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Ho un caso personale da raccontare a proposito del diritto all’oblio, la controversa norma europea del 2014 (in vigore in Italia da maggio 2016) che in sintesi consente a una persona di richiedere la deindicizzazione dai motori di ricerca (in particolare Google, che ha una FAQ) di un’informazione che la riguarda se è lesiva e se il danno che quest’informazione le causa è prevalente rispetto al diritto dei cittadini di esserne informati.
Ovviamente sono subito nati metodi per abusare di questo diritto e per eluderlo, creando intorno a chi ricorreva alla norma un effetto Streisand che paradossalmente riportava alla notorietà chi invece voleva svanire nell’oblio. Ne avevo dato alcuni esempi qui nel 2014.
In linea di principio sono contrario a questa norma proprio perché è inefficace (troppo facile da eludere per un utente competente) e rischia di essere un comodo paravento per le malefatte di personaggi che invece non dovremmo mai dimenticare. Ma soprattutto mi puzza di censura orwelliana.
Provate infatti a immaginare se il diritto all’oblio si applicasse alla carta stampata. Andreste in un archivio di un giornale a cercare gli articoli che parlano di una persona e trovereste, al loro posto, un grosso buco ritagliato con le forbici. Come vi sentireste? Deindicizzare un articolo da Google è come sforbiciare un articolo da un giornale: non esiste più, non è più leggibile, e non potete neanche sapere che cosa diceva. Anzi, non sapete neanche che è mai esistito. Con il calo dei lettori dei giornali e il boom delle notizie lette in Rete, la presenza o l’assenza online di una notizia conta più di quella cartacea.
Tutto questo è teoria: ma la pratica è sempre un po’ diversa. Qualche mese fa un avvocato mi ha contattato telefonicamente e via mail, chiedendomi di eliminare un mio articolo nel quale descrivevo una vicenda accaduta ad una persona. Quello che avevo scritto, ha spiegato, era datato (l’articolo riguardava fatti di più di dieci anni fa) e a suo avviso causava gravissimi danni all’immagine e alla reputazione della persona assistita, dato che l’articolo era fra i primi risultati che comparivano in Google digitando il nome della persona. La richiesta dell’avvocato si basava appunto sul diritto all’oblio (scusatemi se sono molto vago e non fornisco dettagli, ma vorrei evitare appunto l’effetto Streisand che citavo prima).
Più precisamente, mi si chiedeva di eliminare uno specifico link (quello che portava all’articolo) o di deindicizzarlo oppure di rimuovere il nome della persona dall’articolo. Tre richieste assurde dal punto di vista tecnico:
– eliminare il link non ha molto senso: l’articolo è linkato non solo nei miei blog e siti, ma anche in molti altri di terzi, sui quali non ho alcun controllo, e comunque anche se quei link venissero eliminati Google indicizzerebbe comunque il mio articolo.
– deindicizzare un link da Google non dipende da me: è ovviamente compito di Google.
– togliere il nome della persona dall’articolo non otterrebbe comunque il risultato desiderato, perché il testo dell’articolo e soprattutto il suo URL, che contiene il nome della persona, permetterebbero comunque di identificarla facilmente.
Oltre alle questioni tecniche, però, c’era la questione di principio. In sostanza, un avvocato stava chiedendo a un giornalista di censurare un articolo. E il giornalista in questione ero io: un conto è sentenziare in astratto, un altro è trovarsi di fronte alla realtà concreta. Ci ho pensato su un paio di settimane.
Poi, a malincuore, ho risposto offrendomi di cancellare l’articolo indicato dal link e spiegando che le richieste originali erano tecnicamente impraticabili o inefficaci. Ho chiesto però di ricevere una lettera formale di richiesta (firmata e su carta intestata). Contemporaneamente ho messo in guardia contro l’inevitabile effetto Streisand: togliendo il mio articolo, che faceva il più obiettivamente possibile il punto della situazione e ridimensionava accuse pesanti fatte alla persona in questione, Google avrebbe probabilmente fatto emergere in cima ai propri risultati altre copie del mio articolo oppure altre citazioni degli articoli di giornale sui quali mi ero basato: citazioni magari ostili, parziali e fuorvianti. Insomma, la richiesta rischiava di essere un autogol.
L’avvocato ha riferito le mie osservazioni alla persona assistita, che ha confermato di voler chiedere comunque la cancellazione della pagina. Così ho rimosso l’articolo, chiedendo colpevolmente scusa al fantasma di George Orwell e alla mia sgualcitissima copia di 1984.
Sapete bene che in altri casi non sono stato conciliante (ricorderete le diffide e le denunce mandatemi da Giulietto Chiesa e da vari direttori dei giornali che coglievo a pubblicare bufale, cordialmente cestinate), ma stavolta ho valutato che non valeva la pena di sostenere il rischio e il costo di un’eventuale azione legale per difendere un articolo di più di dieci anni fa, che non era ormai di interesse per nessuno se non per la persona direttamente coinvolta. Per le balle di Giulietto o di Repubblica o del Corriere sì, eccome, perché sono bufale socialmente pericolose, ma non per una storia diventata ormai irrilevante.
Vi racconto tutto questo perché secondo me è un buon esempio di come funziona o non funziona, in concreto, il diritto all’oblio, e perché volevo mostrarvi i dilemmi concreti che comporta. E poi qualcuno mi verrà a chiedere come mai quell’articolo è sparito e vorrei avere già pronta una spiegazione esauriente da dargli. Eccola.
Fra l’altro, ho per le mani un’altra richiesta di applicazione del diritto all’oblio, assai diversa da questa, che riguarda un altro mio articolo. Ma questa è un’altra storia, che vi racconterò non appena l’avrò dipanata e risolta.
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