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2017/07/27

Debunking “fa più danni che altro”, scrive Repubblica. Da che pulpito

Questo articolo vi arriva gratuitamente e senza pubblicità grazie alle donazioni dei lettori. Se vi piace, potete farne una anche voi per incoraggiarmi a scrivere ancora. Ultimo aggiornamento: 2017/07/31 9:50.

Sì, ho letto l’articolo di Repubblica intitolato “Bufale, il debunking fa più danni che altro. E le fake news resistono“ di Simone Cosimi (copia su Archive.is); grazie a tutti quelli che me l’hanno segnalato. La mia opinione resta quella che avevo scritto qui nel 2015, prima di conoscere Walter Quattrociocchi (coautore della ricerca citata da Repubblica) durante la consulenza #Bastabufale per la Camera dei Deputati.

Primo, siamo sicuri che il campione di riferimento sia rappresentativo? È composto da americani, e per di più su Facebook. E con tutto il rispetto per Zuckerberg e le sue ambizioni, Facebook non è ancora la realtà. Vorrei anche far notare che gli americani non rappresentano il mondo, anche se molti di loro, specialmente in politica, ne sono convinti. Per cui non ho nulla da dire sul metodo, per carità, ma ho qualche dubbio sul campione al quale è stato applicato. Resto dell’idea che usare Facebook per vedere chi si converte dal complottismo sia come andare allo stadio durante un derby per vedere chi cambia squadra del cuore. Anche perché nel mondo normale ogni tanto la gente cambia idea e lo fanno persino i complottisti: leggete questa confessione di un complottista pentito. E non è un caso isolato, perché come lui ne ho incontrati molti altri. Se fare debunking salva qualcuno, è meglio di niente. E oltretutto a me piace farlo.

Secondo, il debunking non si fa per convertire i complottisti, ma per informare gli indecisi. Che non fanno parte delle due “tribù” citate da Quattrociocchi e colleghi. Lo studio citato da Repubblica guarda solo i due gruppi estremi e ignora del tutto la massa degli incerti che sta in mezzo. Affermare o insinuare che lo studio si applica alla totalità della popolazione è fare fake news. Invece il debunker non si rivolge alla nicchia degli arrabbiati e convinti, ma alla massa delle persone che cercano di farsi un’opinione ragionando. Matteo Flora lo riassume bene in questo suo intervento video.

Terzo, da che pulpito vien la predica: il successo delle bufale e delle notizie false è dovuto anche al fatto che i giornali, come Repubblica, pubblicano qualunque fesseria senza controllarla, purché generi clic o sia conforme all’ideologia che vuole promuovere, e al fatto che i programmi televisivi diffondono ogni sorta di panzana, purché faccia ascolti (Voyager e Le Iene, per citarne qualcuno), fregandosene delle conseguenze sociali (vaccini, BlueWhale, riscaldamento globale, eccetera).

Quando ho moderato il tavolo di lavoro dei media alla Camera dei Deputati, che radunava molti responsabili di testate e di agenzie, ho sentito tante belle promesse, ma non è cambiato nulla: il valzer delle vaccate continua indisturbato, di rettifiche manco l’ombra e il fact-checking tanto vantato è tuttora latitante.

E adesso Repubblica si autogiustifica dicendo che tanto il debunking non serve a nulla. Anzi, “fa più danni che altro”. Perché le vostre balle invece hanno fatto bene, vero Repubblica? Vogliamo parlare di quando pubblicavate notizie sull’ISIS prendendole da Lercio? O di quando illustravate la marcia anti-Trump usando una foto del 1995? O di quando mostravate foto false delle gelate? O di quando la vostra Silvia Bizio spacciava suo nipote per un passante qualsiasi per fare una finta intervista? O di quando avete scritto che gli aerei presto avrebbero volato “al quadruplo della velocità della luce”? Potrei andare avanti a lungo: questi sono solo alcuni campioni recenti della mia piccola compilation delle vostre notizie false. Prima di parlare di chi fa danni, fatemi la cortesia di guardarvi in casa: se “le fake news resistono”, la colpa è anche vostra che le pubblicate.

Quarto, metto da parte un momento il rapporto di amicizia con Quattrociocchi perché a distanza di due anni dalla pubblicazione iniziale siamo ancora senza una risposta alla domanda fondamentale sollevata dalla ricerca: se il debunking non serve, allora che facciamo? Ci arrendiamo al rincoglionimento generale? Lasciamo che i bufalari guadagnino indisturbati?

Finora l’unica risposta che ho visto è data da queste parole di Fabiana Zollo, prima autrice della ricerca: “Il debunking e l’attacco frontale ai complottisti non sono antidoti al propagarsi di fake news. Piuttosto, l’uso di un approccio più aperto e morbido, che promuova una cultura dell’umiltà con l’obiettivo di abbattere i muri e le barriere tra le tribù della rete, rappresenterebbe un primo passo per contrastare la diffusione della disinformazione e la sua persistenza online”.

Io vorrei tanto che qualcuno mi spiegasse in cosa consiste concretamente questa “cultura dell’umiltà” e quale sarebbe questo “approccio più aperto e morbido”. Provateci voi, a frequentare un forum di complottisti e restare umili, aperti e morbidi. Fateci vedere come si fa, perché francamente più di quel che facciamo non saprei cosa fare. Noi debunker lavoriamo quasi sempre gratis, spesso senza protezione giuridica, riceviamo insulti e minacce pur non insultando mai nessuno, e ancora non basta?

Debunker sì, leccapiedi no. Quelli, se li volete, li trovate nelle redazioni. Quelle dove chi scrive cazzate prende uno stipendio. Pagato da voi che comprate i giornali o li sfogliate online facendovi monitorare o monetizzare dai pubblicitari.

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