, fecero a meno di questo puntale di salvataggio, perché adottarono un sistema differente. Sollevare e accelerare un intero abitacolo richiede motori molto potenti, che però costituiscono una zavorra se non vengono utilizzati: nel caso delle missioni Apollo, per esempio, il LES pesava ben 3,6 tonnellate. Così le Gemini usarono una soluzione più snella e leggera: dei seggiolini eiettabili.

Specifiche del seggiolino eiettabile dei veicoli spaziali Gemini.

Illustrazione dell’espulsione degli astronauti da un veicolo spaziale Gemini collocata in cima al suo vettore di lancio Titan.

Illustrazione della procedura di eiezione ad alta quota (fino a circa 20 km) degli astronauti Gemini. Si nota l’uso di un ballute, ossia di un pre-paracadute frenante sferico gonfiabile, prima del paracadute vero e proprio.


La stessa scelta tecnica fu fatta per gli Shuttle statunitensi, durante i loro voli iniziali, e per le Vostok russe.

Spaccato di una capsula Vostok, che mostra chiaramente il seggiolino eiettabile.

Seggiolino eiettabile Vostok. Credit: London Science Museum.

Illustrazione di un seggiolino eiettabile Vostok, che mostra la posizione della capsula nella carenatura ed evidenzia l’apertura nella carenatura stessa attraverso la quale il cosmonauta poteva eiettarsi sulla rampa di lancio.


Nel caso delle Vostok, fra l‘altro, il seggiolino eiettabile veniva usato anche quando il volo si svolgeva regolarmente: la capsula, infatti, non era in grado di compiere un atterraggio sufficientemente dolce scendendo sotto il suo unico grande paracadute, per cui il cosmonauta era costretto a lanciarsi fuori dal veicolo durante la discesa, a circa 7000 metri di quota, e scendere con un proprio paracadute.

Anche Yuri Gagarin, primo essere umano nello spazio, seguì questa procedura, ma fu costretto a mentire e a dichiarare di essere atterrato all’interno della propria capsula perché le norme FAI di omologazione del suo primato richiedevano che il cosmonauta restasse a bordo fino alla fine del volo. La verità emerse pochi anni dopo, quando ormai il valore dell’impresa di Gagarin era passato irrevocabilmente alla storia.

Nel caso del veicolo spaziale sovietico Voskhod fu scelta una soluzione tecnica drasticamente diversa: fare semplicemente a meno di qualunque sistema di salvataggio d’emergenza. L’imperativo politico era che l’Unione Sovietica fosse il primo paese al mondo a far volare un veicolo con tre cosmonauti a bordo, ma l’unico modo per farlo era modificare una Vostok monoposto e sacrificare non solo il seggiolino eiettabile ma anche le tute pressurizzate che avrebbero salvato i cosmonauti in caso di depressurizzazione della capsula.

Il 12 ottobre 1963, Vladimir Komarov, Boris Yegorov e Konstatin Feoktisov partirono a bordo della Voskhod 1 per un volo spaziale di 24 ore e tornarono sani e salvi. La propaganda sovietica vantò di avere veicoli spaziali così progrediti da permettere ai cosmonauti di volare in maniche di camicia, ma la realtà era ben diversa.


Dalla padella nella brace


I seggiolini eiettabili consentono un grande risparmio di peso, ma hanno alcune limitazioni fondamentali.

La prima è che sono utilizzabili soltanto in alcuni momenti del volo: oltre una certa quota e velocità, a seconda del veicolo, l’urto contro il muro d’aria supersonico al momento dell’espulsione dall’abitacolo avrebbe conseguenze letali. Una cabina di veicolo spaziale, invece, offre protezione anche a quote e velocità molto elevate.

Condizioni di utilizzo del seggiolino eiettabile Gemini.


Per esempio, i seggiolini Gemini erano utilizzabili, perlomeno sulla carta, da quota zero (sulla rampa di lancio) fino a 70.000 piedi (21 km) e a velocità fino a 500 nodi (900 km/h). Ma un vettore spaziale supera ben presto questa quota e questa velocità, per cui i seggiolini sarebbero stati inutili per gran parte del volo.

La seconda limitazione è che un razzo di emergenza può essere sganciato quando non è più necessario e consente quindi di alleggerire il veicolo, mentre un seggiolino eiettabile rimane a bordo, e costituisce ingombro e zavorra, per tutto il volo.

Il razzo d‘emergenza Apollo, per esempio, veniva eliminato a circa 89 km di quota, quindi all’inizio del viaggio; per contro, portare fino alla Luna tre seggiolini eiettabili, uno per ciascun membro d’equipaggio, avrebbe comportato una penalità di consumo di propellente inaccettabile.

Schema di utilizzo di un LES Apollo. Le quote sono espresse in piedi.


Per le Vostok questo non era un problema, visto che il seggiolino era comunque necessario durante il rientro, e non lo era neanche per le Gemini, perché nel progetto originale avrebbero planato al rientro sotto una grande ala di Rogallo gonfiabile (di forma simile a quella dei deltaplani), atterrando su un carrello retrattile come degli aerei, e i seggiolini sarebbero stati utili come precauzione per consentire ai piloti di salvarsi in caso di problemi nella fase delicata dell’atterraggio, per esempio in caso di rientro lontano dalle piste di atterraggio predisposte.

Un simulacro di veicolo Gemini modificato per sperimentare il sistema di planata con ala di Rogallo gonfiabile. Credit: Smithsonian Institution.


La terza limitazione dei seggiolini è però la più importante: l’astronauta o cosmonauta perde la protezione rigida dell’abitacolo e quindi se si eietta mentre il vettore in avaria è ancora sulla rampa di lancio o sta arrampicandosi verso lo spazio rischia di trovarsi proiettato all’interno della palla di fuoco del razzo che sta esplodendo oppure in mezzo agli scarichi incandescenti dei suoi motori.

Come già raccontato in un altro articolo, John Young, astronauta veterano statunitense noto per il suo gelido senso dell’umorismo oltre che per il suo talento, riassunse il problema con una delle sue proverbiali battute. Poco prima del volo di debutto dello Shuttle nel 1982, di cui era protagonista insieme a Bob Crippen, un giornalista gli chiese, in conferenza stampa, di chiarire il funzionamento dei seggiolini eiettabili del veicolo.



“Non mi è ancora chiaro se sia possibile eiettarsi durante la combustione dei motori a propellente solido”, domandò il giornalista riferendosi ai due enormi razzi laterali dello Shuttle. Young, impassibile, gli rispose col tono di chi spiega una cosa ovvia: “Ti basta tirare la maniglietta” (“You just pull the little handle”). Il sottinteso, naturalmente, era che era senz’altro tecnicamente possibile eiettarsi durante questa fase del decollo, ma si sarebbe finiti direttamente nel getto dei motori, con conseguenze facilmente prevedibili.

In altre parole, i seggiolini eiettabili dello Shuttle erano in buona sostanza un palliativo. Dopo i primi quattro voli furono abbandonati, anche perché non ci sarebbe stato modo di usarli per gli astronauti situati nella zona inferiore della cabina del veicolo. Sarebbero stati quindi inutili durante la tragedia dello Shuttle Challenger, nella cui disintegrazione poco dopo il decollo persero la vita sette astronauti nel 1986.


Soluzioni moderne


Gli attuali veicoli spaziali Soyuz russi, gli Shenzhou cinesi e gli statunitensi Orion, Dragon, Starliner e New Shepard adottano tutti un sistema di emergenza basato su motori che sollevano e allontanano l’intera capsula, ma solo Soyuz, Shenzhou e Orion restano fedeli allo stile tradizionale che prevede un razzo di emergenza montato davanti alla capsula: gli altri veicoli usano una nuova configurazione pusher, nella quale i motori di emergenza sono montati lateralmente o sotto la capsula e sono integrati permanentemente in essa.

Questa soluzione comporta un aggravio di peso, visto che i motori d’emergenza restano sul veicolo per tutto il volo invece di essere eliminati poco dopo il decollo, ma consente di riutilizzare questi motori per altre funzioni, come per esempio un’accelerazione verso un’orbita più alta oppure (nel caso di motori laterali) una frenata di atterraggio, rendendo possibili atterraggi dolci sulla terraferma.

Il sistema di emergenza di un veicolo Shenzhou cinese. Si notano i due gruppi separati di ugelli. Credit: ChinaNews / Spaceflight Insider.

Collaudo del sistema di emergenza di un veicolo Orion statunitense, luglio 2019.

Una capsula Crew Dragon di SpaceX effettua un test di attivazione del sistema di evacuazione d’emergenza di tipo pusher. Credit: SpaceX, 2015.


Decisioni istintive


I seggiolini eiettabili per astronauti sono insomma una tecnologia ormai abbandonata, che per fortuna non è mai stato necessario usare in emergenza. Ma una volta c’è mancato davvero poco.

Il 12 dicembre 1965 gli Stati Uniti tentarono il primo rendez-vous orbitale fra due veicoli con equipaggi. La missione Gemini 6, condotta da Walter Schirra e Thomas Stafford, avrebbe dovuto raggiungere in orbita i colleghi Frank Borman e James Lovell, lanciati alcuni giorni prima. Al momento del decollo, i due motori del vettore Titan che avrebbe dovuto portare nello spazio la Gemini 6 si accesero correttamente ma si spensero inaspettatamente circa 1,2 secondi dopo.



Il razzo, pieno di 150 tonnellate di propellente altamente corrosivo e tossico oltre che ipergolico (a innesco spontaneo per contatto fra i suoi due componenti), rimase immobile sulla rampa di lancio. In cima, dentro la Gemini 6, Schirra aveva la mano serrata sull’anello di attivazione dei seggiolini eiettabili. Non avvertiva alcun movimento del veicolo e mancava il boato dei motori, eppure il cronometro della missione e il computer si erano attivati, come se fossero partiti.

Doveva decidere: se il veicolo si era alzato da terra anche di pochi centimetri, c’era il rischio che esplodesse, e quindi era urgente eiettarsi per evitare la palla di fuoco dell’esplosione. Ma se non si era mosso, allora il posto più sicuro era dentro la capsula, dalla quale i tecnici li avrebbero estratti con calma.

Schirra decise di non tirare l’anello.

La sua scelta, basata sui suoi istinti di pilota, si rivelò esatta. I due astronauti furono estratti dopo un’ora e mezza, sani e salvi, e il fatto di non essersi eiettati permise di riconfigurare rapidamente la capsula e il vettore per un nuovo tentativo, che avvenne con pieno successo tre giorni dopo, dimostrando che un rendez-vous di precisione era possibile e aprendo così la strada alla Luna.


Fuochi d’artificio


Nella scelta di Schirra aveva pesato non poco il fatto che gli astronauti non si fidavano granché di quei seggiolini eiettabili. Il suo compagno di missione, Stafford, scrisse nel suo libro We Have Capture che c’era una magagna non banale nell’attivarli durante la loro missione: l’atmosfera della cabina era infatti composta da ossigeno puro e al momento del lancio loro erano già stati due ore a mollo in quell’atmosfera. Le loro tute ne erano impregnate e quindi qualunque scintilla li avrebbe fatti ardere in pochi istanti (in modo simile a quello che accadde in seguito, tragicamente, con Apollo 1).

Anche se la fase iniziale dell’espulsione era pneumatica, Stafford temeva che accendere un motore a razzo in quelle condizioni li avrebbe trasformati in “due fuochi d’artificio sparati verso la sabbia e le palme nane”.

L’apparato di collaudo dei seggiolini eiettabili delle capsule Gemini. Credit: NASA.


Test dei seggiolini eiettabili delle capsule Gemini. Credit: NASA.


Gli astronauti delle missioni Gemini avevano ottime ragioni per non fidarsi di questo sistema di eiezione. John Young e Gus Grissom avevano assistito a un suo test, nel quale c’erano dei manichini a bordo al posto degli astronauti: il sistema di sparo dei seggiolini aveva funzionato alla perfezione, ma i portelli di uscita non si erano aperti, per cui i manichini si erano sfracellati a testa in avanti contro l’interno di questi portelli.

John Young, impassibile ma consapevole che prima o poi al posto di quei manichini ci sarebbe stato lui, commentò ad alta voce gli effetti del test con un’altra delle sue frecciate memorabili: “That's a hell of a headache, but a short one” ("È un gran brutto mal di testa, ma dura poco”).


Fonti: Smithsonian Institution, NASA, The Verge, Russian Space Web.


Questo mio articolo è stato pubblicato per la prima volta su carta sulla rivista Spazio Magazine dell'Associazione ADAA, è stato aggiornato e ampliato rispetto alla versione iniziale e vi arriva gratuitamente e senza pubblicità grazie alle donazioni dei lettori di questo blog. Se vi è piaciuto, potete incoraggiarmi a scrivere ancora facendo una donazione anche voi, tramite Paypal (paypal.me/disinformatico), Bitcoin (3AN7DscEZN1x6CLR57e1fSA1LC3yQ387Pv) o altri metodi.

Nessun commento: