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2019/10/19

Perché le stazioni spaziali ruotano solo nella fantascienza?

Eleganti nella loro simmetria e forma circolare, volteggiano nel cosmo in tante illustrazioni classiche di progetti spaziali e film di fantascienza, accompagnate magari dalle note del Danubio blu: sono le stazioni spaziali e le astronavi che ruotano su se stesse, usando l’effetto centrifugo per simulare la gravità nello spazio.

Erano un’idea prediletta di grandi nomi della ricerca spaziale come Konstantin Tsiolkovsky e Wernher Von Braun, furono proposte seriamente negli anni Settanta dalla NASA, e hanno costellato decenni di iconografia fantascientifica, da 2001 Odissea nello spazio a Elysium a The Martian a Interstellar. Ma non sono mai diventate realtà, nonostante un pedigree tecnico così autorevole, e probabilmente non lo diventeranno mai. Perché?


Un po’ di storia


Il russo Konstantin Tsiolkovsky, scienziato e pioniere della teoria dei voli spaziali, concepì l’idea di usare la rotazione per creare gravità artificiale nello spazio già nel 1903, quasi sei decenni prima del primo volo spaziale umano. La forma a ruota fu proposta nel 1929 dallo sloveno Herman Noordung (Herman Potočnik) nel suo studio Das Problem der Befahrung des Weltraums (Il problema del volo spaziale).

Il tedesco Wernher Von Braun, progettista chiave dei programmi spaziali statunitensi, immaginò negli anni Cinquanta una stazione a forma di ruota avente un diametro di 76 metri, che avrebbe ruotato su se stessa tre volte al minuto producendo sul proprio bordo, costituito da un tubo semirigido gonfiabile abitato su tre livelli, una gravità simulata equivalente a un terzo di quella terrestre. Questa stazione sarebbe stata l’avamposto dal quale sarebbero partite le missioni verso la Luna e i pianeti.

Le illustrazioni di questa ruota spaziale nella popolarissima rivista statunitense Colliers Magazine, realizzate da grandi artisti come Chesley Bonestell e accompagnate da articoli che ne divulgavano le caratteristiche tecniche con invidiabile ottimismo, cementarono quest’idea nell’immaginario collettivo.

La stazione rotante circolare proposta da Von Braun nel 1952 e illustrata da Chesley Bonestell. Foto NASA MSFC-75-SA-4105-2C.

Nei piani di Von Braun, la stazione spaziale sarebbe stata dotata di un grande collettore solare (la struttura semicircolare appoggiata sopra l’anello abitativo) e sarebbe stata alimentata, secondo i disinvolti standard dell’epoca, da un reattore nucleare situato nella porzione centrale.

L’idea della stazione a forma di ruota fu poi trasposta sul grande schermo in modo memorabile dal regista Stanley Kubrick in 2001 Odissea nello spazio (1968), film nel quale anche l’astronave interplanetaria Discovery è dotata di una sezione rotante per creare a bordo una zona dotata di gravità apparente.

La stazione spaziale rotante di 2001 Odissea nello spazio (1968).


La sezione rotante dell’astronave Discovery di 2001 Odissea nello spazio (1968).

Studi della NASA svolti negli anni Settanta svilupparono in dettaglio l’idea del toroide di Stanford, ossia di una gigantesca struttura toroidale, con un diametro di 1,8 chilometri, messa in rotazione alla velocità di un giro al minuto per produrre nella zona periferica un effetto equivalente alla gravità terrestre e capace di ospitare alcune migliaia di persone.

Il toroide di Stanford (1975), al di sotto del quale è posizionato un colossale specchio per illuminare l’interno. Fonte: Wikipedia.


La corsa alla Luna, tuttavia, fece mettere da parte queste tappe intermedie in favore di veicoli capaci di raggiungere le proprie destinazioni direttamente, senza passare da una stazione. I budget sempre più scarsi erogati dai governi alle agenzie spaziali negli anni successivi agli sbarchi umani sulla Luna stroncarono queste ambiziose strutture rotanti. Al loro posto furono realizzate stazioni spaziali non rotanti, come le Salyut e Mir sovietiche, lo Skylab statunitense, la Tiangong cinese e la Stazione Spaziale Internazionale.

La stazione Skylab statunitense.


La stazione spaziale sovietica Salyut 7.

La stazione spaziale sovietica Mir.

Illustrazione di una stazione spaziale cinese della serie Tiangong e di un veicolo spaziale Shenzhou.

La Stazione Spaziale Internazionale nel 2009.


Mal di spazio


La condizione di assenza di peso o di caduta libera continua che si verifica in un veicolo spaziale orbitante attuale lo rende ideale per qualunque esperimento in microgravità, come avviene oggi sulla Stazione Spaziale Internazionale, ma comporta numerosi svantaggi che renderebbero molto desiderabile una forma di gravità artificiale.

L’assenza di peso prolungata è infatti deleteria per l’organismo umano, perché altera la distribuzione dei fluidi corporei, atrofizza i muscoli, indebolisce le ossa, deforma il bulbo oculare riducendo la vista a volte in maniera permanente, deprime il sistema immunitario e causa nausea e perdita dell’equilibrio al momento del ritorno in gravità. Arrivare su Marte dopo qualche mese di viaggio e non riuscire a stare in piedi, non vederci bene o vomitare dentro la tuta spaziale sarebbe imbarazzante.

Lo stato di caduta libera è anche una complicazione drammatica in caso di ferite aperte o interventi chirurgici: il sangue rilasciato si disperde infatti in tutte le direzioni come una fontana, occultando il campo operatorio invece di defluire e imbrattando qualunque superficie circostante.

Questa assenza di peso è inoltre fonte di disagi in moltissime attività quotidiane, come l’uso dei servizi igienici (liquidi e solidi devono essere aspirati, non sempre con risultati efficaci) e l’igiene personale (un bagno o una doccia sono praticamente impossibili), e complica la progettazione e costruzione di propulsori (il propellente fluttua invece di assestarsi sul fondo del serbatoio, creando irregolarità di alimentazione e sciabordii interni destabilizzanti) e degli impianti di ventilazione: l’aria scaldata dal calore corporeo rimane tutt’intorno alla persona invece di allontanarsi per convezione e lo stesso vale per l’anidride carbonica esalata, obbligando l’uso di sistemi di circolazione forzata.

Una stazione spaziale o un veicolo interplanetario che avesse una sezione rotante abitabile, per esempio un anello o dei moduli separati, risolverebbe tutti questi problemi. Eppure la Stazione Spaziale Internazionale non ruota e nessuno dei veicoli spaziali progettati per futuri viaggi interplanetari integra sezioni rotanti. Non è questione di costi: è un problema di fisica di base.


Forze inattese


L’ostacolo principale all’uso di stazioni e veicoli spaziali rotanti è il nostro senso dell’equilibrio. L’orecchio interno è estremamente abile nel percepire il movimento e la gravità, e muoversi all’interno di un corpo rotante significa subire l’effetto Coriolis, che devia ogni oggetto che vari la propria distanza dal centro di rotazione. Un astronauta che si alzasse in piedi o si abbassasse all’interno di una centrifuga spaziale verrebbe colpito da attacchi di nausea, perché i fluidi dell’orecchio interno verrebbero deviati da questo effetto rispetto alla “verticale” locale, mandando al cervello segnali contraddittori continui.

Lo stesso avverrebbe per ogni rotazione del capo, e inoltre un astronauta che camminasse in direzione opposta al senso di rotazione annullerebbe l’effetto centrifugo e si troverebbe improvvisamente a fluttuare. Sarebbe una situazione decisamente disorientante.

Questi fenomeni diminuiscono man mano che aumenta la dimensione della struttura rotante, ma per farli diventare trascurabili sarebbero necessari diametri enormi, dai cento metri in su, con vertiginosi aumenti dei costi e difficoltà tecniche altrettanto critiche.


Ruote sbilanciate


Una struttura rotante, inoltre, si troverebbe soggetta a squilibri e sollecitazioni derivanti dalla distribuzione non uniforme delle masse e al loro spostamento al suo interno: è il motivo per cui è necessario effettuare il bilanciamento delle ruote delle automobili. Gli oggetti a bordo dovrebbero essere disposti in modo perfettamente bilanciato e un astronauta che si spostasse da una parte all’altra della stazione o astronave rotante produrrebbe delle forze che tenderebbero ad alterare l’asse di rotazione. Lo stesso varrebbe per qualunque trasferimento di masse o fluidi da una parte all’altra della struttura: un dettaglio cruciale, spesso dimenticato con disinvoltura dai film di fantascienza.

Ancora una volta, per evitare che queste forze facessero oscillare il veicolo o la stazione in maniera incontrollata e irregolare sarebbe necessario avere diametri e masse enormi o complessi sistemi di compensazione della distribuzione delle masse, con costi e difficoltà realizzative attualmente insostenibili.


In Interstellar, il veicolo spaziale Endurance mantiene magicamente una rotazione stabile nonostante sia stata fortemente sbilanciata dalla colossale stupidità di Matt Damon.


Finestrini, giunti ed attracchi da incubo


Avere una stazione o un veicolo spaziale interamente rotante significherebbe che un astronauta che guardasse fuori da un finestrino vedrebbe tutto il cielo girargli intorno costantemente: un effetto sicuramente disorientante e sgradevole, che oltretutto renderebbe impraticabile qualunque attività di navigazione basata sulla posizione delle stelle. Amedeo Balbi presenta questo grafico del rapporto fra raggio della stazione e velocità di rotazione in questo suo video a 9:45. Una stazione con un diametro di due chilometri dovrebbe fare un giro al minuto, correndo come la lancetta dei secondi sul quadrante di un orologio.



La rotazione renderebbe inoltre complicatissimo qualunque attracco di un veicolo di rifornimento o di trasferimento di astronauti: sarebbe necessario fermare la rotazione per ogni distacco o attracco, causando sollecitazioni alla struttura e producendo scompiglio a bordo (qualunque oggetto non vincolato continuerebbe a ruotare e “cadrebbe” lateralmente).

La soluzione mostrata con kubrickiana eleganza in 2001 Odissea nello spazio, ossia far ruotare il veicolo che deve attraccare alla stessa velocità alla quale ruota la stazione spaziale, richiederebbe un allineamento assiale perfetto e un’altrettanto perfetta corrispondenza delle velocità di rotazione. Ma un attracco orbitale è già ora una manovra cruciale e complicatissima senza introdurre tutte queste difficoltà aggiuntive.

Si potrebbe concepire una stazione oppure un veicolo spaziale avente soltanto alcune porzioni che ruotano: questo risolverebbe i problemi di attracco (i veicoli in visita attraccherebbero alla parte non rotante) e di disorientamento e navigazione stellare (i finestrini e gli strumenti di puntamento delle stelle sarebbero situati solo nella parte non rotante).

Tuttavia questo introdurrebbe un altro problema tecnico: sarebbe infatti necessario costruire un giunto rotante perfettamente ermetico fra la parte rotante e quella fissa. Da questo giunto dovrebbero passare inoltre tutti i cavi di alimentazione e le condotte di trasporto dei fluidi. Qualunque malfunzionamento di questo giunto comprometterebbe l’intera stazione o astronave. Ancora una volta, la complessità realizzativa sarebbe così elevata da rendere rischioso e poco praticabile questo approccio.


Soluzioni alternative


L’idea delle stazioni o astronavi rotanti sembra insomma destinata a restare sulla carta o sullo schermo. Ma esistono altri metodi per ottenere lo stesso risultato di gravità artificiale senza tutti gli effetti negativi descritti fin qui.

Uno è già stato sperimentato, sia pure in maniera modesta: nel 1966 la missione statunitense Gemini 11 unì con un cavo di 30 metri la capsula con gli astronauti al vettore Agena senza equipaggio, e l’insieme fu messo in lenta rotazione, a 0,15 giri al minuto, come delle bolas.

Il vettore Agena collegato con un cavo alla capsula Gemini 11 nel 1966 durante un esperimento di gravità artificiale. Fonte: JSC Digital Image Collection.


Questo produsse a bordo della capsula 0,0005 g: pochissimo, ma comunque sufficiente a dimostrare la fattibilità di un veicolo nel quale la parte abitata ruota all’estremità di un cavo intorno a una massa centrale. Una struttura del genere minimizza i problemi di equilibratura e riduce enormemente le masse in gioco, rendendola più fattibile con i vettori di lancio attuali e consentendo un arresto della rotazione per gli attracchi.

Un’altra soluzione, ancora più elegante, è sottoporre il veicolo a una propulsione continua: finché il motore è acceso, tutto a bordo sarà soggetto a un’accelerazione lungo l’asse di spinta. Non ci sarebbe nessun effetto Coriolis e si interromperebbe la gravità artificiale semplicemente spegnendo il propulsore. I motori chimici tradizionali non sono in grado di funzionare continuamente, ma i propulsori ionici (già in uso su sonde come Dawn o BepiColombo) possono farlo, anche se attualmente erogano spinte modestissime e quindi produrrebbero gravità artificiali molto lievi.

La terza alternativa è utilizzare la gravità naturale: la massa di un asteroide come Cerere o Vesta, per esempio, genera spontaneamente circa un cinquantesimo della gravità terrestre. Ma la propulsione necessaria per variare la traiettoria di un oggetto così massiccio è, almeno per ora, irrealizzabile.

Con somma gioia di Mel Brooks e di tutti i suoi fan, insomma, forse un giorno ci troveremo ad andare verso Marte a bordo di bolas spaziali.


Questo mio articolo è stato pubblicato per la prima volta su carta sulla rivista Spazio Magazine dell'Associazione ADAA, è stato aggiornato rispetto alla versione iniziale e vi arriva gratuitamente e senza pubblicità grazie alle donazioni dei lettori di questo blog. Se vi è piaciuto, potete incoraggiarmi a scrivere ancora facendo una donazione anche voi, tramite Paypal (paypal.me/disinformatico), Bitcoin (3AN7DscEZN1x6CLR57e1fSA1LC3yQ387Pv) o altri metodi.

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