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2019/10/26

Su Venere in batiscafo e in pallone

Venere come appare in luce naturale attenuata.
Credit: Planetary.org / NASA /
JHUAPL / CIW / Gordan Ugarkovic.
Ultimo aggiornamento: 2019/10/26.

Venere è un inferno. Grande all’incirca come la Terra, la sua superficie è tormentata da temperature che fonderebbero il piombo, pressioni 90 volte superiori a quelle terrestri e nuvole di acido solforico sospese in un’atmosfera di anidride carbonica e azoto mossa da venti che arrivano a 300 chilometri l’ora. Sotto la coltre abbagliante di nubi che ricopre perennemente il pianeta arriva poca luce a illuminare le alte montagne vulcaniche e gli enormi altipiani.

Fino agli anni Sessanta del secolo scorso si riteneva che Venere fosse un mondo paludoso e accogliente, ma le prime esplorazioni spaziali rivelarono appunto un quadro ben diverso. La sonda statunitense Mariner 2 fu la prima a passare vicino al pianeta nel 1962, misurandone le condizioni e comunicando un verdetto inatteso: Venere era la sorella impazzita della Terra, devastata da un effetto serra inarrestabile.

I russi decisero di andare a visitare il fondo di quell’inferno.


Il programma Venera


Fra il 1961 e il 1984, l’Unione Sovietica spedì verso Venere almeno diciotto sonde senza equipaggio. Tredici riuscirono a trasmettere informazioni mentre penetravano nella densa atmosfera venusiana e dieci arrivarono addirittura al suolo e trasmisero da lì dati scientifici e persino immagini: le prime in assoluto scattate dalla superficie di un altro pianeta. Era il 22 ottobre 1975 e la sonda, costruita massicciamente come un batiscafo, era la Venera 9.

Atterrare su Venere richiedeva una progettazione completamente differente da quella tradizionale dei veicoli spaziali, solitamente concepiti per essere il più possibile leggeri ed esili. Venera 9, ancor più delle sonde che l’avevano preceduta, era un carro armato spaziale. Lasciò perdere i propri paracadute già a 50 chilometri di quota, perché tanto si sarebbero sciolti per il calore, e precipitò, come previsto, fino a incontrare gli strati densi dell’atmosfera venusiana.

Grazie alle sonde che l’avevano preceduta, si sapeva che al suolo quegli strati erano a pressioni sicuramente superiori a 25 atmosfere. Lo si sapeva in un modo molto brutale: Venera 4, 5 e 6, concepite per sopportare appunto 25 atmosfere, erano state stritolate come lattine ben prima di arrivare a terra.

La prima a sopravvivere alla discesa era stata Venera 7, che aveva avuto successo nel trasmettere dati scientifici dal suolo venusiano a dicembre del 1970. Aveva resistito a calore, pressione e corrosione per 23 minuti, annunciando temperature di oltre 450 °C.

Venera 9 era talmente robusta che sfruttò quella densità atmosferica spaventosa per frenare aerodinamicamente, grazie a una sorta di ala circolare rigida che la fece planare per ben 55 minuti. Frenare si fa per dire, perché arrivò al suolo cadendo a 25 chilometri l’ora. Nessun problema: sotto la sonda c’era un robusto respingente collassabile, che attutì l’urto dei 660 chilogrammi di massa.


Batiscafo venusiano


Come i batiscafi usati per esplorare le profondità degli oceani, Venera 9 aveva uno scafo sferico resistente alla pressione, con un diametro di circa 80 centimetri, interamente in titanio, rivestito da dodici centimetri di materiale isolante a nido d’ape, a sua volta coperto da un guscio esterno in titanio.

Il calore proveniente dall’esterno veniva assorbito da un accumulatore termico a nitrato di litio triidrato e da uno scambiatore di calore, che proteggevano i numerosi strumenti scientifici e gli apparati di trasmissione situati all’interno dello scafo. Le due telecamere di bordo si affacciavano alla superficie attraverso finestrini di quarzo spessi un centimetro.

Nulla di questi veicoli spaziali era fragile o delicato, insomma; tutto era pensato per la massima robustezza e semplicità. Il sistema di rilascio delle antenne era composto da un blocchetto di zucchero, che si sarebbe sciolto per il calore o in caso di atterraggio in eventuali specchi d’acqua (inizialmente non si sapeva che la temperatura su Venere era così alta).

Venera 9 era persino radioattiva: aveva infatti un densitometro a raggi gamma, basato su un contenitore di un isotopo radioattivo che veniva depositato sulla superficie nella maniera più semplice possibile, ossia usando un braccio che si apriva per caduta. I tappi protettivi delle telecamere venivano fatti saltare con cariche esplosive. Ma nonostante queste soluzioni di forza bruta, uno dei tappi non si staccò.

Le dimensioni della sonda Venera 9 rispetto a uno dei tecnici.

Il modulo di atterraggio della sonda Venera 9. L’elemento circolare piatto è un aerofreno. I due tubi sono condotti per il convogliamento di gas dello scambiatore di calore. La spirale in alto è l’antenna per le comunicazioni radio.


Cartoline dall’inferno


Venera 9 riuscì comunque a trasmettere, oltre a una notevole quantità di misurazioni delle condizioni ambientali, due immagini panoramiche in bianco e nero del suolo venusiano, mostrando agli scienziati russi e poi al mondo una distesa ostile di rocce basaltiche, cotte e smussate dall’ambiente feroce nel quale giacevano.

Una sonda gemella, Venera 10, atterrò tre giorni più tardi, il 25 ottobre 1975, a circa 2200 chilometri di distanza. Anche qui uno dei tappi delle telecamere non si staccò, ma l’altro funzionò come previsto e permise di acquisire e trasmettere immagini del suolo alla parte della sonda che era rimasta in orbita e che ritrasmise i dati verso la Terra. Le lampade che erano state installate a bordo di entrambe le sonde, nel timore che sotto le nubi non ci fosse luce sufficiente, non furono necessarie.

Immagini della superficie di Venere inviate da Venera 9 (sopra) e da Venera 10 (sotto) nel 1976. Credit: Accademia Sovietica delle Scienze.


I tappi delle telecamere furono un vero tormento di queste missioni: per Venera 11 e 12 non se ne staccò nessuno. Andò bene con Venera 13, che trasmise le prime immagini a colori della superficie del pianeta e analizzò un campione di polvere, resistendo poco più di due ore, ma Venera 14 fornì la beffa peggiore: i tappi si staccarono correttamente, ma uno di essi finì esattamente sotto il braccio dello strumento di analisi della compressibilità del suolo, per cui la sonda trasmise verso la Terra informazioni dettagliatissime sulla compressibilità del tappo.

Due tecnici veterani del programma spaziale sovietico, V.I. Yegorov e N.I. Antoshin, accanto al modulo di atterraggio di Venera 13.

Replica della sonda Venera 13 presso il Padiglione del Cosmo della Mostra sui Successi dell’Economia Nazionale a Mosca. In primo piano il veicolo di atterraggio, che era alloggiato all’interno della sfera in cima alla sonda vera e propria in secondo piano. Fonte: NASA.

Immagine panoramica a colori della superficie di Venere, scattata dalla sonda Venera 13 nel 1982. Si vede parte della base della sonda; l’oggetto al centro è un tappo di una delle fotocamere di bordo. Fonte: NASA.

Elaborazione digitale di immagini di Venera 10, ralizzata da Donald Mitchell.

Elaborazione digitale di immagini Venera, realizzata da Donald Mitchell.

Da allora altre sonde russe, americane, europee e giapponesi hanno sorvolato il pianeta, ma nessun’altra è più scesa fino alla superficie. Le missioni Venera costituiscono così un altro primato del programma spaziale russo.


Ritorno a Venere


Viste le difficoltà tecniche e le condizioni ambientali proibitive, le possibilità di visitare Venere sembrano molto scarse e quelle di trovarvi vita paiono nulle. Ma c’è una zona del pianeta che potrebbe ospitare la vita e si presterebbe a una missione meno brutale e fugace delle Venera: è l’alta atmosfera.

La NASA sta preparando, per ora a livello concettuale, una missione con equipaggio denominata HAVOC, dalle iniziali di High Altitude Venus Operational Concept. L‘idea di fondo, fattibile con le attuali tecnologie, è insediarsi a circa 55 chilometri di quota usando dei grandi aerostati.

A questa quota, infatti, l’atmosfera venusiana è la più simile a quella terrestre in tutto il Sistema Solare: la pressione è circa la metà di quella al livello del mare sul nostro pianeta, la temperatura oscilla fra 20 e 30 °C, gli strati più alti offrono protezione sufficiente contro le radiazioni provenienti dallo spazio e c’è moltissima luce solare per generare energia con sistemi fotovoltaici. La gravità è il 90% di quella terrestre.

Gli aerostati sarebbero pieni di ossigeno e azoto, che sono più leggeri degli elementi che compongono l’atmosfera venusiana e quindi consentono di galleggiare, offrendo nel contempo una grande riserva di aria respirabile per gli equipaggi.

Illustrazione di HAVOC, uno studio NASA per un’esplorazione dell’atmosfera venusiana tramite aerostati dotabili di equipaggi. Fonte: NASA.


In queste condizioni, gli astronauti-aeronauti potrebbero uscire all’aperto indossando una semplice tuta resistente agli agenti chimici, non pressurizzata, e un respiratore, passeggiando su una balconata fra le nuvole di Venere.

Considerato che in questo momento i programmi spaziali non prevedono neppure di riportare equipaggi sulla Luna, che rispetto a Venere è dietro l’angolo, progetti come questo possono parere fantascientifici. Ma Venere è meno lontana di Marte e questo riduce l’esposizione alle radiazioni cosmiche durante il tragitto, e la NASA guarda avanti e a volte i piani fantasiosi si concretizzano. Del resto, chi avrebbe mai pensato che un imprenditore privato, Elon Musk, sarebbe riuscito a lanciare verso l’orbita di Marte la propria automobile?


Vita su Venere, vita sulla Terra


Nell‘alta atmosfera venusiana ci sono condizioni adeguate per la vita: alcuni organismi terrestri, gli estremofili, vi si troverebbero a proprio agio. L’ambiente offre ingredienti chimici a volontà e grandi quantità di energia proveniente dal Sole: tutto quel che serve per ospitare forme viventi. La nostra esplorazione di Venere è troppo limitata per escludere questa possibilità, e con il passare del tempo sta diventando chiaro che, perlomeno sulla Terra, la vita si adatta a qualunque ambiente. Sul nostro pianeta esistono forme di vita primitive (batteri) che vivono nelle nuvole. Vale la pena di chiedersi se lo stesso avviene nelle nubi bianchissime che avvolgono il pianeta gemello.

Cosa molto più importante, studiare Venere ci permette di vedere concretamente quali sono gli effetti di un riscaldamento globale incontrollato e quindi di migliorare i nostri modelli del clima terrestre, con tutto quel che ne consegue per il bene della salute del nostro mondo. Anche se non ci si aspetta che la Terra sia soggetta a uno scenario così estremo come quello di Venere, è fondamentale capire quali cambiamenti avvengono in un clima planetario quando si verificano certe condizioni fisiche.

Nonostante Venere sia il pianeta più vicino al nostro, ha delle differenze immense: capire come due pianeti così simili possano avere due evoluzioni così diverse ci può aiutare a capire l’evoluzione del sistema solare e a gestire meglio la nostra astronave Terra.


Fonti: Mental Landscape, National Geographic, Cosmos Magazine, NASA, NASA, Space.com, Universal Science, Space.com, NASA.


Questo mio articolo è stato pubblicato per la prima volta su carta sulla rivista Spazio Magazine dell'Associazione ADAA, è stato aggiornato rispetto alla versione iniziale e vi arriva gratuitamente e senza pubblicità grazie alle donazioni dei lettori di questo blog. Se vi è piaciuto, potete incoraggiarmi a scrivere ancora facendo una donazione anche voi, tramite Paypal (paypal.me/disinformatico), Bitcoin (3AN7DscEZN1x6CLR57e1fSA1LC3yQ387Pv) o altri metodi.

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