Per la prima volta nella storia dell’esplorazione del cosmo, un veicolo spaziale ci ha mandato immagini da una distanza così immensa che alcune stelle sono spostate rispetto a come le vediamo sulla Terra. Qui sotto vedete Brian May, chitarrista dei Queen e astrofisico, che guarda queste foto eccezionali con un visore stereoscopico.
Fonte: Brian May su Instagram. |
Le immagini provengono dalla sonda New Horizons, quella che ha fotografato per la prima volta in dettaglio Plutone nel 2015 e incontrato l’asteroide transplutoniano Arrokoth nel 2019, sotto la guida del Principal Investigator Alan Stern, entusiasta del risultato, come vedete in questo suo tweet:
We did it!! CHECK THIS! https://t.co/IrAWW1i7aR— Alan Stern (@AlanStern) June 11, 2020
Alan Stern è il secondo da sinistra nell’allegra comitiva dello Starmus 2019 a Zurigo. All’estrema destra, un losco figuro di vostra conoscenza. |
Non è il veicolo spaziale più distante da noi: questo è un primato che spetta a Voyager 1, che si trova attualmente a ben 22,3 miliardi di chilometri dalla Terra, nello spazio interstellare. Ma New Horizons è la sonda più distante che ha ancora una fotocamera operativa ed è in grado di trasmettere immagini. Si trova in questo momento a circa sette miliardi di chilometri dalla Terra, così lontano che i suoi segnali radio, viaggiando a 300.000 chilometri al secondo, ci mettono sei ore e mezza ad arrivare a noi.
New Horizons ha fotografato due delle stelle più vicine a noi, Proxima Centauri e Wolf 359 (sì, quella della battaglia contro i Borg in Star Trek), il 22 e 23 aprile scorso, nello stesso momento in cui lo facevano gli astronomi sulla Terra, creando così la fotografia stereoscopica con la più grande linea di base mai scattata. Questo è il risultato in animazione GIF: si vedono le due stelle spostarsi rispetto a quelle sullo sfondo.
Proxima Centauri |
Wolf 359 |
In questo articolo della NASA trovate le immagini stereoscopiche in rosso-blu e per visione binoculare con uno stereoscopio (quelle usate da Brian May).
Si tratta della prima parallasse stellare facilmente osservabile con i nostri occhi: la prima dimostrazione intuitiva del fatto che se ci spostiamo nel cosmo a sufficienza, le stelle più vicine ci appariranno spostate rispetto a quelle più lontane, esattamente come un dito della nostra mano si sposta rispetto allo sfondo se lo guardiamo prima con un occhio e poi con l’altro stando fermi. Alle distanze cosmiche raggiunte da New Horizons, il “firmamento” non è più fermo, la volta celeste cessa molto concretamente di essere immaginabile come una sfera, e il fatto che le varie stelle del cielo sono a distanze differenti tra loro è lampante. Il cielo stellato diventa 3D.
Non è la prima volta che si misura la parallasse delle stelle, ma le misurazioni analoghe ottenute in passato dagli astronomi, sfruttando lo spostamento della Terra nel corso della sua orbita annuale intorno al Sole (come mostrato nello schema qui sotto), davano differenze talmente misere da non essere percepibili a occhio nudo nelle immagini: servivano strumenti appositi, denominati eliometri. Erano misurazioni talmente difficili che la prima parallasse stellare fu dimostrata soltanto nel 1838 ad opera di Friedrich Bessel osservando la stella 61 Cygni, nella costellazione del Cigno, a 11,4 anni luce da noi.
Schema di parallasse ottenuta sfruttando l’orbita della Terra. Credit: Vialattea.net. |
Prima del successo di Bessel, il fallimento di tutti i tentativi precedenti di misurare la parallasse delle stelle era stato usato a lungo come argomentazione scientifica contro la teoria eliocentrica copernicana: si ragionava che se la Terra orbitava davvero intorno al Sole invece di essere al centro del sistema solare e dell’universo, allora si sarebbe dovuto notare un cambiamento nelle posizioni delle stelle nel corso dell’anno, con variazione massima ogni sei mesi: ma non si vedeva nessun cambiamento, per cui la Terra doveva essere al centro. Per gli astronomi di quei tempi, per esempio Tycho Brahe (1546-1601), era semplicemente inconcepibile che le stelle fossero così immensamente lontane da non avere una parallasse osservabile con gli strumenti dell’epoca.
Gli scalini della scala dell’Universo
La parallasse è da tempo uno dei metodi più efficaci e versatili per misurare le distanze dei corpi celesti. Intorno al 150 a.C., Ipparco la usò per stimare la distanza della Luna dalla Terra. La sua tecnica fu semplice ed è facilmente ripetibile: due osservatori astronomici situati in luoghi differenti della Terra e sullo stesso meridiano misurano la posizione della Luna nel cielo nello stesso istante. La distanza fra i due osservatori, la conoscenza della circonferenza terrestre (nota grazie ad Eratostene, 276-194 a.C.) e un pizzico di trigonometria permettono di ottenere il valore della distanza Terra-Luna.
Non avendo ovviamente orologi per sincronizzare le osservazioni, Ipparco usò il cielo stesso come orologio di precisione: fece fare le due misurazioni durante un’eclissi solare, che era totale nell’Ellesponto (i Dardanelli odierni) ma parziale ad Alessandria d’Egitto, dove la Luna copriva solo i quattro quinti del diametro angolare del Sole. Un quinto di questo diametro angolare equivale a circa 0,1 gradi: sapendo la distanza fra le due località, con la trigonometria stimò che la Luna era a 90 raggi terrestri, ossia circa 570.000 km. Oggi sappiamo che la distanza effettiva è un po’ meno (varia da 363.000 a 405.000 km), ma comunque il risultato è notevole, considerati gli strumenti a disposizione oltre duemila anni fa.
Un altro metodo fattibile con gli strumenti moderni consiste nel misurare la differenza di posizione rispetto allo sfondo delle stelle fisse in due foto scattate contemporaneamente da due luoghi differenti che si trovano a una distanza nota.
L’assenza di parallasse nelle osservazioni della supernova del 1572 permise invece a Brahe di dimostrare che la nuova stella comparsa in cielo in quell’anno nella costellazione di Cassiopea, visibile a occhio nudo (più luminosa di Venere) e fonte di superstiziosa inquietudine in tutto il mondo, era ben più lontana della Luna e quindi non era affatto una cometa senza coda come si ipotizzava. Sempre la parallasse gli permise di dimostrare che le comete non erano fenomeni atmosferici ma erano corpi celesti ben più distanti.
La stessa tecnica permise anche di misurare la distanza Terra-Sole, ma ci vollero duemila anni di attesa rispetto alla distanza Terra-Luna, fino al 1769, e fu necessario piazzare astronomi in luoghi lontanissimi del nostro pianeta, mandandoli per esempio fino a Tahiti e sincronizzandoli accuratamente fino al secondo. Questa misurazione fu considerata una questione scientifica così importante da ottenere lo sforzo coordinato di due paesi in guerra (Francia e Inghilterra). Infatti sapendo questa distanza si potevano usare le leggi di Keplero e Newton per determinare le dimensioni dell’intero Sistema Solare, fino ad allora sconosciute. Si sapevano infatti i rapporti fra le distanze planetarie, ma non le distanze stesse. Per scoprirle bisognava misurare la distanza fondamentale Terra-Sole, la cosiddetta unità astronomica (UA).
Osservazione del transito di Venere da Tahiti nel 1769. L’astronomo fu portato lì dal capitano James Cook. Fonte: Universe Today. |
Il problema è che il Sole è troppo luminoso per poter vedere le stelle sullo sfondo e usarle per misurare la parallasse, per cui è necessario ricorrere a un trucco: attendere un transito del pianeta Venere davanti al Sole. Sapendo esattamente quanto dura il transito da due punti differenti della Terra, si può risalire alla distanza Terra-Venere e da lì alla distanza Terra-Sole. L’astronomo Jerome Lalande usò i dati raccolti da due spedizioni intercontinentali durante due transiti, quello del 1761 e quello del 1769: il suo risultato fu 153 milioni di chilometri, con un errore di circa il 3% rispetto alle misure odierne ben più precise.
Improvvisamente, verso la fine del Settecento divenne possibile capire quanto fosse gigantesco il Sistema Solare. E sapendo il valore di quest’unità astronomica si poté, meno di un secolo più tardi, determinare la distanza delle stelle e capire quanto fosse spaventosamente vasto l’oceano cosmico nel quale ci saremmo avventurati due secoli dopo con sonde come New Horizons.
Per misurare distanze ancora più grandi servono altre tecniche: ma questa è una storia ancora più avventurosa, da raccontare a parte.
La scienza è fatta così: un risultato si basa su un altro che a sua volta si basa su un altro, e così via. Con varianti della stessa tecnica, abbiamo scoperto la distanza della Luna, poi quella del Sole, quella dei pianeti e infine quella delle stelle. Tutto dimostrabile e verificabile, un passo dopo l’altro. A patto di voler studiare.
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