Avatar, un'assoluta festa per gli occhi
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Grazie alla Rete Tre della RSI stamattina ho visto in anteprima al cinema l'edizione italiana di Avatar di James Cameron.
Sì, la storia è ultra-prevedibile, una vera collezione di cliché, forse intenzionale per raggiungere un pubblico planetario, anche se il messaggio non è da sottovalutare (peccato che molte allusioni si perdano nella traduzione). Ma visivamente Avatar è straordinario.
Il 3D funziona, finalmente, creando profondità e realismo senza dare fastidio ed eccedere in trovate. L'immagine è luminosa e i colori del mondo alieno sono ricchissimi, l'ambientazione è magica e immersiva, l'azione è coreografata da un virtuoso. Gli alieni digitali sono talmente ben fatti che dopo pochi istanti ci si dimentica che sono creazioni computerizzate, e tutte le battute che descrivono Avatar come Balla coi Puffi vengono smentite. Questi personaggi digitali sono vivi. Recitano. La versione aliena del viso di Sigourney Weaver, in particolare, è mozzafiato, e Gollum pare improvvisamente di cartapesta. Neytiri (Zoe Saldana) farà frullare gli ormoni a tutti i furries. E forse non solo a loro.
Decisamente Avatar ridefinisce gli standard della cinematografia e mostra come si combatte la pirateria cinematografica: ridando allo spettatore un'esperienza che non può in alcun modo replicare al di fuori del cinema.
Più tardi vi racconto i dettagli, compresa la visita agli impianti di proiezione digitale 3D. Intanto prenotatevi un biglietto in una sala 3D fatta come si deve (con occhialini attivi, non la robaccia polarizzata) e non prendete nulla di diuretico prima della proiezione.
Lost in translation
Rieccomi. Come dicevo nella minirecensione a caldo qui sopra, Avatar non è un trattato di sociologia e non scontenterà certo i fan dei kaboom rompitimpani e delle scene d'azione, ma ha molti spunti di riflessione. Fra un'esplosione e l'altra c'è spazio per un messaggio ecologico molto chiaro ma non martellante. Alcune allusioni, purtroppo e inevitabilmente, si sono perse nella traduzione italiana. Per esempio, visto lo scempio egoista che gli umani fanno del magnifico, caleidoscopico mondo alieno, non sembra casuale il fatto che il cognome del protagonista sia Sully: in inglese, to sully significa "macchiare, sporcare, danneggiare la purezza di qualcosa".
La battuta di Sully (Sam Worthington) sulla sua appartenenza al "clan dei Jarhead" sarà stata capita da pochi: jarhead è il termine dello slang militare che indica i Marines degli Stati Uniti. Sarà andata meglio con "Non siete più nel Kansas", riferimento al Mago di Oz? E da quanti verrà capita la battuta sui metodi spicci del capitano Kirk di Star Trek, riferita alla Serie Classica più che al nuovo film?
Il minerale tanto desiderato dai terrestri si chiama unobtainium: è il termine che si usa, soprattutto in aeronautica e astronautica, per riferirsi ironicamente a un desiderabilissimo materiale dalle proprietà straordinarie, che risolverebbe perfettamente uno specifico problema tecnico ma ha il difettuccio di non esistere. Ha anche un simbolo: Uo.
Un altro aspetto piuttosto controverso, in gran parte perso nel doppiaggio, è che oltre al richiamo visivo evidente alla cultura pellerossa, in originale praticamente tutti gli alieni parlano con voci di persone di colore. La cosa non ha mancato di suscitare polemiche, soprattutto negli Stati Uniti, perché il messaggio del film cambia da un semplice "noi umani siamo devastatori senza scrupoli" e diventa un ben più provocatorio "noi bianchi siamo devastatori". Hmm...
Senza rivelarvi troppo della trama, ci sono molte altre allusioni all'attualità o alla storia contemporanea: le foglie che fluttuano nel fumo prima del collasso di un oggetto molto importante ricordano le immagini dei fogli di carta che svolazzavano surrealmente prima del crollo delle Torri Gemelle. E stavolta sono gli umani, anzi gli americani – quelli che dovrebbero essere i "buoni" con i quali normalmente ci identifichiamo – a compiere atti di terrorismo.
Il parallelo fra l'invasione di Pandora e quella dell'Iraq è fin troppo evidente, non solo in varie battute ma anche nella questione della sedia a rotelle di Sully: certo, nel 2154 la tecnologia può guarirlo, ma il governo non passa ai propri soldati menomati il top della tecnologia. Costa troppo. Esattamente come ai veterani statunitensi mutilati vengono rifilate protesi d'anteguerra, nonostante ci siano soluzioni ben più moderne. E i soldati sono chiamati a difendere gli interessi di una corporazione anziché quelli della nazione. Completamente perduta, nella traduzione italiana, la citazione dell'espressione "shock and awe" che tanto assurdamente caratterizzò nei media l'attacco all'Iraq e divenne il simbolo dello scollamento dalla realtà di molti militari e politici.
3D e personaggi digitali che funzionano
Usando tecnologie sviluppate appositamente, il regista James Cameron è riuscito a togliere al 3D la sindrome della baracconata e a farlo diventare naturale e arricchente, come il passaggio dal bianco e nero al colore.
Le scene hanno profondità, non rilievo come nei film 3D precedenti: lo schermo sparisce e diventa un'enorme, nitida finestra sull'azione che si svolge oltre lo schermo. Soprattutto è quasi completamente sparito l'odioso effetto "sagoma di cartone" che in passato faceva sembrare che persone e oggetti nei film 3D fossero sagome piatte proiettate su piani differenti. In Avatar gli oggetti e i personaggi (digitali o reali) sono finalmente solidi, tondi, con un effetto estremamente naturale, tanto che ci si dimentica facilmente che il film è in 3D. Quando una tecnologia diventa invisibile, è segno che è matura.
Il rendering dei personaggi digitali e degli ambienti è drasticamente superiore a qualunque tentativo precedente. I pori della pelle, le rugosità e i riflessi, le smorfie d'espressione, lo sguardo degli alieni Na'vi, le trasparenze e i movimenti degli animali fantastici, la loro interazione con gli oggetti e fra di loro, i giochi di luce sono resi in modo sorprendentemente convincente e impossibile da apprezzare attraverso un'immagine statica. Vanno visti in movimento, in 3D e ad alta risoluzione, non in un video di Youtube. Men che meno in una copia pirata scadente. Se piratate Avatar, non avete capito nulla del senso del film.
Storia planetaria di cliché
Avatar è concepito vistosamente per essere comprensibile a un pubblico mondiale di qualsiasi estrazione culturale (non potrebbe essere diversamente, visti i suoi costi): per questo ha un messaggio semplice e universale e una narrazione lineare. Ma questa semplicità è stata ottenuta sacrificando ogni possibile sorpresa nello svolgimento della vicenda. Ogni evento è assolutamente prevedibile; ogni personaggio segue rigorosamente il cliché. Sarebbe bastato qualche guizzo di originalità per farne un capolavoro. Peccato.
Tuttavia la potente, ricchissima creatività visiva delle immagini fa sopportare questa carenza. Per due ore e quaranta ci s'immerge in un mondo diverso. A un prato fiorito mosso dal vento e accarezzato dal tramonto non chiediamo di raccontarci una storia. Lo ammiriamo e basta. Avatar è da prendere così.
Nerd porn: un giro in sala proiezioni 3D
Quella scatoletta rossa che vedete qui accanto, nella mano del gentilissimo proiezionista del Cinestar di Lugano che mi ha concesso di fare una capatina nella sala del proiettore digitale e fare qualche foto, è Avatar 3D. Tutto lì dentro.
Niente pellicola: solo un hard disk che contiene un file cifrato da circa 155 gigabyte, compresso in JPEG2000, in formato 2048 x 858 a 48 fotogrammi al secondo (il doppio di una proiezione 2D). Sull'etichetta, oltre al titolo del film e ai dati tecnici, c'è anche la scritta "Redbird": il nome in codice usato per non far sapere che si trattava di Avatar durante le prime spedizioni dei dischi alle sale.
Il disco arriva nella scatola imbottita nera che si intravede dietro, sul tavolo, e il proiezionista copia il file al server tramite una normale porta USB. Da lì, una volta sbloccato con la password, che ha scadenza giornaliera, il film viene proiettato tramite un proiettore digitale da 2K (2048 pixel orizzontali) e 5 kW.
Il proiettore è comandato da una postazione sulla quale gira Linux (chiedetevi perché) e che intravedete a destra nella foto qui di fianco. Il proiettore è l'oggetto sopra il rack; il server è quello con le maniglie, dentro il rack.
E per finire
La cosa più brutta di tutto il film? La canzone sui titoli di coda. Pareva Céline Dion che cercava di togliersi di dosso un gatto impigliato nei capelli. Usando una motosega. Al secondo posto, la scomodità degli occhialini per chi ha una canappia ossuta come il sottoscritto. Ma ne vale la pena.
Come dice il critico cinematografico Rogert Ebert, vedere Avatar al cinema fa provare le stesse emozioni che si provavano nel 1977 di fronte a Guerre Stellari: il piacere di uno spettacolo mai visto e la consapevolezza di assistere a un punto di svolta della storia della cinematografia. Buona visione.
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