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2020/06/30

Video: conferenza pubblica degli esperti su SwissCovid, Immuni e contact tracing

Ultimo aggiornamento: 2020/07/01 21:00.

È già disponibile il video della conferenza pubblica Cos’è il contact tracing e perché riguarda tutti che si è tenuta oggi a Lugano, al Parco Ciani grazie a a Lugano Living Lab.

I due panel di esperti sono stati moderati da Giada Marsadri e Andrea Arcidiacono, dopo i saluti del sindaco di Lugano Marco Borradori.

Il primo panel, Contact tracing: tra sorveglianza, sfera privata e visioni per la società, ha avuto come ospiti Massimo Banzi (co-fondatore di Arduino), Philip Di Salvo (ricercatore e giornalista), Christian Garzoni (direttore sanitario della Clinica Luganese Moncucco), Markus Krienke (professore di filosofia moderna e di etica sociale alla Facoltà di Teologia di Lugano) e Patrizia Pesenti (Avvocato, Vicepresidente consiglio di amministrazione Credit Suisse Switzerland).

Il secondo panel, ​App SwissCovid: il punto della situazione, ha radunato il sottoscritto, Gianni Cattaneo (avvocato specialista in diritto della protezione dei dati), Matteo Colombo (Presidente dell’Associazione italiana dei Data Protection Officer), Clelia Di Serio (professore di epidemiologia e statistica medica, Università della Svizzera Italiana, Università Vita-Salute San Raffaele (Milano)), e Sang-II Kim (capo della nuova Divisione Trasformazione digitale, Ufficio federale della sanità pubblica).

Il video qui sotto è già posizionato a 34:12 per saltare le immagini mostrate in attesa dell’inizio dello streaming. Il secondo panel inizia a 1:53:35.



C’è anche la versione con traduzione simultanea in inglese:



Sul canale Youtube di Lugano Living Lab trovate anche i due panel separati con le relative versioni tradotte in inglese.

Su Photoshelter trovate invece un po' di foto dell’evento.

Che si fa per la Cena dei Disinformatici?

Mi stanno arrivando parecchie richieste di informazioni a proposito della rituale Cena dei Disinformatici che solitamente viene organizzata in questo periodo.

In sintesi: non si fa. La pandemia non è finita, i contagi ci sono ancora e nonostante la disinvoltura di tanti non mi sembra il caso di radunarci in un luogo chiuso.

Anche l’idea alternativa di fare una Merenda dei Disinformatici in uno spazio aperto e ben ventilato, rispettando le distanze di sicurezza, ha dei problemi organizzativi notevoli, perché siamo tanti e servirebbe un’area molto grande tutta per noi; ci sarebbe anche il problema che molti non possono liberarsi per un incontro pomeridiano, sia per impegni di lavoro, sia per le distanze (alcuni Disinformatici vengono da molto lontano).

L’altra possibilità sarebbe un incontro virtuale su Zoom o simili, ma coordinare date, orari e disponibilità di tutti è al di sopra delle mie capacità umane e rettiliane.

Per cui mi spiace, ma quest’anno la Cena salta, sperando in tempi migliori. Vorrà dire che mangeremo e festeggeremo il doppio la prossima volta.

Promemoria: oggi dalle 17 parleremo di app di tracciamento delle prossimità contro il coronavirus

Oggi avrò il piacere di partecipare a una conferenza pubblica non virtuale, ma disponibile anche in streaming, insieme agli esperti del settore, dedicata al contact tracing e alle app che aiutano a tracciare i contatti eccessivamente ravvicinati e prolungati che facilitano i contagi.

La conferenza si tiene a Lugano, al Parco Ciani, dalle 17. Trovate tutti i dettagli qui.


2020/06/29

Storie di Scienza 10: Smaltire i rifiuti nucleari mandandoli nello spazio? Perché no?

Ultimo aggiornamento: 2020/06/30 10:40.

Un’astronave Aquila di Spazio 1999 trasporta scorie radioattive sulla Luna.
Credit: Scale Model News.

Gennaio 1976: debutta alla RAI Spazio 1999, una delle rarissime produzioni di fantascienza della RAI (in questo caso una coproduzione con la britannica ITC). Sfoggia un cast di prim’ordine, con attori come Martin Landau e Barbara Bain, effetti speciali sofisticatissimi per l’epoca e un design realistico e ultramoderno (i protagonisti avevano un comunicatore con la TV incorporata che il capitano Kirk di Star Trek se lo sognava). Ambientata, come avrete intuito, nel 1999, che allora era un prossimo futuro, la sua premessa è che la Luna è diventata il deposito sicuro delle scorie radioattive delle centrali nucleari terrestri, gestite tramite il personale della base lunare internazionale Alpha.

Ma ovviamente qualcosa va storto, e le scorie accumulate esplodono, scagliando la Luna fuori dalla sua orbita e lanciandola insieme agli Alphani in un avventuroso viaggio nel cosmo che proseguirà per 48 episodi, suddivisi in due stagioni, con un rimpasto del cast al termine delle prime ventiquattro puntate.

Che premessa stupida, direte voi. Lasciamo stare le incongruenze fisiche più evidenti di Spazio 1999, tipo l’esplosione nucleare che fa da motore per la Luna senza spaccarla in mille frammenti o la velocità molto superiore a quella della luce che la Luna dovrebbe avere per incontrare un pianeta alieno ogni settimana. Stiamo sul concreto. Chi mai sarebbe così idiota da pensare seriamente di caricare delle scorie radioattive su un razzo altamente esplosivo e mandarle nello spazio?

La Commissione per l’Energia Atomica del governo degli Stati Uniti, ecco chi.

Gerry e Sylvia Anderson, i creatori di Spazio 1999, non erano stati affatto stravaganti nel concepire la parte nuclear-ecologica della premessa della serie. Nel 1974, due anni prima del debutto della serie di fantascienza alla RAI, la suddetta Commissione per l’Energia Atomica (Atomic Energy Commission, AEC) aveva proposto, in tutta serietà, di caricare le scorie radioattive sugli Space Shuttle, che all’epoca erano in fase di progettazione, e spararle nello spazio.

Se non ci credete, il documento dell’AEC si intitola High-level radioactive waste disposal, a firma di R.C. Battelle Pacific Northwest Labs.



Nel 1974, in piena crisi petrolifera, iniziata l’anno precedente con le file ai distributori di benzina in buona parte del mondo occidentale, i prezzi dei carburanti e dei combustibili da riscaldamento che andavano alle stelle e il blocco totale del traffico automobilistico di domenica in Italia, sembrava evidente e inevitabile che l’energia atomica, ottenuta per fissione nei reattori delle centrali nucleari, sarebbe stata la soluzione alla crisi, togliendo ai paesi petroliferi gran parte del loro improvviso strapotere.

Il documento AEC prevedeva negli Stati Uniti, entro il 2000, circa 1.200.000 megawatt di capacità nucleare. Un piano ambizioso, visto che al momento della stesura del documento i megawatt installati erano solo 15.000. Le centrali nucleari avrebbero generato la metà dell’energia elettrica negli Stati Uniti.

Le previsioni del documento AEC.


Queste centrali nucleari avrebbero ovviamente prodotto scorie: entro il 2000 si sarebbero accumulati circa 13.500 metri cubi di residui altamente radioattivi particolarmente longevi, di cui sarebbe stato necessario sbarazzarsi in qualche modo.

Così il documento dell’AEC prendeva disinvoltamente in considerazione tre metodi: l’incapsulamento e la sepoltura in aree geologicamente stabili degli Stati Uniti, sul fondo degli oceani o nei ghiacci della Groenlandia o dell’Antartide (altra idea che oggi pare un tantinello meno geniale), la trasmutazione nucleare e il disposal in space: lo smaltimento nello spazio.

Un deposito di scorie sulla Luna in Spazio 1999, prima del grande kaboom del 13 settembre 1999.

Erano ipotizzati tre tipi di smaltimento spaziale:

  • il solar impact, ossia scagliare le scorie verso il Sole (cosa difficilissima, perché per lanciare un oggetto nello spazio in modo che cada verso il Sole bisogna prima compensare la velocità orbitale della Terra, ossia circa 30 km/s o 107.000 km/h, molto superiore a quella degli attuali veicoli spaziali);
  • l’orbiting, in cui le scorie sarebbero rimaste in orbita intorno alla Terra;
  • e il solar escape to deep space, che avrebbe inviato le scorie su una traiettoria di fuga dal sistema solare (e paradossalmente richiede una velocità molto minore di quella necessaria per viaggiare verso il Sole: bastano 16,6 km/s per uscire per sempre dal sistema solare). 

La Luna non era stata considerata esplicitamente, anche se il tug, il rimorchiatore spaziale che vedete nello schema qui sotto, serviva proprio per spedire carichi dove lo Shuttle non arrivava, e fra queste destinazioni c’era anche il nostro satellite naturale.

Lo schema di, come dire, smaltimento nucleare proposto dal documento dell’AEC.


Lo Space Shuttle sarebbe dovuto diventare il “camion” dello spazio, un veicolo riutilizzabile che avrebbe fatto crollare i costi dei voli spaziali. Nel 1973 era stata definita solo la sua architettura generale e doveva ancora iniziare la costruzione del primo esemplare, battezzato Enterprise (sì, in onore dell’astronave di Star Trek). Ma si sapeva già che avrebbe avuto un enorme serbatoio esterno pieno di idrogeno e ossigeno e due razzi laterali a propellente solido che non potevano essere spenti una volta accesi: una configurazione delicatissima. Cosa mai sarebbe potuto andare storto nel caricarci delle scorie radioattive?

Eppure l’idea veniva proposta con un certo entusiasmo, soprattutto perché consentiva di sbarazzarsi subito e permanentemente delle scorie, senza doverle custodire e sorvegliare per decenni o, in alcuni casi, secoli: “lo smaltimento extraterrestre offre un metodo per la rimozione completa dalla Terra dei componenti a lunga vita delle scorie nucleari”.

Gli esperti proponevano di usare lo Shuttle in questo modo: “verrebbe lanciato in orbita circolare terrestre bassa. Da quest’orbita, i rimorchiatori o stadi superiori verrebbero lanciati per portare il pacchetto di scorie alla sua destinazione finale”. Però, notavano, “ci sono possibili problemi di sicurezza dei lanci” ed “esiste la possibilità di disaccordi internazionali”. Ma non mi dire. Uno Shuttle che precipita, che so, sulla Francia e la dissemina di frammenti altamente radioattivi potrebbe, chissà, portare a “disaccordi”? Chi l’avrebbe mai detto?

I sovietici non si fecero troppi problemi e lanciarono in orbita interi reattori nucleari nei loro satelliti di ricognizione. Nel 1978 (solo cinque anni dopo la proposta dell’AEC), il satellite Kosmos 954 precipitò fuori controllo, spandendo 50 chili di uranio-235 sul Canada lungo una fascia di 600 chilometri. Le operazioni di recupero e bonifica permisero di ritrovare dieci frammenti radioattivi, uno dei quali era sufficiente a uccidere una persona che vi rimanesse in contatto per qualche ora.

Gli Stati Uniti furono quasi altrettanto disinvolti, lanciando in orbita vari reattori, riscaldatori o generatori termoelettrici alimentati da plutonio-238 o uranio-235. Per alimentare gli strumenti delle sonde spaziali che viaggiano lontano dal Sole, come le Pioneer o le Voyager, l’energia nucleare è l’unica soluzione possibile. Ciascuno degli allunaggi Apollo (1969-1972) portò sulla Luna dei riscaldatori o generatori termoelettrici nucleari (Apollo 13 fece precipitare il proprio nell’Oceano Pacifico in seguito all’incidente avvenuto durante il viaggio, che impose un ritorno d’emergenza); i veicoli Lunokhod sovietici (1970-1973) portarono sulla Luna dei riscaldatori al polonio-210, e nel 2013 il veicolo cinese Chang’e 3 è allunato con un riscaldatore contenente plutonio-238. Alla fine, insomma, un po’ di scorie radioattive sulla Luna le abbiamo lasciate.

Ma a parte questi casi, le cose non andarono affatto secondo le previsioni degli autori dello studio. L’energia nucleare non si impose, dopo incidenti come quelli di Three Mile Island (1979) e di Chernobyl (1986) che scossero la fiducia dell’opinione pubblica: negli Stati Uniti ci sono oggi circa 98.000 MW di capacità nucleare (neanche un dodicesimo di quanto previsto allora).

Anche lo Shuttle dimostrò tragicamente, ben due volte, che un razzo non è un veicolo sul quale è assennato trasportare materiale altamente radioattivo. Il Challenger esplose poco dopo il decollo nel 1986 e il Columbia si disintegrò al rientro nel 2003. Entrambi portarono con sé le vite dei sette astronauti dei loro equipaggi. I piani di volare a cadenza quasi settimanale furono drasticamente ridimensionati e il “camion” divenne una costosissima Cadillac che gravò sul budget della NASA per trent’anni. Certo, permise di costruire man mano la Stazione Spaziale Internazionale: ma non dimentichiamo che per farlo sarebbero stati sufficienti sei voli di un razzo Saturn V lunare. Non è teoria: uno di questi vettori giganti aveva portato in orbita terrestre l’intera stazione spaziale Skylab nel 1973. Settantasette tonnellate in un sol colpo.

Col senno di poi non sembra che ci volesse una patente da superesperto di energia nucleare per capire che anche soltanto proporre di sparare roba radioattiva nello spazio su un missile era un’idea totalmente cretina. Ma nel 1974 la NASA aveva appena raggiunto la Luna con ben nove missioni, atterrandovi sei volte, e non aveva mai perso un astronauta in volo. I suoi razzi sembravano infallibili.

Inoltre la coscienza ecologica era ancora embrionale: era ancora diffuso lo slogan the solution to pollution is dilution (“la soluzione all’inquinamento è diluire”) e quindi buttare in mare (o nello spazio) contenitori di rifiuti radioattivi pareva perfettamente normale. E soprattutto economicamente conveniente. A certa gente quest’abitudine non è ancora passata.

Abbiamo imparato a carissimo prezzo quanto erano sbagliate quelle idee che sembravano così solide allora. Viene da chiedersi, allora, quali sono le nostre serene certezze di oggi di cui dovremo pentirci nei prossimi decenni.

Di una cosa, di certo, non mi pentirò: della cotta che presi da adolescente per Sandra Benes. Su base Alpha lei era tecnico informatico. Coincidenza?

Citare Spazio 1999 e non includere una foto di Sandra Benes (Zienia Merton) è vietato dalla Convenzione di Ginevra.


Questo articolo fa parte delle Storie di Scienza: una serie libera e gratuita, resa possibile dalle donazioni dei lettori. Se volete saperne di più, leggete qui. Se volete fare una donazione, potete cliccare sul pulsante qui sotto. Grazie!



2020/06/26

Puntata del Disinformatico RSI del 2020/06/26

È disponibile la puntata di stamattina del Disinformatico della Radiotelevisione Svizzera, condotta da me insieme a Rosy Nervi.

Podcast solo audio: link diretto alla puntata.

Argomenti trattati:

Podcast audio precedenti: archivio sul sito RSI, archivio su iTunes e archivio su TuneIn, archivio su Spotify.

App RSI (iOS/Android): qui.

Video (con musica): è qui sotto.

Archivio dei video precedenti: La radio da guardare sul sito della RSI.

Buona visione e buon ascolto!


Lo strano caso dei lettori Blu-Ray Samsung impazziti

Improvvisamente, pochi giorni fa, molti lettori Blu-Ray Samsung in tutto il mondo hanno smesso di funzionare, e nessuno sembra sapere precisamente perché. Continuano a riavviarsi e quindi sono inutilizzabili. È la rivolta delle macchine?


Le prime segnalazioni del fenomeno misterioso sono comparse su Internet intorno al 20 giugno. Vari modelli non recenti, compresi gli impianti Home Cinema della serie HT-J (HT-J4200, HT-J4500, HT-J5500) e i lettori BD-H6500, sono entrati in un boot loop: un ciclo di riavvii continui che neppure un ripristino alle condizioni di fabbrica riesce a fermare.

Samsung ha risposto (anche qui) alla pioggia di segnalazioni (anche qui, qui, qui e qui) dicendo che la riparazione avverrà gratuitamente e che comunicherà un aggiornamento quando avrà maggiori informazioni, ma per ora non ha spiegato la causa dell’improvviso malfunzionamento. Una ipotesi è che questi lettori, non recentissimi, stiano tentando di connettersi a un server di Samsung, come si faceva qualche tempo fa, che però non esiste più o ha cambiato nome; un’altra è che si tratti di un certificato digitale SSL scaduto.

Se è così, allora Samsung potrà risolvere il problema senza dover richiamare in assistenza tutti i lettori Blu-Ray colpiti. Se vi è impazzito il lettore, aspettate qualche giorno prima di portarlo a riparare.

Nel frattempo, se avete bisogno di guardare un disco Blu-ray, non dimenticate che potreste avere altri lettori Blu-Ray in casa di cui vi siete dimenticati e che funzionano egregiamente: per esempio, ce n’è uno nelle PlayStation 3 e 4 e nelle Xbox One, e molti PC e laptop includono un lettore, che si può collegare al vostro televisore con un normale cavo HDMI.


Fonti aggiuntive: Lifehacker, PCMag, Engadget, Slashdot.




Apple: arrivano iOS, iPadOS 14 e macOS Big Sur, chi potrà usarli e chi no

Apple distribuirà a partire da luglio in versione beta (subito se usate questo metodo) le nuove edizioni dei suoi principali sistemi operativi, presentati pochi giorni fa alla WWDC (quest’anno preregistrata e senza pubblico per via della pandemia). Le versioni definitive saranno disponibili in autunno.

Come ogni volta, si pone il problema di capire quali dispositivi Apple potranno adottarli, con tutte le loro novità, e quali resteranno esclusi e quindi diventeranno obsoleti. Ecco un riassuntino per orientarvi nei vostri eventuali acquisti.

IPhone: se avete potuto aggiornare il vostro iPhone ad iOS 13, potrete aggiornarlo anche ad iOS 14. Sono inclusi anche l’iPhone 6S e l’iPhone SE di prima generazione.

iPad: come sopra. Se ci gira iOS 13, ci girerà iOS 14.

Mac: le cose si fanno complicate. Saranno compatibili con Big Sur i MacBook dal 2015 in poi, i MacBook Air dal 2013 in poi, i MacBook Pro da fine 2013 in poi, i Mac mini dal 2014 in poi, gli iMac dal 2014 in poi, gli iMac Pro dal 2017 in poi e i Mac Pro dal 2013 in poi. Facile, no? Un elenco completo è su LifeHacker.


Fonte aggiuntiva: Wired.com.

Rivoluzione Apple nei processori, che fare?

Apple ha annunciato pochi giorni fa che non userà più processori Intel per i suoi computer portatili, adottando invece processori ARM come quelli dell’iPhone e iPad a partire dalla fine del 2020.

È una vera e propria rivoluzione, paragonabile a quella del 2006, quando Apple abbandonò a sorpresa i processori PowerPC per passare a Intel.

La questione può sembrare molto tecnica e astratta, ma ha delle conseguenze pratiche per chiunque usi un Mac portatile. Che fine faranno tutti i programmi che sono stati scritti per i laptop con processori Intel? Che succede se i loro sviluppatori decidono di non riscriverli? Dovremo ricomprare tutto?

Apple ha spiegato che ci sarà una transizione di circa due anni, durante la quale verranno ancora rilasciati computer con i processori Intel, e che ci sarà un software di emulazione, chiamato Rosetta 2, che permetterà di far girare sui nuovi processori i vecchi programmi. Ma di solito questo genere di emulazione comporta sempre incompatibilità e rallentamenti.

Per contro, le app che girano su iPhone e iPad funzioneranno direttamente e nativamente sui nuovi Mac ARM, e Apple ha avviato il programma “Universal Purchase”, per cui chi compra un’app ha la licenza per usarla su iOS, iPadOS e macOS. Quindi la necessità di ricomprare programmi dovrebbe essere abbastanza limitata.

Il vero problema è l’hardware. Chi stava pensando di acquistare un Mac portatile rischia ora di trovarsi con un computer che invecchierà molto più in fretta del normale. Se non avete fretta, conviene aspettare almeno fino a fine anno. Allo stesso tempo, può essere un buon momento per acquistare un Mac Intel a prezzo scontato. Leggete attentamente le offerte che troverete in giro nei prossimi mesi.


Fonte aggiuntiva: Wired.com.

2020/06/25

Immuni, se ricevo l’avviso “Il tuo telefono ha rilevato 1 potenziale esposizione”, cosa vuol dire?

Credit: @PolGalbusetti.
Mi sono arrivate alcune segnalazioni di utenti dell’app anti-coronavirus italiana, Immuni, che dicono di essersi spaventati perché hanno visto sul proprio telefonino Android un avviso che dice ”Il tuo telefono ha rilevato 1 potenziale esposizione”.

L’app Immuni, tuttavia, non mostra alcun avviso “Rilevata esposizione a rischio con una persona COVID-19 positiva” e indica solo “Servizio attivo”.

Chi ha chiamato l’helpdesk di Immuni per sapere cosa fare ha ricevuto la risposta che questo avviso, proveniente da Google Play Services e non da Immuni, va ignorato.

Per chi si stesse chiedendo cosa c’entra Google Play Services con le app anti-coronavirus, ricordo che Google, insieme ad Apple, fornisce il software (le cosiddette API o Application Programming Interface(s)) che consente ai telefonini Android di funzionare con le app di tracciamento di prossimità.

Secondo Punto Informatico, è normale che sul telefonino Android compaia il messaggio “Il tuo telefono non ha rilevato potenziali esposizioni”:

L’avviso è mostrato su dispositivi Android da Google Play Services e non deve destare alcun allarme. Anzi, rappresenta la conferma di come Immuni sia in esecuzione correttamente sullo smartphone e che nei sette giorni precedenti non si è entrati in contatto con persone potenzialmente in grado di trasmettere la malattia.

Ma allora se vedo il messaggio “ha rilevato 1 potenziale esposizione” cosa vuol dire? Significa che secondo il software di Google (che, appunto, fornisce il supporto ad Immuni) il mio telefono ha rilevato il segnale anonimizzato del telefono di una persona che è poi risultata positiva, ma che per i criteri di Immuni l’esposizione non è stata tale da costituire un rischio?

Secondo quello che ho trovato e la documentazione (grazie a Tukler per la dritta), è proprio così: il software di Apple/Google analizza i dati che ha raccolto e accumulato sul telefonino e dichiara quali e quanti sono i casi di esposizione potenzialmente a rischio a secondo i suoi criteri, ma poi spetta all’app valutare questi contatti secondo i suoi criteri. Quindi l’avviso di Google Play Services non deve allarmare.

Sto indagando ancora, ma una cosa è già chiara: questo messaggio rischia di creare ansie e confusioni.

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A proposito delle API fornite da Apple e Google, se volete vederle all’opera:

  • iOS: Impostazioni - Privacy - Salute - Raccolta log di esposizione al COVID-19 - Controlli esposizione elenca, giorno per giorno, il “numero di chiavi corrispondenti”, ossia il numero di potenziali esposizioni.
  • Android: Impostazioni - Google - Notifiche di esposizione al COVID-19 - Notifiche relative al COVID-19.

Fonti aggiuntive: Apple, HDblog.it.

SwissCovid, l’app svizzera anti-coronavirus, è scaricabile per tutti (o quasi)

Ultimo aggiornamento: 2020/07/04 20:40.

Dopo un periodo di prova tecnica estesa, l’app di tracciamento di prossimità SwissCovid è disponibile al pubblico dal 25 giugno come versione 1.0.5, 1.0.0.

Questi sono i link per scaricarla e installarla su qualsiasi smartphone recente, che supporti iOS 13.5 o Android 6 o superiori, ossia circa l’80% degli smartphone in Svizzera, secondo dati riportati da Sang-Il Kim, Capo della Divisione Trasformazione Digitale:


L’app è disponibile in italiano, tedesco, francese, retoromancio, inglese, spagnolo, portoghese, serbo, croato, albanese e bosniaco. Nelle prime ore è stata scaricata circa 150.000 volte. Le statistiche delle installazioni attive sono consultabili qui su Admin.ch e indicano ad oggi (25/6) circa 570.000 installazioni su una popolazione di 8,5 milioni di abitanti, ossia il 6,7% [2020/06/28 16:20. L’app è arrivata a 806.570 installazioni, ossia circa il 10% dei residenti nella Confederazione (RSI); 2020/07/04 20:40 È arrivata a 1.007.199 attivazioni (RSI)].

Per scaricare la versione iOS può essere necessario associare il proprio Apple ID all’App Store svizzero, come descritto qui.

Ci sono alcune piccole modifiche rispetto alle versioni sperimentali: in particolare la distanza di prossimità è stata ridotta da due metri a 1,5. Anche alcune diciture sono state cambiate: per esempio, lo stato dell’app ora non dice più “Tracciamento attivo” come prima ma dice più semplicemente “App attiva” e aggiunge il chiarimento importante che “SwissCovid resta attiva anche quando l’app viene chiusa”.

Se si vuole disattivare temporaneamente l’app, si tocca la freccia accanto a Incontri e si sposta il selettore Tracciamento verso sinistra. Per riattivarla si sposta il selettore verso destra.

Le risposte alle domande più frequenti sono pubblicate sul sito dell’Ufficio Federale della Sanità Pubblica qui. Da queste risposte segnalo in particolare questa: “Secondo la decisione del Parlamento, le persone che hanno ricevuto dall’app SwissCovid una segnalazione di essere state a stretto contatto con una persona infetta devono potersi sottoporre al test gratuitamente.” Inoltre è prevista una indennità di perdita di guadagno per chi riceve l’ordine (da un medico) di mettersi in quarantena. Questa indennità non spetta a chi riceve la notifica dall’app e sceglie di limitarsi all’isolamento volontario senza rivolgersi al medico.


I miei articoli dedicati all’app sono raccolti qui. Un ottimo riassunto della situazione è su Swissinfo.ch.

Ricordo che i truffatori sono sempre in agguato e quindi bisogna diffidare di qualunque messaggio sanitario che non venga comunicato direttamente dall’app. GovCERT.ch ha già diramato un promemoria multilingue in proposito, fornendo il link della Centrale d'annuncio e d'analisi per la sicurezza dell'informazione MELANI al quale inviare segnalazioni di eventuali app truffaldine o ingannevoli:





Stamattina molte persone in Svizzera mi hanno segnalato, mentre ero in diretta su Rete Tre, di aver ricevuto un SMS inatteso che li invitava a visitare il sito Ufsp-coronavirus.ch. Posso confermare il mio “niente panico” iniziale: l’SMS è stato inviato da Swisscom per conto dell’Ufficio Federale della Sanità Pubblica, che ha successivamente chiarito la vicenda in un tweet.




Fonti aggiuntive: RSI.ch, 20min.ch.

2020/06/24

Ci vediamo a Lugano il 30 giugno per parlare di contact tracing e app di supporto?

Dopo mesi di lockdown, martedì 30 giugno parteciperò di nuovo a una conferenza pubblica non virtuale: sarò a Lugano, presso il Parco Ciani, a partire dalle 17, insieme a moltissimi ospiti esperti di contact tracing per parlare delle app di tracciamento dei contatti (o di tracciamento di prossimità), come la svizzera SwissCovid (disponibile al pubblico da domani, ma non obbligatoria) e l’italiana Immuni.

L’evento è organizzato da Lugano Living Lab; l’accesso è libero, rispettando naturalmente le norme sanitarie, e si possono prenotare gratuitamente i posti a sedere presso Prenota Lugano. Sarà possibile comunque assistere in streaming tramite i canali social media di Lugano Living Lab. La moderazione sarà a cura di Giada Marsadri.

Il programma completo, con tutti i dettagli e i profili dei relatori, è qui (PDF). In sintesi:

Ore 17.00 - ​Apertura e saluti istituzionali

  • Marco Borradori, ​Sindaco della Città di Lugano


Ore 17.15 - ​Contact tracing: tra sorveglianza, sfera privata e visioni per la società

  • Massimo Banzi - ​Co-fondatore di Arduino
  • Philip Di Salvo - ​Ricercatore e giornalista
  • Christian Garzoni - ​Direttore Sanitario della Clinica Luganese
  • Markus Krienke - Professore di Filosofia moderna e di etica sociale alla Facoltà di Teologia di Lugano
  • Patrizia Pesenti - ​Avvocato, Vicepresidente consiglio di amministrazione Credit Suisse Switzerland

Il primo panel affronta il tema del contact tracing da un punto di vista tecnologico e dell’uso di questo strumento da parte di istituzioni e cittadini, affrontando quesiti sensibili: che garanzie abbiamo sulla tutela della nostra privacy? Siamo disposti a rinunciare a parte della nostra sfera privata in funzione di un bene comune superiore? È corretto parlare di sicurezza o sorveglianza di stato? In che modello di società vogliamo vivere?


Ore 18.30 - ​App SwissCovid: il punto della situazione

  • Paolo Attivissimo - ​Giornalista
  • Gianni Cattaneo - ​Avvocato specialista in diritto della protezione dei dati
  • Matteo Colombo -​ Presidente dell’Associazione italiana dei Data Protection Officer
  • Clelia Di Serio - ​Professore di Epidemiologia e Statistica medica, Università della Svizzera Italiana, Università Vita-Salute San Raffaele (Milano)
  • Sang-II Kim - ​Capo della nuova Divisione Trasformazione digitale, Ufficio federale della sanità pubblica

Il secondo panel affronta il tema del contact tracing portando l’esempio concreto dell’app elvetica per il Contact Tracing (SwissCovid). Saranno toccati aspetti tecnologici, legali e formali, di efficacia dello strumento e di sicurezza sanitaria.


Ore 19.30 -​ Chiusura

Colgo l’occasione per segnalare che la Confederazione ha deciso che da domani l’intero costo dei test per il coronavirus saranno a carico dello stato e non più delle assicurazioni o dei Cantoni (RSI).

2020/06/23

Storie di Scienza 9: L’assassino impresso sulla retina

Ultimo aggiornamento: 2020/06/23 20:10.

Horror Express (1973) non è certo un capolavoro della cinematografia, ma aveva attori famosi come Christopher Lee, Peter Cushing e Telly Savalas e all’oratorio di Bereguardo (Pavia), dove andavo da ragazzino a vedere un film di terza visione il sabato sera con gli amici, quel giorno c’era in cartellone solo quello: prendere o lasciare.

La trama non era granché: quando un antropologo ha la brillantissima idea di portare con sé in treno sulla Transiberiana una cassa contenente i resti congelati di un umanoide primitivo scoperto in una grotta in Manciuria, è scontato che è soltanto questione di tempo prima che il ghiaccio si sciolga e la creatura si risvegli e faccia scempio dei passeggeri.

Ma di quel film mi rimase inciso nella memoria un dettaglio: negli occhi delle vittime del mostro rimaneva impressa un’immagine (non racconto quale per non fare spoiler). Non lo sapevo ancora, ma era il mio primo incontro con un optogramma.

Scoprii in seguito che l’idea che la retina conservi l’ultima immagine vista prima della morte e possa quindi rivelare l’identità dell’assassino, impressa negli occhi atterriti della sua vittima, era un cliché della cinematografia e della letteratura fantastica.

Infatti gli optogrammi sono stati incorporati nella trama di altri film e programmi televisivi, come The Invisible Ray (1936, con Boris Karloff e Bela Lugosi), 4 mosche di velluto grigio di Dario Argento (1971), Doctor Who (in The Ark in Space, 1975), Wild Wild West (1999), Fringe (nella puntata The Same Old Story, 2008) e di nuovo Doctor Who (in The Crimson Horror, 2013); i lettori mi segnalano anche Sing Sing (1983, con Adriano Celentano) e Imago Mortis (2008).



Si tratta comunque di storie sopra le righe, di cinema, televisione e letteratura fantastica, per cui l’optogramma sembra semplicemente una trovata bizzarra e un po’ macabra. A parte una citazione ne l’Ulisse di Joyce (1922) e in At the End of the Passage (1890) di Rudyard Kipling (con toni metafisici), l’unico a parlarne come un fatto scientifico in un racconto non fantastico ma semplicemente avventuroso è Giulio Verne, che nel romanzo I fratelli Kip (1902) lo fa diventare un dettaglio fondamentale che salva i protagonisti:

“È noto da qualche tempo, a seguito di vari esperimenti oftalmologici interessanti svolti da alcuni scienziati ingegnosi, osservatori autorevoli, che l’immagine degli oggetti esterni impressa sulla retina dell’occhio vi rimane conservata indefinitamente. L’organo della vista contiene una particolare sostanza, la porpora visiva, sulla quale si imprimono queste immagini nella loro forma esatta. Esse sono state persino ricostruite perfettamente quando l’occhio, dopo la morte, viene rimosso e messo a bagno nell’allume.”


In realtà la tecnica di acquisizione degli optogrammi, l’optografia, è stata considerata a lungo un fatto reale, scientificamente indiscusso, ed è stata usata addirittura nelle indagini di polizia.

Ispirato dal recente e rivoluzionario avvento della fotografia, nel 1877 il fisiologo tedesco Wilhelm Kühne aveva infatti perfezionato un procedimento chimico che fissava davvero le immagini proiettate sulla retina attraverso il cristallino e sfruttava proprio la “porpora visiva” di Verne, ossia la rodopsina, una proteina fotosensibile presente nei bastoncelli della retina. Uno dei suoi migliori optogrammi, estratto dagli occhi di un coniglio albino nel 1878, mostrava inequivocabilmente i dettagli della finestra in stile inglese che era stata l’ultima cosa vista dalla bestiola prima di essere sacrificata.



L’immagine veniva rivelata mettendo l’occhio a bagno in una soluzione di allume, proprio come diceva Verne, che probabilmente era al corrente degli esperimenti di Kühne: la scoperta era stata ampiamente pubblicizzata dalle riviste scientifiche e divulgative internazionali. Su queste basi molto concrete la polizia di Berlino aveva già introdotto sperimentalmente la prassi di fotografare gli occhi delle vittime di omicidi.

Nel 1880 Kühne dimostrò il procedimento addirittura sugli occhi di un condannato a morte, ottenendone però un’immagine indistinta, che rimase l’unico esemplare di optogramma ricavato da un essere umano, Erhard Gustaf Reif, ghigliottinato per aver ucciso i propri figli. Kühne ricavò dalla retina sinistra di Reif un’immagine che forse corrispondeva alla lama della ghigliottina, ma era talmente confusa che probabilmente si trattò di un’interpretazione arbitraria. Anche perché Reif era bendato.

L’incarto del caso Reif (1880). Immagine tratta dal Museo di Optografia.


Kühne e il suo assistente, W. C. Ayres, proseguirono la sperimentazione e giunsero presto alla conclusione che l’optografia era un fenomeno reale ma non sfruttabile per le indagini sui delitti: l’immagine sarebbe stata troppo confusa, persino nelle condizioni più favorevoli, che richiedevano uno sguardo assolutamente fisso e un esame oculare tempestivo. L’optogramma del coniglio era stato ottenuto tenendo l’animale fermo al buio per vari minuti e poi esponendolo alla luce intensa della finestra per altri tre minuti, tenendolo sempre immobile: una situazione ben diversa da quella di un delitto.

Pubblicarono i propri risultati anche nel New York Medical Journal nel 1881, mettendo in guardia contro un abuso dell’optografia, ma invano: la passione popolare per l’idea che gli occhi della vittima fotografassero l’assassino, in una sorta di rivincita postuma, continuò a crescere, specialmente per i delitti più clamorosi, spingendo le forze dell’ordine di vari paesi a proseguire nell’uso di questa tecnica scientificamente screditata pur di soddisfare l’opinione pubblica.

Così alcune fonti riportano che nel 1888 la polizia londinese tentò di ricavare un optogramma dagli occhi di Mary Jane Kelly, una vittima di Jack lo Squartatore, anche se non ci sono tracce di questa procedura nei registri degli inquirenti. Nell’Illinois, gli inquirenti fecero lo stesso tentativo con Theresa Hollander, uccisa brutalmente a bastonate e trovata con gli occhi spalancati nel 1914: i giornali riportarono che da un suo occhio era stata ottenuta “una fotografia dell’assassino”.

Washington Times, 25 febbraio 1914.
Immagine sulla sua retina potrebbe mostrare l’assassino della ragazza

Chicago, 25 febbraio. -- Una fotografia dell’assassino di Tracy Hollander, la ragazza di Aurora uccisa con un paletto tombale al cimitero di St. Nicholas la settimana scorsa, è stata tratta dall’occhio della ragazza uccisa, secondo una dichiarazione rilasciata oggi dal procuratore di stato W. J. Tyers.

L’immagine è stata scattata su suggerimento di un oculista locale, che ha detto alla polizia che la retina avrebbe mostrato l’ultimo oggetto nel suo campo visivo prima che perdesse conoscenza. La fotografia è custodita dagli accusatori di Anthony Petras. Verrà mostrata al gran giurì, che si riunisce sabato.

Dieci anni dopo, in Germania, un uomo, Fritz Angerstein, fu accusato di aver ucciso otto membri della propria famiglia e dei domestici; durante il processo, un professore dell’Università di Colonia dichiarò di aver ricavato dagli occhi di due delle vittime degli optogrammi che mostravano addirittura il volto dell’accusato e un’ascia usata per uccidere il giardiniere. Dettagli scientificamente impossibili, ma questo l’imputato non lo sapeva e così il bluff funzionò, spingendo Angerstein a confessare.

Dopo un inizio così vivace, l’optografia è caduta nel dimenticatoio della criminologia, riemergendone in poche occasioni: per esempio, nel 1975 l’Università di Heidelberg, su richiesta della polizia locale, ripeté gli esperimenti di Kühne con strumenti moderni, ottenendo dalle retine di conigli varie immagini nitide ad alto contrasto, migliori di quelle passate ma comunque totalmente inutilizzabili dal punto di vista forense. Da allora nessuna indagine criminale ha più preso in considerazione gli optogrammi.

Ma il mito prosegue, e in modo macabro: anche in tempi piuttosto recenti la cronaca riporta delitti nei quali gli assassini distruggono gli occhi del cadavere per timore di esserne stati immortalati (Regno Unito, 1927; Belgio, 1955; Russia, 1990, citati da Arthur B. Evans). Un caso raro di scienza diventata dapprima pseudoscienza e poi inquietante leggenda popolare.


Fonti


Kühne W, 1878, On the Photochemistry of the Retina and on Visual Purple (tradotto da Michael Foster), MacMillan, London.

Kühne W, 1881, Beobachtungen zur Anatomie und Physiologie der Retina, Heidelberg.

The last image: On the history of optography. Gerstmeyer, Ogbourne, Scholtz. Acta Ophthalmologica 2012 pag. 58; Milan 2012Nok 2012.

Optograms and criminology: science, news reporting, and fanciful novels. Lanska DJ. Prog Brain Res. 2013;205:55-84. doi: 10.1016/B978-0-444-63273-9.00004-6.

Optometry and optograms. The College of Optometrists.

Dead Men’s Eyes: A History of Optography. The Chirurgeon’s Apprendice.

Optograms and Fiction: Photo in a Dead Man’s Eye, di Arthur B. Evans, in Science-Fiction Studies, XX:3 #61, (Nov. 1993): 341-61 (altra versione qui).

C'è anche una discussione interessante delle citazioni letterarie e cinematografiche degli optogrammi su The Straight Dope.

Infine segnalo che esiste un sito dedicato all’optografia: il Museum of Optography di Derek Ogbourne, che raccoglie una testimonianza video particolarmente interessante in questa pagina. Buona lettura, se non siete impressionabili.


Una sintesi di questo articolo è stata pubblicata su Le Scienze a dicembre 2016. Questa versione estesa fa parte delle Storie di Scienza: una serie libera e gratuita, resa possibile dalle donazioni dei lettori. Se volete saperne di più, leggete qui. Se volete fare una donazione, potete cliccare sul pulsante qui sotto. Grazie!



2020/06/22

Domani pomeriggio (23/6 17:30) ci troviamo online per un tè con scienza e biscottini?

Martedì 23 giugno (domani) alle 17:30 sarò ospite di Cookies and Physics su Youtube e Facebook: un’oretta di chiacchiere con Lorenzo Pizzuti, cosmologo e ricercatore all'Osservatorio Astronomico della Regione Autonoma Valle d'Aosta, e Matteo Benedetto, astrofisico presso lo stesso Osservatorio.

La chiacchierata è organizzata in collaborazione con Melody On Time e sarà dedicata ai complottismi e agli ingredienti che portano alla loro nascita e diffusione. Io porto tè (English Breakfast) e biscottini (Digestive al cioccolato fondente).



Se i volti nella locandina vi sono familiari (a parte il mio, intendo), avete riconosciuto i due conduttori della serie di video di debunking “Allunaggio: guida scientifica anti-complotto”, che ho segnalato qui e che sta proseguendo con nuove puntate: ecco quelle uscite finora.









Puntata del Disinformatico RSI del 2020/06/19

È disponibile la puntata di venerdì 19 giugno del Disinformatico della Radiotelevisione Svizzera, condotta da me insieme ad Alessio Arigoni.

Podcast solo audio: link diretto alla puntata.

Argomenti trattati:

Podcast audio precedenti: archivio sul sito RSI, archivio su iTunes e archivio su TuneIn, archivio su Spotify.

App RSI (iOS/Android): qui.

Video (con musica): è qui sotto.

Archivio dei video precedenti: La radio da guardare sul sito della RSI.

Buona visione e buon ascolto!


2020/06/21

Avventurette in auto elettrica: il primo viaggio “lungo” con TESS, la mia Tesla usata

Ultimo aggiornamento: 2020/07/09 14:45.

TESS fa un biberonaggio a Melide.



2020/06/19. Prosegue la mia cauta esplorazione di TESS, la Tesla Model S usata che ho acquistato un paio di settimane fa. Nei giorni scorsi ho risolto le magagnine che ho descritto in questo articolo: senza dover andare in officina mi è stata ripristinata la connettività cellulare integrata nell’auto, per cui TESS ora è permanentemente connessa a Internet, e quindi monitorabile e gestibile a distanza, ovunque ci sia una rete cellulare. Il servizio è gratuito e include anche il roaming dati all’estero.

Tre tacche di connettività cellulare, yay.

La lentezza di carica della batteria rilevata durante le prime cariche rapide ai Supercharger sembra essere dovuta al fatto che le ho iniziate quando la batteria era già parecchio carica: quando è quasi completamente scarica la carica è molto più rapida, anche se comunque rimane lontana dai 120 kW pubblicizzati, che sono un classico “fino a” di marketing, perlomeno su un modello di quattro anni fa. Nel caso peggiore, comunque, un “pieno” (poco meno di 70 kWh) mi dovrebbe richiedere un’oretta circa al Supercharger, secondo i calcoli. Vedremo.

Nel frattempo ho imparato concretamente una lezione teorica che con la mia prima auto elettrica (Peugeot iOn da 16 kWh) era praticamente impercettibile: in termini di tempo, conviene moltissimo fare il cosiddetto “biberonaggio”, ossia fare sessioni di carica rapida brevi ma intense, che sono possibili soltanto quando la batteria è poco carica (una batteria è come un bicchiere di vino: è facile da riempire rapidamente quando è quasi vuoto, ma verso la fine va colmato versando piano piano).

È sbagliato fare il “pieno” tradizionale per strada alle colonnine rapide, come viene istintivo per chi viene dal mondo delle auto a carburante: richiede molto più tempo, anche se ci si ferma all’80%, che è il limite consigliato per la carica abituale (il 100% va raggiunto solo se necessario e solo se si scarica la batteria subito dopo). Con ELSA, la piccola iOn, il “pieno” (di una batteria quattro volte più piccola di quella di TESS) richiedeva comunque solo venti minuti, per cui non si notava alcuna differenza.

Conviene insomma partire da casa con la batteria carica all’80% o più e fermarsi se necessario per una breve carica rapida quando la batteria è intorno al 10-20%, ma senza fare il “pieno”, riportandola invece al 40-50%, in modo da fare altri 150-200 chilometri, ripetendo la procedura fino all’arrivo a destinazione. In altre parole, si fa una piccola pausa ogni due ore circa, che è quello che conviene fare comunque a qualunque automobilista per avere attenzione costante e non affaticarsi.

Nel frattempo ho ampliato il mio assortimento di accessori di ricarica, procurandomi un cavo Tipo 2-Tipo 2 da 32A, che mi consente di caricare anche alle colonnine Tipo 2 prive di cavo (come quelle di Ikea o di Enel-X a 11 kW), e ho programmato per domani la destinazione del mio primo viaggio elettrico lungo con TESS: Lugano-Pavia (Travacò Siccomario, dove abitano i miei)-Lugano, possibilmente senza tappe di ricarica. Ce la farò? Secondo Google Maps sono 249 chilometri fra andata e ritorno: una batteria carica al 100% alla partenza dovrebbe darmi margine sufficiente per farli a velocità autostradali. L’indovinometro (calcolatore di bordo) di TESS mi dice di sì, ma mi fido poco. Ho un Piano B e un Piano C: un Supercharger a Dorno e uno a Melegnano, entrambi un po’ fuori strada, e colonnine lente lungo tutto il percorso.

Partiremo alle 9:45 da Lugano.


2020/06/20 8:00. Mi accorgo che la ricarica lentissima (2 kW) che ho avviato ieri sera in garage per portare la batteria quasi al 100% si è interrotta spontaneamente durante la notte. Non è normale, ma comunque risolvo semplicemente riavviando la carica dall’app sul telefonino.

Sono queste le cose che rendono indispensabile un’app efficace per le auto elettriche: senza app avrei scoperto la mancata carica solo al momento di partire. Con TESS, invece, mi basta un tap sul telefonino mentre sono ancora in pigiama.

Se avessimo acquistato la Opel Ampera-e che la Dama e io avevamo scelto inizialmente (e che ci è piaciuta tantissimo e sarebbe stata l’auto perfetta per le nostre esigenze, meno mastodontica e complessa di TESS), l’app di gestione ci avrebbe abbandonato a dicembre, con la chiusura del servizio OnStar, come ho raccontato qui, e questo intoppo sarebbe stato disastroso per l’usabilità dell’auto.

Morale della storia: assicuratevi di avere connettività cellulare in garage, oppure installatevi un ripetitore Wi-Fi in modo che l’auto sia sempre connessa, e non comperate un’auto elettrica che non abbia un’app funzionante che consenta almeno il monitoraggio dello stato di carica. Specifico “funzionante” perché alcuni utenti di altre marche non-Tesla mi dicono che le loro app non sono affidabili.


9:45. TESS è carica al 98%; partiamo con il navigatore che ci dice che secondo lui arriveremo a destinazione con il 59% di carica residua, più che sufficiente per il viaggio di ritorno, e che dovremmo tornare al Maniero Digitale con il 15% di carica.



Andando alle massime velocità consentite o poco meno, con cinque persone a bordo e tenendo accesa l’aria condizionata, arriviamo a destinazione dopo 118 km e un’ora e 40 minuti (a causa del traffico e dei lavori in corso in vari punti), consumando 20,9 kWh e avendo un consumo medio di 177 Wh/km. Tutte queste informazioni vengono fornite e visualizzate dall’enorme tablet verticale al centro del cruscotto.



L’indovinometro di TESS è stato molto prudente e siamo arrivati in realtà con il 64% di carica residua, come indicato sul secondo display dell’auto, che mostra molto comodamente a sinistra un riassunto delle istruzioni di navigazione ogni volta che si imposta una destinazione sul tablet centrale.



Mentre pranziamo in un ristorante in compagnia di mio figlio Simone e della sua compagna, che non vedo da mesi, TESS è al sole, e la temperatura dell’abitacolo raggiunge in fretta livelli poco gradevoli. L’app mi indica 38°C dopo pochi minuti di sosta.


Visto che ho un po’ di carica extra rispetto alle previsioni, decido di mettere alla prova un’altra funzione comodissima delle auto elettriche gestibili da remoto: standomene al tavolo al ristorante, accendo l’aria condizionata di bordo per raffrescare l’abitacolo poco prima di concludere il pranzo. Non avendo gas di scarico, posso farlo senza problemi. Il risultato è notevole, e lo apprezziamo tutti moltissimo quando saliamo in auto, però mi costa il 7% di carica della batteria.

[2020/07/09 14:45. Quel 7% è colpa mia. Non sapevo ancora che il condizionatore di bordo ci mette meno di cinque minuti a raffrescare l’abitacolo e quindi l’ho atttivato con anticipo decisamente eccessivo]


Anche se l’aria all’interno dell’auto è fresca, il tetto interamente vetrato è caldissimo e quindi irraggia calore verso l’interno: lo sento che mi scalda la testa mentre guido. Mi sa che dovremo procurarci un apposito parasole. La vista panoramica del cielo è uno spettacolo per i passeggeri e offre più spazio sopra la testa rispetto a un tetto normale, ma quel vetro scotta.

Facciamo varie tappe per visitare i miei genitori, che non vedevo da metà gennaio scorso, e degli amici, e poi ci dirigiamo verso il Maniero, sempre alle massime velocità autostradali consentite o poco meno, in cinque a bordo e con l’aria condizionata attiva. La silenziosità di marcia è molto rilassante e consente di ascoltare musica e conversare senza dover alzare la voce. L’auto non ruggisce: fruscia, anche quando accelera per immettersi in autostrada o per lasciarsi dietro lo Sfanalatore Ambizioso di turno.

Durante il viaggio uso intensamente il cruise control adattivo, che mantiene la distanza dal veicolo che ci precede: si rivela ottimamente fluido e molto meno aggressivo e strattonante di altri sistemi analoghi che ho provato su altre Tesla (anche quello della Hyundai Kona che ho provato di recente era altrettanto fluido). Quando siamo fermi in coda, invece, è un po’ brusco e produce una certa nausea da movimento. Preferisco usare il creep mode (l’auto avanza lentamente se rilascio il pedale del freno, “all’americana”) e gestire le code manualmente.

Non ho usato l’Autopilot: detto molto sinceramente, non mi fido di un sistema basato sul riconoscimento ottico delle strisce della segnaletica orizzontale e non trovo particolarmente utile un mantenitore di corsia che mi obbliga a tenere le mani sul volante e a farne sentire la presenza con micromovimenti ogni tot secondi.

Non è tutto rose e fiori: i comandi del cruise control sono piuttosto illogici. L’auto legge i cartelli stradali, e quindi quando attivo il cruise control nella maniera teoricamente normale (e indicata nel manuale originale dell’auto), ossia tirando la leva del cruise control verso di me per dire a TESS “mantieni la velocità corrente”, l’auto accelera fino a raggiungere la velocità indicata dall’ultimo cartello che ha letto; se stiamo andando a una velocità superiore a quella indicata dall’ultimo cartello che TESS ha letto (magari per errore), l’auto rallenta piuttosto bruscamente. Rallentare di colpo in autostrada senza un motivo apparente è una Pessima Idea.

Ma TESS è un’auto del 2016 che è stata aggiornata con il software del 2020, per cui bisogna fare riferimento al manuale attuale delle Model S, non a quello del 2016: cosa che ho fatto, scoprendo che il comportamento della leva del cruise control è cambiato. Adesso, se voglio che TESS mantenga la velocità corrente devo abbassare la leva momentaneamente, a meno che io stia viaggiando a una velocità superiore a quella che TESS si ricorda dall’ultima volta che ho attivato il cruise control: in questo caso devo alzare la leva. O almeno così mi risulta dalle prove che ho fatto, in condizioni di sicurezza, nei giorni scorsi e dal comportamento del cruise control durante il viaggio di oggi. Se è davvero così e non ho capito male qualcosa, è demenziale.

Un’altra magagna è il navigatore di bordo, che insiste a non volerci far percorrere le autostrade per motivi incomprensibili (l’opzione “evita le autostrade” è disabilitata, ho ricontrollato). Da un commento ricevuto da una utente Tesla dopo la pubblicazione iniziale di quest’articolo, sembra che questo comportamento sia dovuto al fatto che ho chiesto al navigatore di calcolare il viaggio di andata e ritorno e il suo calcolo ha indicato che viaggiando a velocità autostradali avrei avuto un margine di batteria a suo avviso insufficiente.

Inoltre la sua interfaccia con vista dall’alto, invece che in prospettiva come quella del più scalcinato dei navigatori esterni, non è chiara e non piace per nulla alla Dama, che ha da sempre il compito di occuparsi della navigazione durante i nosti viaggi, grazie anche al suo inquietante senso dell’orientamento (io, invece, mi perdo persino nelle case degli amici). Proverò A Better Route Planner nella finestra del browser web di TESS, anche se probabilmente sarà lento (sulle Tesla più recenti, che hanno un processore più potente per i display, sembra funzionare molto bene).

Ulteriore problema inatteso: il Telepass. Teoricamente va collocato nel punto indicato dal mio dito nella foto qui sotto:

Prevengo la domanda: l’auto era ferma e parcheggiata a lato strada.

Lo abbiamo appoggiato lì per passare il casello autostradale, ma non ha funzionato. Ci siamo trovati bloccati nel varco, con la barra abbassata. Piano B: ho aperto di corsa il tettuccio apribile e la Dama ha alzato il Telepass facendo passare il braccio dall’apertura del tettuccio (anche per far capire a chi pazientemente ci stava dietro che non eravamo svizzeri imbranati senza Telepass). Il Telepass ha emesso un flebile pigolìo e la barra si è alzata. Abbiamo ripetuto il rituale per tutto il viaggio. Mi sa che il Telepass è scarico e va cambiato. Ovviamente questo problema non è colpa di TESS. Avevo avuto lo stesso problema durante il mio primo viaggio lungo con una Tesla (non mia), da Lugano a Roma e ritorno nel 2015, raccontato qui.

Inoltre la guida folle di un paio di imbecilli che hanno invaso la nostra corsia e ci hanno tagliato la strada ci ha permesso di verificare che i sensori ultrasonici laterali e la frenata automatica d’emergenza funzionano e hanno riflessi infinitamente più veloci dei miei.


20:50. Rientriamo al Maniero senza aver dovuto ricaricare o ricorrere ad alcun Piano B o C, dopo 261 km complessivi, con un consumo totale di 48,9 kWh, pari a 187 Wh/km, e con il 13% di batteria residua. L’indovinometro ha indovinato bene, nonostante l’uso inatteso del raffrescamento dell’auto sotto il sole, senza il quale saremmo tornati a casa con un abbondante 20% di carica rimanente.



Questo significa che in teoria TESS dovrebbe poter fare, con un “pieno” al 100% (70 kWh), circa 370 chilometri a velocità autostradali, ossia un po’ più di quello che avevo preventivato, se non uso funzioni energivore come il raffrescamento da fermo. Niente male, per una batteria che ha già fatto quasi 80.000 chilometri.

Tempo speso in ricariche durante il viaggio: zero. Arrivati al Maniero, ho parcheggiato TESS, l’ho collegata alla presa elettrica, e sono andato via. Si ricaricherà durante la notte.

Sul fronte dei costi di “carburante”, quei 48,9 kWh consumati mi sono costati meno di 8 CHF (7,52 €): o meglio, questo è quello che avrei speso per fare 261 km se avessi caricato a casa di notte (ho una fascia a costo ridotto dalle 22 alle 6). In realtà in parte li ho caricati gratis durante il test delle colonnine all’Ikea di Grancia, a pochissima distanza dal Maniero, quindi ho speso un pochino meno di quella cifra. Lascio a voi fare i conti di quanto sarebbe costato un viaggio del genere con qualunque altra grande berlina di classe equivalente o anche con un’auto di fascia media.

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Lo so, non è un granché come avventuretta: conducenti idioti a parte, il viaggio è stato di tutto riposo. È così che dovrebbero essere normalmente i viaggi in auto elettrica. Ma questo era il primo esperimento, per verificare che l’auto funzionasse correttamente e non ci fossero problemi di autonomia ridotta dall’invecchiamento della batteria. Per tornare ad avere avventure dovrò esplorare le funzioni più avanzate (il riconoscimento vocale promette scenette esilaranti) e osare viaggi più lunghi e articolati. Non temete: ci saranno.


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2020/06/19

Una risposta autorevole a un insegnante lunacomplottista

Ottobre 2005. Un docente scrive una mail in cui mette in dubbio l’autenticità delle missioni lunari. Questa è la risposta.

Signor Whitman,

La sua lettera che esprime dubbi basati sugli scettici e sui sostenitori delle tesi di complotto mi lascia perplesso.

Queste persone vorrebbero farle credere che il governo degli Stati Uniti ha perpetrato un inganno gigantesco ai danni dei propri cittadini. Che i 400.000 americani che hanno lavorato a un programma non segreto siano tutti complici dell’inganno e che nessuno abbia rotto i ranghi e abbia ammesso il proprio raggiro.

Se è questo che lei crede, allora perché contatta me, che sono chiaramente uno di quei 400.000 bugiardi?

Confido che lei, come insegnante, sia una persona di cultura. Saprà come contattare persone esperte che non potevano far parte della frode.

Gli scettici sostengono che le missioni Apollo non andarono sulla Luna. Lei può contattare gli esperti di altri paesi che seguirono il volo sui radar (Jodrell Bank, in Inghilterra, o persino gli Accademici russi).

Dovrebbe prendere contatto con gli Astronomi presso l’Osservatorio Lick, che fecero rimbalzare il proprio raggio laser sul riflettore distanziometrico lunare [Lunar Ranging Reflector] pochi minuti dopo che io l’avevo installato. Oppure, se non li trova convincenti, potrebbe contattare gli astronomi presso l’osservatorio del Pic du Midi in Francia. Le potranno raccontare di tutti gli altri astronomi di altri paesi che stanno tuttora effettuando misurazioni tramite quegli stessi specchi -- e lei è libero di contattarli.

In alternativa, potrebbe andare su Internet e trovare i ricercatori nei laboratori universitari di tutto il mondo, che studiano i campioni lunari riportati dalle missioni Apollo. Alcuni di questi campioni non sono mai stati trovati sulla Terra.

Ma non dovrebbe chiederlo a me, perché io sono chiaramente sospetto e non credibile.

Neil Armstrong

Ottobre 2018: il docente non solo si è scusato con Armstrong nel 2005, ma ha anche comunicato al suo biografo, James Hansen, che ora a scuola presenta le argomentazioni dei complottisti insieme ai fatti presentati dagli esperti per aiutare gli studenti a capire il potere di seduzione delle tesi di complotto.


Fonte: A Reluctant Icon: Letters to Neil Armstrong, a cura di James R. Hansen, citato da Letters of Note.