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2016/12/26

Il cinico business delle bufale. Seconda parte: Affaritaliani.it

L’articolo è stato aggiornato dopo la pubblicazione iniziale. Ultimo aggiornamento: 2016/12/27 10:25.

È facile interpretare le recenti iniziative governative di vari paesi contro le false notizie come un’operazione di creazione del consenso popolare che consenta la censura della Rete e della libertà di espressione dei comuni cittadini. Può anche darsi che l’intento sia davvero questo. Sarebbe un intento decisamente miope e idiota, perché le false notizie non sono un problema soltanto di Internet: i principali disseminatori di “bufale” sono i media tradizionali e le testate giornalistiche regolarmente registrate.

Certo, un post di un utente comune con una foto falsa di Aleppo può fare trecentomila condivisioni, ma è nulla in confronto ai milioni di telespettatori di un servile “dibattito” sul fatto del giorno, alla tiratura quotidiana di un giornale o alle visite al sito Web di una testata giornalistica. Per fare un esempio, il Daily Mail britannico, fabbrica incessante di bufale mediche e di false notizie razziste, alle quali il giornalismo in lingua italiana si abbevera costantemente, tira un milione e mezzo di copie giornaliere, che vengono lette da sei milioni e mezzo di persone, e quattordici milioni di visitatori giornalieri tramite PC (dati Newsworks, dicembre 2016).

Rispetto alla potenza di fuoco di testate come queste, una condivisione di un cittadino comune sui social è una scoreggia in un uragano. In altre parole, se qualcuno pensa che il problema delle false notizie sia colpa dei singoli cittadini e che la soluzione sia rimettere la comunicazione in mano alle testate giornalistiche registrate, sta sbagliando di grosso.

Faccio un piccolo esempio di questo concetto prendendo un caso sul quale vado a colpo sicuro e al riparo da ogni dubbio sulla mia competenza sulla materia trattata per una ragione molto semplice: l’argomento della falsa notizia sono io. Scusatemi, quindi, se questo articolo può sembrare un po’autoreferenziale.

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Affariitaliani.it è una testata giornalistica regolarmente registrata; ha un direttore responsabile. Sulla sua home page questo è dichiarato a chiare lettere: “Testata giornalistica registrata - Direttore responsabile Angelo Maria Perrino - Reg. Trib. di Milano n° 210 dell'11 aprile 1996 - P.I. 11321290154”. Dovrebbe quindi attenersi alle norme sulla stampa e alla deontologia professionale, che include la diligente verifica delle fonti e dei fatti: quello che adesso si chiama pomposamente fact-checking.

Ma guardate cosa ha scritto Affaritaliani.it, in un articolo a firma di Giuseppe Vatinno (ex deputato), a proposito di me in questo articolo (linko la copia salvata su Archive.is per non regalare clic pubblicitari e per garantirmi da eventuali modifiche).

  • “Paolo Attivissimo assunto dalla Boldrini. Ma le tasse le paga in Svizzera” scrive Vatinno nel titolo. Considerato che vivo in Svizzera, lavoro in Svizzera e collaboro con la Radiotelevisione Svizzera da più di dieci anni, dove altro dovrei pagare le tasse? Nel Camerun? 

  • Vatinno afferma che sulle bufale ho costruito “una sorta di impero mediatico e di lucrosi guadagni...”. Piccola nota di fact-checking: no. Se Vatinno ha delle prove di questi “lucrosi guadagni”, è pregato di pubblicarle, anche perché io non li ho ancora visti. Ho un “impero mediatico” e manco lo so. Mo’ me lo segno, direbbe Troisi.

  • Vatinno prosegue: “seguendo il richiamo del soldo, l’Attivissimo prese a collaborare con il nuovo giornale di Belpietro, “La Verità””. Altra piccola nota di fact-checking: La Verità non mi paga. Non scrivo per La Verità. Il giornale di Belpietro ha semplicemente il permesso di ripubblicare su carta quello che scrivo in questo blog, sotto licenza Creative Commons. Se Vatinno avesse fatto il proprio lavoro secondo deontologia, prima di scrivere questa panzana avrebbe verificato.

  • E ancora: “lo Stato italiano deve pagargli costose trasferte dalla Svizzera all’Italia. Ma come? Un esperto informatico come lui non può usare Skype per le riunioni? Invece no. Taxi, aerei, Hotel (magari di lusso), magnate nei migliori ristoranti romani e poi ancora taxi, altri aerei, altre magnate. Insomma un bel po’ di soldi pubblici che se ne andranno per un lavoro che si può, per definizione, fare da casa (sempre in Svizzera però…).” Terza piccola nota di fact-checking: la mia collaborazione con la Camera è stata svolta proprio usando Skype e Hangouts. Sono andato a Roma una sola volta, in treno, per moderare il convegno sulle false notizie il 29 novembre scorso, perché moderare un convegno via Skype è un tantinello impossibile. L’ottima amatriciana che ho mangiato a Roma la sera prima del convegno me la sono pagata io. Se Vatinno vuole esaminare lo scontrino, basta che chieda. 

Questo, vorrei sottolineare, è un articolo pubblicato su una testata giornalistica, sulla quale vigila (in teoria) un direttore responsabile e che vive di clic pubblicitari. Non è il delirio di un utente Facebook o di un blogger in libertà. E non è firmato da un cittadino qualsiasi, ma da un ex deputato.

Non mi si venga a dire che il problema delle false notizie è solo un problema di Internet o dei social network.

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