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2019/10/05

Shuttle vs Buran: spy-story e tecnologie a confronto

1988: una navetta spaziale, grande come un aereo di linea, rientra dallo spazio ed esegue un atterraggio perfetto sulla pista, nonostante il vento traverso a 60 chilometri orari. Ma quando i tecnici aprono il portello del veicolo, a bordo non c’è nessuno.

La navetta, infatti, non è uno Shuttle statunitense: è una Buran sovietica, che è capace di atterrare autonomamente, cosa che il veicolo americano non è in grado di fare, tanto che è stato necessario mettere a bordo dello Shuttle due astronauti (John Young e Bob Crippen) persino per il suo volo inaugurale: una scelta rischiosissima e senza precedenti.

Lungi dall’essere una semplice copia dello Shuttle, come credono molti, la Buran è un veicolo profondamente differente e per molti versi superiore per concezione. Purtroppo il destino farà sì che quel suo straordinario debutto sarà anche il suo unico volo.


L’era dei “furgoni spaziali”


Torniamo indietro di oltre vent’anni rispetto a quello spettacolare volo della Buran: gli Stati Uniti svilupparono lo Space Shuttle negli anni Sessanta e Settanta come veicolo da trasporto spaziale, capace di essere in gran parte riutilizzato invece di essere usabile una sola volta come i veicoli spaziali che l’avevano preceduto.

Questo riutilizzo, si pensava, avrebbe abbattuto drasticamente, di circa il 90%, i costi dei voli spaziali. Inoltre il suo profilo di volo, con accelerazioni più dolci e un atterraggio planato invece di un ammaraggio, avrebbe consentito di portare nello spazio anche astronauti meno iperselezionati di quelli richiesti dai veicoli Mercury, Gemini e Apollo precedenti.

Illustrazione dello Shuttle statunitense come era concepito nel 1969: ali piccole, stabilizzatore posteriore e lanciatore alato con equipaggio e riutilizzabile.


Il progetto Shuttle, annunciato mentre gli ultimi astronauti ancora stavano camminando sulla Luna nel 1972, subì nel corso degli anni moltissime variazioni e ridimensionamenti: il budget spaziale, limitato dopo i fasti della Luna, costrinse la NASA a rinunciare alla piena riusabilità prevista inizialmente.

Il lanciatore alato pilotato, che avrebbe dovuto portare in quota lo Shuttle orbitale vero e proprio, divenne un semplice serbatoio esterno sacrificabile, e per la prima volta un veicolo con equipaggio fu dotato di booster a propellente solido.

Una scelta rischiosa, visto che i booster di questo tipo non possono essere regolati o spenti una volta accesi; una scelta che si rivelerà fatale durante un decollo dello Shuttle Challenger nel 1986, quando una fiammata proveniente da una guarnizione difettosa di questi enormi razzi farà deflagrare il serbatoio, distruggendo il veicolo e portando i sette membri dell’equipaggio alla morte in diretta televisiva mondiale. Lo Shuttle era, per usare le parole di uno dei suoi astronauti, una farfalla legata ad un proiettile.


Ali rivelatrici


I sovietici esaminarono in dettaglio i progetti dello Shuttle e si resero conto che mostravano una caratteristica per loro preoccupante: la grande ala a doppio delta, con la sua enorme tripla penalità (di peso e aerodinamica al decollo, termica al rientro). Adottarla aveva senso soltanto se lo Shuttle doveva avere delle finalità militari strategiche.

Lo Shuttle Columbia al decollo.


In effetti l‘ala a doppio delta non faceva parte del progetto Shuttle originale, che era stato appunto concepito con ali piccole e diritte: la grande ala fu imposta da un requisito militare, il cosiddetto “long crossrange”, ossia la capacità di rientrare compiendo ampie virate per spostarsi lateralmente di oltre 2000 chilometri rispetto alla traiettoria orbitale.

Questa capacità avrebbe permesso allo Shuttle di decollare per esempio dalla base militare californiana di Vandenberg, inserirsi in un’orbita polare, mettere in orbita un oggetto militare (o prelevarlo dall’orbita) e poi rientrare di nuovo a Vandenberg dopo una singola orbita, compensando la rotazione terrestre con una grande virata, senza mai sorvolare territori nemici, come descritto nel documento STS Design Reference Mission 3A/3B (NASA, 1973).

Verso la fine degli anni Settanta questo requisito di elevato crossrange fu abbandonato dai militari, ma a quel punto il progetto Shuttle era andato troppo avanti per cambiarlo radicalmente e quindi l’ala a doppio delta rimase.

I sovietici, in piena Guerra Fredda, interpretarono quell’ala come un segno evidente che gli americani volevano dotarsi di un veicolo che avrebbe permesso, per esempio, di rubare un satellite russo oppure di mettere in orbita di nascosto un ordigno nucleare da far cadere a sorpresa su Mosca, eludendo i satelliti di sorveglianza russi che avrebbero rilevato la fiammata di un normale missile balistico intercontinentale.

La soluzione sovietica a questa nuova arma americana fu logica, inevitabile e tradizionale: come era già avvenuto per tante altre tecnologie, per esempio il bombardiere Tupolev Tu-4 (identico al B-29 statunitense) o il supersonico di linea Tu-144 (ispirato dal Concorde anglo-francese), fu deciso di costruirne una copia uguale, anzi per certi versi migliore. Nacque così il progetto Buran.


Spie e controspie


A prima vista la Buran in effetti sembra una copia spudorata dello Shuttle: stesse dimensioni, stessa ala a doppio delta, stesso timone, stessa configurazione con grande vano di carico dotato di due portelloni incernierati longitudinalmente, stessa collocazione dei motori di manovra, stessa tecnica di rientro planato senza propulsione.

Indubbiamente i sovietici approfittarono delle esperienze e delle scelte già fatte dai loro omologhi americani, facendo anche incetta di tutta la documentazione pubblica sul progetto Shuttle, per saltare molte tappe di ricerca e sviluppo. Ma la CIA e l’FBI se ne accorsero e iniziarono a disseminare documenti alterati per confondere i russi e indurli a costruire la Buran con i materiali e le specifiche sbagliate, come raccontato dal documento The Farewell Dossier pubblicato sul sito della CIA.

I sovietici copiarono le caratteristiche aerodinamiche dello Shuttle, ma furono comunque costretti a distaccarsi dal progetto americano per via della loro arretratezza tecnologica in fatto di grandi razzi a propellente solido e di motori riutilizzabili ad elevatissime prestazioni come quelli usati dallo Shuttle, per cui il depistaggio americano fu efficace soltanto indirettamente: non impedì ai russi di costruire una navetta spaziale, ma li rallentò e li costrinse ad affrontare un progetto costosissimo che l’economia russa non poteva sostenere, per cui a modo suo contribuì comunque al collasso dell’Unione Sovietica.

I progettisti russi scelsero due soluzioni eleganti per compensare le proprie limitazioni motoristiche: adottarono quattro grandi razzi ausiliari a propellente liquido al posto dei due a propellente solido americani e tolsero i motori principali dalla Buran, mettendoli invece nello stadio centrale di un grande lanciatore, denominato complessivamente Energia. In questo modo sparì il requisito della riutilizzabilità dei motori principali, per cui fu possibile adottare, per lo stadio centrale del lanciatore, motori monouso per propellenti liquidi, nei quali i sovietici erano più progrediti degli americani (gli RD-170 di Energia erano ancora più potenti degli F-1 usati nel Saturn V).

Non solo: togliendole la massa dei motori, la Buran divenne capace di portare in orbita 30 tonnellate di carico contro le 26 dello Shuttle e divenne molto più semplice da preparare per un volo successivo. La Buran, diremmo oggi, era lo Shuttle 2.0.


Trionfo russo, ma con amarezza


Il vettore Energia fu collaudato nel 1987, senza la navetta, con pieno successo. La Buran volò con Energia a novembre del 1988, con anni di ritardo sul rivale Shuttle, che aveva già iniziato i voli nel 1982.

La Buran sulla rampa di lancio al Sito 110 di Baikonur. La rampa è un adattamento di una di quelle usate per il fallito vettore lunare N-1.


La Buran durante il suo primo e ultimo decollo verticale per un volo orbitale, trasportata dal vettore gigante Energia.


Fu un trionfo totale, dopo dodici anni di sofferto e costoso sviluppo: le 80 tonnellate della Buran entrarono in orbita intorno alla Terra alla quota di circa 250 chilometri, trasportando sette tonnellate di strumenti nel vano di carico. Dopo 206 minuti dal decollo e due orbite, la Buran accese i motori di manovra e rientrò, concludendo il proprio volo spaziale con una perfetta planata sull’apposita pista dello stesso cosmodromo di Baikonur dal quale era partita verticalmente.

L’Unione Sovietica aveva dimostrato di essere tecnologicamente in grado di costruire uno spazioplano grande come un aereo di linea e capace di effettuare il lancio, le manovre orbitali, il rientro e l’atterraggio in maniera completamente automatica e autonoma, senza equipaggio. Meglio degli americani, che oltretutto avevano già perso un equipaggio con lo Shuttle.

Ma quel trionfo avvenne a meno di un anno dalla caduta del Muro di Berlino, che segnò l’inizio del crollo dell’Unione Sovietica. I sogni di usare la Buran ed Energia, in versione potenziata e pienamente riutilizzabile, per costruire uno scudo spaziale militare, ricostruire lo strato atmosferico protettivo di ozono, illuminare le città polari russe, colonizzare la Luna e Marte svanirono nel vortice del collasso. La Buran non volò più nello spazio: fu esibita in volo, anche in Occidente, portandola sul dorso del gigantesco aereo da trasporto An-225.


Fine ingloriosa


Buran ed Energia furono messi in un hangar a Baikonur come oggetti per impressionare i visitatori, ma nel 2002 la mancanza di manutenzione dell’hangar ne fece crollare il tetto, distruggendo entrambi i veicoli e causando la morte di otto operai. Di questo grande sforzo tecnologico restano soltanto i prototipi e gli esemplari parzialmente costruiti, esposti nei musei di vari paesi o abbandonati nelle gigantesche rimesse di Baikonur, e i magnifici motori RD-170, che sono stati adottati anche per i vettori statunitensi Atlas più recenti.

Un esemplare incompleto di Buran giace abbandonato in un hangar in Kazakistan.


Lo Shuttle americano, dopo un altro disastro nel 2003 che costò la vita a tutti e sette gli astronauti del Columbia durante il rientro, concluse la propria carriera trentennale nel 2011, chiudendo l’era dei veicoli spaziali alati con equipaggio.

Ma qualcosa, di quell’era, rimane tuttora: il “mini-Shuttle” americano senza equipaggio X-37B, che va e viene dallo spazio da anni, avvolto da un segreto quasi totale. Ma questa è una storia da raccontare un’altra volta.

Il “mini-Shuttle” militare statunitense X-37B all’interno della carenatura di lancio. Credit: US Air Force, 2010/Wikimedia.


Fonti: Astronautix, AlternateHistory.com, Discover Magazine, RussianSpaceWeb, Reddit, Yarchive, NBC, NASA.  

Questo mio articolo è stato pubblicato per la prima volta su carta sulla rivista Spazio Magazine dell'Associazione ADAA e vi arriva gratuitamente e senza pubblicità grazie alle donazioni dei lettori di questo blog. Se vi è piaciuto, potete incoraggiarmi a scrivere ancora facendo una donazione anche voi, tramite Paypal (paypal.me/disinformatico), Bitcoin (3AN7DscEZN1x6CLR57e1fSA1LC3yQ387Pv) o altri metodi.

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