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2018/07/11

Come si va in bagno nello spazio? Storia di una sfida tecnica

Una versione leggermente ridotta di questo mio articolo è stata pubblicata per la prima volta nel numero di ottobre 2017 di Spazio Magazine dell’associazione ADAA. Ultimo aggiornamento: 2018/07/12 9:20.

La gestione sicura dei rifiuti solidi e liquidi del corpo umano è una questione tecnica essenziale per qualunque missione spaziale, ma raramente discussa in pubblico. Se chiedete a un astronauta come si va al gabinetto nello spazio, spesso risponderà con garbo e discrezione usando le parole rese famose dall’astronauta lunare Charlie Duke: “Very carefully”, ossia “Con molta attenzione.”

L’attenzione è meritatissima, perché in microgravità ciò che si vorrebbe allontanare il più rapidamente possibile dal proprio corpo tende a non farlo: per esempio, la tensione superficiale fa aderire i liquidi al corpo come una pellicola, mentre nel caso dei rifiuti solidi si verifica un particolare effetto di estrusione non lineare che i tecnici chiamano “the curl” (il ricciolo) sul quale forse non è il caso di spendere altre parole per non urtare gli animi più sensibili. Se avete presente come si comporta la pasta d’acciughe quando la spremete dal tubetto, non vi serve sapere altro.

Come se non bastasse, se l’astronauta o cosmonauta riesce ad allontanare correttamente da sé questi materiali indesiderati rischia di trovarsi circondato da una galassia di maleodoranti particelle liquide o solide fluttuanti, che sarebbe ovviamente pericoloso trovarsi addosso, inalare o ingerire e sarebbe poco salutare dover maneggiare o rimuovere dagli apparati tecnici di bordo, dove potrebbero creare intasamenti, contaminazioni e corti circuiti.

Sulla Terra, o su un altro corpo celeste come la Luna o Marte, la gravità fa andare tutto verso il basso nei recipienti appositi, ma in assenza di peso occorre trovare un altro modo di raccogliere e contenere le sostanze indesiderate. In altre parole, creare un gabinetto spaziale che funzioni a dovere è una sfida tecnica impegnativa, spesso taciuta ma assolutamente vitale per qualunque viaggio nel cosmo.


Primi esperimenti


I primi voli spaziali russi e americani con equipaggio furono talmente brevi che il problema della toilette non si pose, con una eccezione notevole: quella di Alan Shepard, che il 5 maggio 1961 divenne il primo americano a compiere un volo nello spazio nel quale ci si dovette confrontare con i limiti fisiologici del corpo umano in questo campo delicato. Il volo di Shepard (suborbitale, mentre i russi avevano già raggiunto l’orbita) aveva una durata prevista di quindici minuti, per cui non era stato previsto alcun sistema di gestione di urina e feci.

Ma il maltempo e alcuni problemi tecnici rinviarono il decollo per quattro ore, e alla fine l’astronauta si trovò costretto ad annunciare ai controllori della missione che aveva bisogno di orinare. Estrarlo dalla capsula sarebbe stato molto complicato e avrebbe richiesto il rinvio del lancio, per cui i tecnici si consultarono e diedero a Shepard il permesso di orinarsi addosso, dentro la tuta spaziale. Il liquido mandò in corto i sensori dei parametri fisiologici sul corpo dell’astronauta, che era coricato sulla schiena per il decollo, ma tutto andò bene e Alan Shepard completò il proprio volo con successo.

Fu avviato un programma di ricerca dettagliato per risolvere la questione, ma i risultati non furono molto positivi, anche perché l’unico modo per simulare l’assenza di peso senza andare nello spazio era (ed è tuttora) effettuare voli parabolici con aerei di linea appositamente modificati, che offrivano soltanto una ventina di secondi di caduta libera, durante i quali intrepidi volontari, e alcune volontarie, dovevano espletare i propri bisogni a comando in quei venti secondi e oltretutto sotto i riflettori delle cineprese che riprendevano da vicino l’intera procedura.

I filmati di queste sperimentazioni non sono mai stati rilasciati, ma leggenda vuole che alcune copie abusive dei test femminili venissero proiettate verso la fine delle feste più vivaci organizzate dagli astronauti e tecnici statunitensi.

Il maschilismo dell’epoca e un’anatomia femminile ritenuta a torto meccanicamente più impegnativa contribuirono per decenni a impedire che le donne partecipassero a missioni voli spaziali di lunga durata.

Queste limitazioni, insieme a quelle imposte dalla capacità di carico dei vettori spaziali che rendevano impraticabile avere a bordo l’ingombro e il peso di una latrina vera e propria, portarono per molti anni a un rimedio molto primitivo: nelle missioni statunitensi Gemini e Apollo, l’urina veniva raccolta in un sacchetto che si raccordava ai genitali maschili tramite una sorta di preservativo modificato e le feci venivano raccolte in un altro sacchetto, dotato di imboccatura adesiva da applicare alla parte interessata, agevolando il distacco delle feci tramite un dito inserito in un’apposita rientranza del sacchetto: a cose fatte, era necessario introdurre nel sacchetto un liquido germicida e impastare il tutto per evitare fermentazioni, perché i rifiuti solidi venivano tenuti a bordo per le analisi post-volo. Quelli liquidi venivano scaricati nello spazio, sublimandosi di colpo e creando una nube scintillante di particelle che l’astronauta Wally Schirra chiamò la Constellation Urion, ossia la “costellazione di Orinone”.

L’urina scaricata nello spazio crea la “costellazione di Orinone” (da National Geographic, aprile 1966). Credit: NASA/National Geographic.

Una fecal bag dell’epoca delle missioni Apollo. Foto mia presso la mostra A Human Adventure, Milano, febbraio 2018.

L’operazione poco gradevole, da effettuare naturalmente in assenza di peso e senza privacy, era complicata, richiedeva molti minuti e spesso non era coronata da pieno successo: vi sono registrazioni memorabili di astronauti (per esempio quelli di Apollo 10, nel 1969) che discutono di chi sia un frammento fecale fluttuante nella stretta cabina.

Trascrizione delle conversazioni in cabina di Apollo 10.


Schema del Waste Management System (sistema di gestione dei rifiuti umani solidi e liquidi) della capsula Apollo. Credit: NASA.


Ai cosmonauti russi delle Soyuz andava un po’ meglio, dato che il veicolo aveva due spazi abitativi separabili che consentivano un minimo di intimità e c’era una rudimentale toilette costituita da un imbuto e da un vasino collegati a un tubo aspirante.

L’addestratore russo per la “toilette” di bordo del veicolo Soyuz. Credit: CSA/Chris Hadfield.


Per le fasi di volo durante le quali astronauti e cosmonauti dovevano restare sigillati nella propria tuta pressurizzata e per le “passeggiate spaziali” si adottò (e si adotta tuttora) una sorta di pannolone, oggi chiamato elegantemente Maximum Absorbency Garment. L’introduzione di una dieta a basso residuo solido e di un clistere pre-volo consentì a russi e americani di contenere il problema ma non di risolverlo del tutto.


Verso soluzioni più dignitose


Con l’avvento delle prime stazioni spaziali (le Salyut sovietiche e lo Skylab statunitense negli anni Sessanta e Settanta del secolo scorso) e dello Shuttle americano fu possibile adibire una parte della cubatura del veicolo a latrina, come avviene anche oggi a bordo della Stazione Spaziale Internazionale (ma non, a quanto risulta, sulla stazione cinese Tiangong, che per queste funzioni usa gli apparati semplificati del veicolo Shenzhou).

Inoltre, dopo tutte le riluttanze degli ingegneri degli anni Sessanta e Settanta, ci si rese conto che l’anatomia femminile era in realtà perfettamente gestibile usando semplicemente un un po’ di destrezza e un imbuto appositamente conformato (aderente al corpo e dotato di un’apertura per l’ingresso dell’aria, diversamente dall’imbuto maschile, per il quale l’aderenza ai genitali non è richiesta ed è anzi sconsigliata).

Lo Shuttle, per esempio, aveva un gabinetto vero e proprio: una piccolissima cabina nella quale l’astronauta si poteva fissare inserendo i piedi nelle apposite staffe per poi orinare dentro un imbuto dotato di impianto aspirante oppure “sedersi” su un sedile dotato di una piccola apertura di dieci centimetri di diametro, anch’essa collegata a un aspiratore.

L’uso di questo gabinetto spaziale richiedeva un apposito addestramento sulla Terra, con tanto di positional trainer: un simulatore fisico nel quale l’astronauta imparava a sedersi correttamente e ad allineare con precisione il proprio sfintere rispetto all’orifizio del gabinetto, con l’ausilio di una telecamera che inquadrava dall’interno della toilette l’intera manovra: sicuramente un modo per contemplare se stessi da un punto di vista inconsueto.


Una volta padroneggiato il positional trainer, si passava al functional trainer, nel quale bisognava procedere concretamente alle evacuazioni, eseguendo inoltre la complessa procedura di attivazione e gestione del sistema aspirante. Non era certo una soluzione agevole, ma era già un passo avanti rispetto al sacchetto o al vasino del passato. L’unico inconveniente era che i rifiuti liquidi spesso si ghiacciavano all’esterno dello Shuttle, causando frequenti intasamenti che rendevano inservibile questa toilette e obbligando gli astronauti a tornare ai sistemi tradizionali.

Questo nuovo sistema ebbe un rodaggio particolarmente sofferto. Durante il primo volo dello Shuttle (STS-1) il sistema di raccolta delle urine funzionò correttamente, ma quello fecale si intasò. Per fortuna c’erano a bordo, come riserva, i vecchi sistemi Apollo.

Durante questa missione di debutto si scoprì anche un altro problema: disseccare le feci usando il vuoto tendeva a generare polveri fecali che, se il sistema non funzionava alla perfezione, si potevano diffondere nell’atmosfera della cabina, cosa che accadde puntualmente durante il rientro di STS-1. Il rischio era che questa polvere entrasse in contatto con gli occhi, il naso o la gola degli astronauti e che l’umidità naturale di queste zone ricostituisse la materia fecale. Una situazione particolarmente indesiderabile. Il gabinetto spaziale fu drasticamente riveduto e semplificato per le missioni successive.

Sulla Stazione Spaziale Internazionale ci sono attualmente due gabinetti, uno nella sezione russa e uno nella sezione statunitense. Entrambi usano gli stessi principi meccanici già collaudati e richiedono lo stesso genere di addestramento all’uso: la gravità viene sostituita dall’aspirazione, un imbuto collegato a un tubo aspirante raccoglie i liquidi e un recipiente metallico in depressione raccoglie i solidi.

La miglioria importante rispetto al passato è che sull’imbocco del recipiente viene fissato ogni volta un sacchetto perforato che raccoglie le feci, riducendo il rischio di dover procedere a catture manuali di particelle fluttuanti. Il recipiente viene periodicamente sostituito ed eliminato mettendolo a bordo dei veicoli cargo destinati a disintegrarsi durante il rientro in atmosfera.

L’astronauta ESA Samantha Cristoforetti alle prese con un simulatore della toilette della Stazione Spaziale Internazionale sulla Terra. In mano ha il tubo aspirante per i liquidi; sul pavimento c’è il recipiente per i solidi. Credit: ESA.


Anche qui non mancano i problemi: l’accumulo di materiale fecale crea odori che si cerca di trattenere filtrando l’aria, lasciando che il freddo dello spazio congeli man mano il materiale e sigillando il contenitore dopo ogni uso, ma queste soluzioni hanno introdotto a loro volta le sfide tecniche denominate coloritamente fecal popcorning (le feci appena espulse tendono a rimbalzare per inerzia sulle pareti e smuovono quelle già congelate, creando un effetto simile al popcorn durante la cottura) e fecal decapitation (il materiale tende a riemergere inaspettatamente durante la richiusura del sigillo e viene tranciato, con effetti comprensibilmente poco entusiasmanti). Essere astronauti o cosmonauti, insomma, richiede sacrifici e impegno anche in questo campo.


Riciclando verso Marte


La tecnologia della toilette spaziale è ormai matura, ma per effettuare missioni nello spazio profondo occorre ridurre i consumi e quindi riciclare tutto il riciclabile: per questo a bordo della Stazione Spaziale Internazionale è stato introdotto dal 2008 un sistema che recupera, distilla e rende potabile l’umidità dell’aria di bordo generata dalla respirazione degli astronauti e gran parte dell’urina del gabinetto della sezione statunitense.

Questo complesso e delicato sistema riduce drasticamente la quantità d’acqua che è necessario portare nello spazio, contenendo i costi e consentendo missioni più lunghe, anche se ha qualche effetto psicologico da prendere in considerazione. Come dice l’astronauta Paolo Nespoli, infatti, il problema non è tanto l’idea che in un certo senso devi bere la tua stessa pipì: è che ti rendi conto che devi berti anche quella degli altri.

Una volta arrivati sulla Luna o su Marte sarà di nuovo possibile sfruttare la gravità per ottenere un gabinetto che funziona in modo normale in termini di raccolta dei rifiuti solidi e liquidi, ma resterà la necessità di riciclare, alla quale si aggiungerà quella di non contaminare l’ambiente circostante: due esigenze che valgono anche nella vita di tutti i giorni e che dimostrano che l’esplorazione dello spazio tende sempre a far emergere soluzioni, valori e principi che hanno un’importanza fondamentale per la coabitazione non distruttiva anche sulla nostra unica, insostituibile, grande astronave Terra.


Per saperne di più


Apollo Experience Report - Crew Provisions and Equipment Subsystem (1972)

Biomedical results of Apollo (NASA)

Packing for Mars: The Curious Science of Life in the Void, Mary Roach (2010) ISBN 978-0-393-06847-4

In the Museum: Toilet Training, Air & Space Magazine (2009)

Apollo Waste Management System, Waste Management (2017)

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